Nemo


18
Dic
2011

Tre sorrisi

Tre sorrisi per te.
Il primo,
che ti ho visto sbocciare in quel lontano Maggio,
che ho visto morire e rinascere più volte,
arrendersi, lottare,
poi ancora arrendersi ed infine
cercare le mie braccia
allontanarle ancora
e ancora….

Ancora tre sorrisi.
Il secondo distrattamente si muove
perso nella tua presenza.
La mia infanzia negata.
Timidamente riscoprivo la delicatezza
nobilitando l’anima mia prodigandola
a te.
Convergendo in te,
la solitudine perfetta…
in te,
con te,
il mio motivo.

Tre sorrisi,
l’ultimo,
prima che lo sguardo si perda
ed il labbro si pieghi,
prima d’essere tramortito dall’emozioni.
Prima di azionare quelle meccaniche
che vengono a difendermi
da quel vecchio dolore che torna
e,
questa volta,
evitarlo, vincerlo…
Ma stanco di lottare, sorrido pensando
d’aver agito sgraziatamente per amore,
ed in fine,
da uomo,
t’ho sacrificata al mio orgoglio,
proprio dimenticando la cosa più importante…
la natura dell’amore.

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30
Nov
2011

Circa la giusta distanza tra gli astri

Ti lascio il mio cuore,
cuocilo pure quanto vuoi,
nuove lodi annunciano il mio mattino.
Luna, farai il tuo tempo,
continuerai a girare, continuerai a splendere,
continuerai a vegliar su di loro,
che si amano e
si odiano e
infine restano insieme

nel silenzio.

Ho già sentito il tuo freddo,
i tuoi spazi,
dove la luce viaggia al buio.
quante vite ho vissuto lì.
E ad ogni nome un’identità
contribuendo, così, a scacciar la mia.
Quanti inverni imbrigliato in quei rapporti,
cercando l’equilibrio in quei reticoli.
era tutto un ruotare.
Tra Corpi che si attraggono e respingono
giocando l’un l’altro.
Ecco dove t’ho perso, mia Dama,
ai dadi,
sul tavolino c’erano così tanti Soli
che per un attimo ho smarrito il senso
del mio giocare.

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15
Nov
2011

Quattro movimenti

I movimento.
Allegro:  Ecco che barcollante s’avvia sulla strada muovendo a passi incerti verso casa.
Guardandosi attorno senza tuttavia distinguere nulla offre sorrisi affaticati a passanti pronti nell’incoraggiarlo a transitare oltre, ed egli va’, avanti, un passo indietro, poi ancora …
avanti.
La milza è un coltello conficcato ai lati dell’addome, il respiro refluisce, torna indietro, risale,  fuori e dentro, a volte ingerito, altre ancora si perde a gonfiargli il diaframma.
Tranquilli, non sta’ morendo, è soltanto la fine d’un’altra giornata pronta e persa nelle sue tasche.
Giovane e idiota, difetti non meno di altri, ecco chi è Gionatan, un tipo sulle sue, non prende in prestito niente da nessuno, neanche le frasi, talmente diffidente com’è, ed ora sono le due, mentre i fari delle auto lo riportano alla luce eccolo che annaspa. Muori allegro, muori ora! Sciogliti in questi sorrisi distratti, perditi, oppure trovati, ma fa in fretta, che il tempo è lago con le pietre, attento!!
Potresti non tornare più a galla.
Perplessi lo guardano i gatti poco prima raschianti il rusco, si dileguano svelti al suo inveirgli contro.
II Movimento.
Adagio: la Paraplegica di Via Ruggi è ancora in piedi nonostante l’ora, il grammofono acceso rende giustizia alle sue ansie notturne, la puntina appoggiata sul disco libera un Dimitri Shostakovich intento nel suo Waltz, suona per lei, le avvolge il cuore, lei che alla disperazione ha sempre risposto con grinta e generosi silenzi. Ed ora i suoi occhi si lanciano oltre la finestra, si perdono in ciò che riescono a vedere, pieni d’attesa, s’aspettano qualcosa di diverso dalla solita via ed infatti quel qualcosa è lì e barcolla, mentre cerca le chiavi. Con tenace pazienza lui le prova una ad una, sbuffa, cambia chiave, riprova. Si ferma un attimo morso nell’esofago  dall’alcool, respira e ritorna alla minuta serratura, pronto a riprovare.
Lei scuote il capo, sospira,  spinge la sedia, giunge al citofono, apre la porta.
Ed ora sente i suoi passi salir goffi e ad ogni passo suo figlio sempre più vicino, e già la tranquillità le ripropone il sonno  rapito dal timore.
Che madre! Questo pensava Gionatan mentre svuotava la vescica tutto solo nel suo bagno, avessi la metà del suo carattere!
Sarebbe anche troppo per un uomo solo.
III movimento.
Andante: percussioni, buio, suoni tribali, paura, rabbia, spavento.
Sono mani forti a battere il petto alla porta del cesso, certo non sua madre.
Il nostro prodigo è a terra, ha ancora il pisello fuori dai pantaloni. Sporco giace ad occhi chiusi mentre lei, dall’altra parte, lo chiama, <<Figlio, ti prego, apri!!!>>
Fosse facile! Ma la nausea lo trattiene mentre i paramedici sfondano la porta.
La donna è spaventata, il figlio non risponde.
Mani scuotono il suo corpo, lo appoggiano schiena al muro.
<<Vi prego, rivestitelo!>>, ed uno dei quattro con gesto di stizza, scorbuticamente,  gli tira su i pantaloni. <<Come sta’?>>.
Gionatan sente sua madre mentre osserva a contorni sfocati, <<allora!?>>,  e si!
È proprio sua madre! Sente la sua pena sottile nascondersi dietro il tono di voce.
<< Come sta!?>>,ed ora uno dei quattro seccato risponde  << come sta!? Come sta!? È  un alcolizzato signora, come deve stare? Ed ora per favore si tolga dalle palle che noi qui abbiamo da lavorare, non stiamo certo seduti, come lei!>>.
La donna non risponde, ammutolita, resta ancorata alla sua sedia.
Colpita nell’orgoglio.
Ed è un grande orgoglio quello di donna, tanto grande quanto indifeso e vulnerabile,  mentre l’operatore sanitario continua <<questo ragazzo l’avrà pur tirato su’ qualcuno. Signora, è colpa vostra!>>.
Ma il ragazzo sente tutto.
Gionatan grugna. L’infermiere ride, <<che faccia cattiva! È  proprio feccia!!>>, <<…>> la donna avvilita non risponde. Suo figlio è a terra.
Un detto recita: non stuzzicare la bestia ferita. L’odio arma le braccia più magre, e il nostro ragazzo ha muscoli forti,
utili nel lavoro (così scarica casse al mercato) e nell’offesa.
IV movimento.
Giga: La prima pagina del Resto del Carlino non tratta di politica questo 15 Novembre, è un fatto di cronaca a prenderne il  posto.
Trascurando i nomi, quello che emerge dal racconto è che uno sbandato soccorso in casa, nei pressi di Via Murri, a tarda notte ha malmenato i paramedici del 118.
In giro gli augurano il riformatorio, per molti è l’ennesimo caso di mala-educazione giovanile, reietti da guarire, eliminare o respingere, lontano da noi e dalla nostra confortevole società civile.
Per me è solo uno dei tanti che, a differenza di molti, sa come difendere i suoi affetti.
Fossero stati gendarmi gli avrebbe percossi con la stessa intensità, perché,  per Gionatan, la giustizia non è un concetto astratto,
né un qualcosa verso cui tendere,
tantomeno un’insieme di norme.
Signori,
la giustizia è reale, è l’arte di distribuire a ciascuno il suo e quando non la si ha essa la si prende con la forza,
mentre la legge,
quella,
serve solo ad evitare d’ammazzarci  per strada.

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31
Ott
2011

Resti la mia guerra persa

Gentile signora,
le comunico con la presente che il vecchio Andò le ha lasciato un messaggio, accuratamente sigillato, in una busta postale. Nessuno (a parte me) sa’ cosa contenga.
In fronte reca il suo nome, Vittoria.
Martino era allora cieco, dovette dettarmela personalmente quattro anni fa’, fui io stessa a scriverla e a conservarla.
Ora che è morto, seppur convinta non fosse sua ultima intenzione farvela recapitare, eccola qui allegata.
Spero vorrà perdonarmi se m’arrogo un diritto che non mi spetta.
Il suo fu un dolore riservato.
Con affetto
La direttrice

                                                                                                                          Sarah Maria Bronner

 

Malinconia, ecco cosa provo!
Siedo stanco su di una roccia scomoda, il passato, e sono quattro giorni che le nubi coprono il sole. Caduta la pioggia, anche il cortile è diventato impraticabile, costretto al mio respiratore su di una sedia che non smetto d’odiare, tutto ciò che posso fare ora è guardare fuori queste infinite pozze d’acqua mitragliate dall’alto e pensare…
So che sai di cosa sto parlando, quindi frenerò la lingua, e morderò le labbra nel caso il di più dovesse far sue le mie parole.
Una serie di azioni, un insieme di movimenti articolati, asincronici, pur tuttavia interconnessi tra loro. Emozioni e pensieri, desideri e bisogni, consigli, riserbo, e volere, volere a venderne, sappi che in questo teatrino non c’eravamo solo noi. E avrei voluto maledire ogni mia paura, ma c’erano anche le tue, sarebbe quindi stato del tutto inutile.
Andavo via quel giorno, ricordo ancora il giornalaio alla stazione dei tram di Catania, andavo solo, era quel che volevo, niente di personale, colpa di nessuno, ero giovane, e da uomo chiedevo al mondo un’opportunità, dimostrare a me stesso di meritarmi il “lei”, ed oggi, da pessimo matematico, dubito ancora del risultato, senza perdere tempo e forze in inutili riesami.
Ho visto Milano, vissuto a Torino, poi Berlino, per tre anni minatore, finché non conobbi un tale di nome Gruener, che mi introdusse nel giornalismo, dapprima come semplice tutto fare, poi segretario, infine giornalista di inchiesta, una gavetta durata otto anni.
Finivo in Francia in quell’estate dell’ottantadue, mentre tu prendevi marito; quel presuntuoso d’un Rattanzi, uomo la cui spina dorsale non ha eguali, certo in peggio.
Ricordo i nostri carteggi, al come cercai di persuaderti, al come cercavi di convincermi a lasciar tutto e ritornare a casa, la mia, la tua, che sarebbe forse un giorno potuta essere nostra.
Ma tuo padre, i suoi bisogni di tranquillità, il tempo macinato come chicchi di caffè, non era facile, in più diffidavi di me, chiedevi un gesto forte mentre io, sotto assedio, lottavo ferito in quella che sarebbe stata la guerra del secolo, ed il colpo più duro me lo infligesti tu.
Da allora ho venduto cara la pelle, senza troppe voglie, senza quel bisogno, il più delle volte fuori luogo.
Ho preferito a quell’impreciso qualcosa il nulla, una vita all’insegna del lavoro, coltivando il mio giardino, i miei interessi nutriti ogni giorno, viaggiando, mettendomi alla prova con discreto successo.
Sono stato in Ciad dove ho criticato il governo Francese, nell’ottantacinque in Mozambico, una guerra civile da 1,050,000 morti, poi ancora in Sudan nell’ottantanove, ed in fine nel novantadue la Bosnia.
Conobbi un italiano, di nome Almerigo, ammazzato da un “proiettile vagante” a Caia mentre con la cinepresa stava filmando una battaglia fra i miliziani del fronte Renamo e quelli fedeli al governo in carica. Un’amicizia durata cinque anni quella tra me e Grizl. Almerigo moriva ed io ero lì, in Mozambico, lo guardavo boccheggiare come un pesce, soffocato dal suo stesso sangue. Ne rimasi sconvolto. Aveva una foto, come tutti del resto, tutti, tranne me, immeritevole di avere il tuo santino addosso, anche se, mentendo a me stesso, ti portavo nel cuore. Il suo sangue rappreso al ciglio di quella strada polverosa, fu la prima volta per me, così distante da casa e se da un lato la sua morte mi spingeva alla paura, al terrore e a riflessioni varie sulla vita, sul tempo, e sull’onere di questa nostra spesa, dall’altro mi portava a Sarajevo. La Bosnia, ma che dico!! l’adriatico intero! Tutto in tumulto, tutto pazzia, dissoluzione, era l’imbarbarimento di qualunque equilibrio sociale. Sadismo, crimini e tante mani imbrattate. Morivano gli uomini come bestie, morivano per niente, forse un tozzo di pane.
Ormai ero un altro uomo, e me ne rendevo conto quando le bombe ci piovevano in testa, me ne rendevo conto, quando guardando indietro andavo avanti alla cieca, per poi finire col non muovermi più, se per movimento intendiamo uno spostamento direzionale, nessuno spazio, nessun punto “a” a punto “b” ma oltre. Ecco, cara Vittoria, non esistevo più in quel mondo che tu immagini chiudendo gli occhi e che confermi riaprendoli, non era più così che io lo percepivo. Dentro il vuoto, fuori il nulla, mentre intorno solo un’insieme scoordinato di ingranaggi ferrosi, arrugginiti, il caos. Avrei potuto conoscerlo e capirlo, anche prevederlo, se la mia mente avesse potuto comprenderne ed individuarne ogni sua variabile.
Cooperai per un breve periodo con un tizio di nome Guido, Guido Puletti, mio amato amico, che nell’inverno del ‘novantatre intensificava i suoi viaggi in Bosnia finalizzandoli ad un progetto di solidarietà destinato alle città di Vitez e di Zvidovici.
Il suo convoglio fu assalito il 29 maggio di quell’anno, vicino a Gornji Vakuf , dai “Berretti Verdi” del comandante “Paraga”, Hanefija Prijc. Me lo ammazzarono (di nuovo) come un cane…
fucilato in una raduna lì vicino. Tornavo in Germania privo di forze poco dopo lo scoppio della guerra in Kossovo a seguito della morte di Gruener, anche lui freddato insieme al suo fotografo ed al suo interprete da un cecchino a sud di Pristina, lo riportai alla moglie.
Glie lo dovevo…
in fondo era grazie a lui che dalla miniera ero riuscito ad arrivare fino a lì.
Decisi così di smetterla con le inchieste. Era il ‘novantanove, avevo quasi quarant’anni.
Da allora ne sono passati dodici, di cui gli ultimi tre qui, in questo noioso centro di cure.
Mi trattano bene, chiedono un occhio della testa per le loro inutili terapie. La svizzera!!!
Non so quanto mi resti ancora da vivere, pare che i miei arti si siano gravemente indeboliti a causa degli sforzi fatti in passato, i nervi sono andati, e su quella strada marciano anche i polmoni. Non ci vorrà molto. Il dottore crede non sia tutta opera della guerra, sono infatti sintomi molto comuni tra minatori. Ironico, non trovi!? Alla fine mi hanno fermato…

avrei molto ancora da dire, ma quarantanni mi dividono dalle tue labbra.
La mia coscienza, segnata dal nostro incontro, ferita, non ha mai smesso di sanguinare per te.
Ti amo, t’ho sempre amata, ma ora è tardi, non servirebbe, sarebbe inutile e…
Mi dispiace.
Resti la mia guerra persa.
Tuo

Martino Andò

 

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28
Ott
2011

Spesso…

E inizia con un addio, <<ci rivedremo presto>>, così si pensava allora, ma le strade di notte sono buie e poco trafficate, i rumori si confondono, s’assottigliano, le macerie cadono, la città si spoglia e si fa invadente, vanitosa: ci scuote col suo laccio e ci toglie il respiro, lasciandoci spaesati, mentre la terra trema. È così che ci si perde, nelle vie, tra i segnali stradali, lì, su divani scomodi e letti scaldati d’altri corpi, in un giornale, ogni mattino, con qualcosa da fare, oppure nessuna. S’annusa il cambiamento, sempre imminente, sempre a due o tre centimetri da noi, respirando così l’aria che da esso ci divide, separati da metri cubi su metri cubi, e noi a nuotarci dentro, fino ad esserne esausti, perché questo cambiamento non arriva mai, oppure è già arrivato e continua! Il cambiamento ci prende a poco a poco, tutti i giorni, basta non pensarci. E arrivi al punto che non ci pensi più.
Ed ora la tua vita è in un blocco di pagine timide, prive d’inchiostro, imprecise, senza fango, senza troppi sussulti, senza le tue passioni, cancellate come i tanti errori ortografici, da una penna difettosa, incapace. Ricordi ancora come eri bravo nel perderti, annaspando inconsapevolmente nel niente, battuta la strada, facevi sempre ritorno a te, pronto a chiederti scusa. Di quel capitolo hai conservato poco se non nulla, vero!?
Inizia sempre con un addio, non che la gente ci creda sempre, delle volte risultano semplici formalità, e so che non sentivi le sue lacrime bagnarti il corpo quella notte, come del resto non badavi al suo cuore, né davi retta al tuo, troppo debolmente incoraggiato, lasciato esposto al sole, e al sale, si contorce rigido il vigliacco, pur di non essere ferito si ferisce da sé, tu e le tue manie!
Non t’ha cambiato il mito americano, né il Kossovo.
Non è stato un mitra, né il bombardamento alla stazione televisiva, non eri lì sotto, non hai visto cadere quei massi, l’unica pace che hai trovato l’hai alzata da sotto quei corpi, spezzandoti le unghie scavando, ma non è stato neanche questo; ormai la tua storia non la ricorda più nessuno, e chissà che la colpa non sia tua!
Hai semplicemente smesso di cercarti, così risolvi un problema, ti consegni alla stabilità, alla certezza, ma la vita è mutare, “il continuo muoversi”, rinnovandosi resta fedele a sé stessa, diversa ogni giorno, l’anima prende il corpo, gli suda sopra, si ritrae, poi ancora ritorna, imbrattandosi, vivendone il dissidio, lasciandosi toccare, compatendolo, poi accusandolo, ed, infine, scusandolo.
Ed ora hai tutto il tempo di pensare : Inizia sempre con un Addio, mentre chiudi gli occhi.

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02
Ott
2011

Dell’uccisione di Eratostene

Teofilo, dove guardi?
Esteta maledetto, volgi al terrore ed, allo stesso tempo, alla compassione.
Come un cane fai della tua cuccia la staticità, come un cane annusi e mordi chiunque infastidisca il tuo dramma.
Compassione perfetta, terrore puro, ecco di cosa hai fame. Rappresenti te stesso,  in te stesso ti perdi, e mi spingi ad una sola domanda, non cercando trovi il tuo; ma come puoi?
Ogni giorno, chino, pronto a sfamarti di nuove tragedie, ogni ora lì alla sbarra del tuo personalissimo dramma.
Avresti potuto forse perderti in qualcosa di più spurio, cedere ad un sentimento dinamico, che  spinge  l’uomo a cercare o ad allontanarsi da qualcuno o qualcosa, come l’amore … o l’odio,
ed allora la tua mente  avrebbe scavalcato il desiderio ed il tuo stesso odio, spingendosi in alto, osando, ma sarebbe stato solo un fenomeno fisico, ed il tuo solo sistema nervoso t’avrebbe governato… sconsacrandoti, gettandoti tra le fauci del più confuso ed incoerente dinamismo… preda ormai anche l’anima tua dei tuoi stessi tarli.
Quanta miseria in quest’arte, c’erto fasulla, volubilmente s’adorna di gioie e dolori, iscrivendo alla storia un nuovo fallimento, quello di chi cede… quello di chi accetta la sua condizione umana…
il destinato alla morte.
Ma, Nostro sublime, io vedo la tua immortalità, quella più umana, quella più pura. Il triste destino sosta alla fine della strada, aspetta tutti, aspetta te, e tu gli vai incontro mostrandogli  spalle e petto con orgoglio.
Cammini eretto in mezzo ai rantolii di chi s’accascia ai muri, di chi sosta, o come te va’, ma a tentoni, cercando con la mano le pareti della vita, sorreggendosi su di essa, inebriandosi, vivendole addosso, stordito dalla disperazione che si fa alcolica, che si fa tutto per finir niente.
Uomini come buchi nell’acqua.
Nell’intellegibile trovi quiete e riparo, protratto e poi dissolto dal ritmo del bello, dal vivere elegante, disciplinando tutto, raffinando tutto, eclissandoti nell’ideale, nutrendoti di idee.
Teofilo, per te l’amore prima che  sentimento è idea, ecco perché muori solo!
Per te la giustizia è  conquista e non legge, ecco perché siedi imputato.
Ed ora uccidi Eratostene dopo esserti procurato tre testimoni, dopo averlo trovato giacere nel tuo letto con tua moglie, così confondendoti; egli infatti è adultero, e più d’un violento che avrebbe potuto possederne il corpo, egli  ruba l’anima sua, lasciandoti dubitar di chi sia moglie, di chi siano i figli e la tua stessa casa!
Così non accetti i suoi averi, così uccidi un nobilitato, né per odio, né per vendetta, stai infatti adempiendo ad un dovere disciplinato dalle leggi: è la tua dignità quella che con forza difendi, il tuo concetto astratto d’amore e di famiglia stuprato nel tuo letto, violentato nell’intimo, ed il suo ripristino
ed ora…
rischi la morte.
La stasi luminosa del piacere estetico, ecco cosa vedo nel difenderti qui, oggi!

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14
Set
2011

la crisi

Via Stalingrado. È  mattino. Un sole timido scalda l’asfalto d’una grande città. Non sono che le sette e un quarto, e già macchine in fila, strade intasate e finestrini abbassati. Tutti fermi al terzo di quattro semafori ad annusare lo smog. Il nostro automobilista è lì col suo alito fresco, la sua camicia firmata, al collo porta le sue iniziali e su quello stesso collo una faccia non molto sveglia.
Quand’ecco che un ometto malvestito s’avvicina alla vettura, porta con sé uno straccio ed un secchio. I due si fissano, il finestrino è per metà abbassato, l’ometto sorridendo fa  <<Hey tu. Dico a te!>>, l’incredulo  automobilista sospettosamente volge il viso a destra e mancina, forzando la coda dell’occhio cerca altri, convinto che d’altri sia l’insolita conversazione. Non notando nessuno risponde <<a chi!? A me?>>.
Adesso  l’ometto è ancor più vicino all’automobile,  <<si, proprio a te. Sporgiti>>, << Cosa!?>>, alla radio Cirrus Minor, un pezzaccio del sessantanove, si coniuga bene alle prime luci del sole, << su, avanti, di cosa hai paura, guarda, non mordo mica!>>. L’aria è ancora fresca, non come quella del pieno pomeriggio, viziata, dalle temperature, dal mondo, dall’umidità. <<su avanti! Ho qualcosa per te>>. Il guidatore diffida, e più lo sconosciuto sorride, meno questi si sente d’assecondarlo, e meno si sente d’assecondarlo, più s’odia, amareggiato forse dalle sue tante mancanze e debolezze, egli infatti vorrebbe fidarsi, ma non riesce, inutile, certamente vittima di luoghi comuni socialmente tipizzati.
L’ometto è fetido, l’ometto è scarno, chiaramente in rosso ed il verde non scatta, il verde s’attende. Secondi come minuti, mentre il primo della classe dal basso del suo sedile non sa come reagire. Migliore è chi si fida, certo! E già pensa a come saltar con cortesia la strana richiesta. <<hai bisogno di soldi? Vuoi qualcosa da mangiare?>>, << grazie, ma di soldi non ho bisogno…>> eppure  così non sembra, poi aggiunge <<…ho solo qualcosa per te, permettimi di farti un regalo, sporgiti!>>.
Lonesome and a long way from home, mentre la gran cassa incomincia a vibrare. Nella macchina, ora, un mondo di suoni ed un chitarrista che certo sa quanto basta! Una nuvola audace scopre il cielo che da’ al sole più giogo. La luce tocca il vetro, l’oltrepassa, infilza una bottiglietta d’acqua e si rifrange nel retrovisore. Il nostro automobilista ne resta per un attimo accecato.
Un presagio, lo è senz’altro, questo pensa, mentre si ripete;  fidati, oltre le apparenze, ecco la direzione, la strada è qui, la strada è ora, ma devi essere svelto, che il semaforo non da’ altro tempo, qui più nessuno ne ha.  Prezioso, il tempo è danaro, oppure un’arma, certo nelle giuste mani. Rock and roll is dead, le auto davanti dan colpi di clackson, accelerano, sgasano, annunciano il via. <<Avanti, su! Che ti costa!?>>. Il guidatore pare pensarci seriamente, i due continuano a fissarsi. <<va’ bene, abbasso il finestrino, ma non fare scherzi!>>, il tizio annuisce poi aggiunge << dai su, fai in fretta, altrimenti scatta il verde!>> . <<fatto!>>, <<sporgiti>>, <<cosa devi fare?>>, <<è una sorpresa!>>, <<sicuro tutto ok!?>>, <<certo, tutto ok!>>, <<allora mi sporgo!?>>, <<ma sei scemo? Certo che si!>>. Il giovane finalmente si sporge.
Quattro signori conversando attorno ad un tavolo spalancano la bocca sgranando gli occhi.
Uno dei quattro li stropiccia più e più volte, poi fa’ agli altri tre <<dovremmo intervenire!?>>. Ed ora è il cameriere a tranquillizzare i suoi clienti. << comodi, comodi! È sempre la stessa scena, la vediam tutte le mattine alla stessa ora>>, <<dice sul serio?>> ,<<certo!>>.
<<ma è un pazzo!?>>, <<o cielo, no. direi proprio di no!>>, <<e allora!?>>, << solo uno che ha  perso il lavoro, ora fa il lavavetri…>>, il cameriere si ferma un attimo, sospira,  <<…e prima di iniziare col suo nuovo lavoro, sceglie l’idiota più pulito della fila e lo prende selvaggiamente a sberle, ogni giorno, alla stessa ora!>>. <<…>> i presenti in silenzio, guardano ora perplessi, <<robe da matti>>, <<… e botte da orbi!>>.
Ora scatta il verde. Gli ultimi due colpi vanno a vuoto…

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03
Lug
2011

Brand Fossil

Ci intrufoliamo in casa d’altri, come ladri rubiamo notti a persone stanche d’esser lì dove sono, prendiamo il meglio della vita, le scivoliamo dentro, nelle vene, ci confondiamo all’emoglobina. Pesto a morte globuli rossi per rubare il loro ossigeno, li picchio forte, con una chiave inglese, la  numero 46. Non capisco il loro dolore, non piango con loro, più semplicemente non ci penso. Respiro, torno dentro, poi riemergo. Mi  mescolo al corallo, sono crosta, sono pezzo di terra, lembo di mare, il cielo è immobile. Non capisco; perdo  coscienza in cosce troppo strette, salto fuori come una quaglia in salotto, batto a terra, rimbalzo per poi rotolare sul pavimento d’una vecchia cascina di non so qual quartiere.  Il rachitico in piedi picchia sua moglie con un cucchiaino, lei si mette a gattoni lasciandosi così sculacciare, poi e il suo turno, ed allora è il marito a mettersi a pecora. il ragazzino in carne che attraversa il corridoio vede la scena, ma non sembra considerarla minimamente, è sempre la solita storia per lui, i suoi genitori non hanno le idee chiare questo è ovvio, ora deve pensare a nutrirsi, muove verso la cucina.
il frigo di una piccola villetta d’un quartiere residenziale, sa esser delle volte alquanto pittoresco. Due yogurt all’ananas, una mozzarella, qualche succo di frutta, latte, verdure, insalata, due porzioni d’avanzi, barattoli riempiti con non so quale ortaggio ed una persona perplessa che continua a fissare china tra gli scaffali chiedendosi cosa mangiare, porta gli occhiali, il ragazzino gli cede il posto, ha una cravatta ed indossa una camicia rigata, pantaloni firmati, mocassini neri, mentre, sopra di lui, la fine d’una giornata piena ed all’insegna dell’emergere, o semplicemente del trascorrere nel modo più logico e gratificante possibile. Non può sapere della vicina alle prese con l’ennesima scarpa smarrita, persa per strada nella concitazione, un tacco da 15, tirano su un sacco di problemi tacchi così, soprattutto quando con quel tacco hai appena cavato l’occhio al tuo principe azzurro, eccola a metter annunci, preoccupata, alle tre del mattino. Appende alla corteccia degl’alberi del posto annunci con su scritto <<A.A.A cercasi>>, presto qualcuno la chiamerà. Due tizi di ritorno dalla notte la notano al ciglio,<<notte strana la nostra>>, <<puoi dirlo forte>>, ora uno dei due si ferma, <<hai visto anche tu quel gatto!?>>, <<quale gatto!?>>, <<il gatto nero che è passato!!>>, <<non ho visto nessun gatto!>>, <<quella bestiaccia c’ha tagliato la strada, torniamo indietro!>>, <<e dove andiamo!?>>, <<a farci un’altro goccio>>, << e facciamone un altro!>>. Ed è forse davvero quando si smette << di qua!>>  il momento in cui trovare  buone scuse per re iniziare, <<sei sicuro sia quella la casa!?>>, <<sicurissimo!>>, <<dici che non ci sono!?>>, << allora non m’ascolti tu! Sono partiti dopo pranzo>>, <<se mi ribeccano lo sai che mi fanno, mi danno questa, più l’altra sulla quale han sorvolato prima, finisce che ci resto per un po’!>>, << andrà tutto bene,  al Dozza non ci vai, non sta’ notte!>>. I due storpi saltano la staccionata, forzano la porta, prima però si guardano in torno, poi entrano, e alla svelta. La casetta è buia, i due passano la cucina, è tutto fuori posto, non capiscono. Sul muro del salotto una striscia, sembra sangue. Gli storpi fanno altri due passi, dietro il divano due corpi, un mezzo rachitico e sua moglie, sulle scale, accovacciato, il marmocchio in carne continua a mangiare, ora ha lui il cucchiaino, quei due idioti se la son proprio cercata, lui è nudo, lei a pezzi.  A suo padre han cavato un occhio, lui ha visto tutto ed ora ha un nuovo gioco con sé, una bella scarpetta. Il telefono continua col suo tu tu, tu tu, tu tu, un altro dei giochi del piccolo di cui è già stufo. Gli storpi perdono la calma, è davvero difficile trovare una via d’uscita in un momento così: è caos allo stato puro, non lo si può dominare, e i due se ne rendono conto, fan per indietreggiare quando uno di loro nota le luci a intermittenza riflettersi nella vetrata all’ingresso.  Blu, rosso, poi ancora, blu, rosso, e di nuovo, blu, rosso.
Ora, lui è seduto al tavolo, l’altro lo tengono altrove, e non sa proprio come spiegare al tenente che con questa brutta storia non centra nulla, ma ora è tardi, adesso ha una camera al Dozza, e nuovi compagni di cella.

 

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24
Giu
2011

Vous Avez L’Heure?

<<chi parte cambia  cielo, non animo, infatti costui si trovava poi  a viaggiar con l’unico individuo  da cui fuggiva realmente, se stesso>>, lui gli lancia un’ occhiataccia, poi risponde<< chi parte, parte! Il perché non importa a nessuno, neanche a chi dovrebbe! >>, e così tira fuori del rum dai tasconi del  cappotto,sorseggia, poi aggiunge <<questi treni partono sempre e sembrano  sempre  lasciarsi qualcosa alle spalle, eppure, l’unica cosa che lasciano siam noi qui a guardarli>>. Ora è il tipo col berretto a tirar su il cappello, per grattarsi la testa ossuta. Rimurgina su ciò che è stato detto, muove la mascella masticando qualcosa tra i denti, chissà, forse un paradosso; <<l’unica cosa di concreto che farai oggi è prendere questo treno, e chissà quanto ancora passerà prima che tu possa  farne un’altra. Lo sai, questo!?>>, <<a volte ci penso!>> il ragazzotto s’alza, allarga il torace;  il marciapiede è lì lasciato a se stesso, lo strano ometto lo accompagna ancora nel discorso, <<è questo il punto. Tu non ci pensi al resto, non come si deve!>>, << se non hai capito non capirai!>>,è proprio un paradosso e lui se ne accorge; ecco cosa mastica il triste ometto davanti alla stazione centrale d’un qualunque luogo geografico d’Italia. << vorresti vedermi restare e ti capisco, ma guardami, guardami bene,  vado avanti, lascio al resto il lasciabile, porto poco, l’indispensabile, addosso, sempre più avanti, e  lontano, sempre. Le cose andranno male!? Forse, ma anche cadendo…
faccio più di sei passi quando inciampo, lo sai!? Tu, questo, lo sai!? O sei forse troppo impegnato a pensare!? E  a guardare!? E poi, ancora, a riflettere!? E infine  maledire dio che  son io e non tu a vivere ora, e qui, dentro me!?  Ora salirò su quel treno, il domani lasciamolo al domani, solo per oggi, perché  a viaggiar vi s’affatica facilmente e tu questo lo sai, vero padre!?>>, << so che sei cocciuto! So soltanto questo, d’altronde non mi serve saper la strada per capire che non sarà una passeggiata, almeno non quella che io m’immaginavo !>>, << ma qui ci son io! Tu hai avuto le tue occasioni, le mie le sceglierò da me>>, << spero che tu ne sia in grado davvero e che non sia l’arroganza piuttosto a muoverti la lingua, perché da domani sarai solo, al mondo, solo>>, <<spero di bastarmi allora!>>. Il parlare è interrotto dall’arrivo d’un treno, l’ennesimo, il solito stridulio al binario tre, la macchina rallenta raschiando, poi si ferma, ancora un fischio.
La bestia s’apre piano, la gente scende la gente sale, le valige si confondono, i cappotti si toccano, è tutto un permesso, tutto un mi scusi, e di nuovo buon giorno, poi ancora è libero?  Tutto questo Gianni lo sa e se lo aspetta, quello che non s’aspetta è, di lì a sei anni, finire in Irlanda con un marmocchio masticando un
inglese
stentato!

 

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16
Giu
2011

Tre monti e una Social Card

Viveva tutto da lì, palazzina numero trentotto, otto piani, ventiquattro appartamenti, dieci famiglie.
Puntava diritto verso chissà qual dove, eppure andava, facendolo quasi in silenzio, da fermo.
Scioglieva il cuore così come un padrone slaccia il proprio cane, staccandogli il guinzaglio a strozzo mentre questi con forza tirava, ad annusare altrove, lasciandolo andare, senza  seguirlo.
<<Che vada! Tanto è inutile stargli appresso, si finisce fiacchi in men che non si dica!>>, questo si diceva, << che giuochi pure, quand’anche  si morda la coda, son fatti suoi, io glie l’ho dico sempre, ma  lui non m’ascolta!>>. Mangiava se stesso ogni notte, da quel balcone, scusandosi puntualmente coi vicini per il baccano. << sai urlare bene tu!? E allora urla! Non dirmi che non sai più come si fa, se vuoi t’insegno, avanti, prova!>>. E questi urlava, ogni volta e alla stessa ora, sempre dal suo piccolo privé, un posto riservato a chi non ha posto, come una donne gravida, come gli anziani, un disabile,  o meglio ancora, un triste subordinato a tempo con data di scadenza al tappo, un emarginato, razzista con sé stesso, pronto a trovarsi sullo scaffale, pronto a comprarsi, finiva in frigo, poi sul tavolo, apparecchiato per esser mangiato di nuovo, ogni notte, dopo il lavoro. Nutriva così le sue speranze, mangiandosi, e lasciandolo fare alla parte più cattiva di sé, quella che il lavoro sporco sa farlo, ed anche molto bene.  Una miscela di magnesio e potassio, il mondo chiama ed egli risponde sfinito ogni notte. Otto ore, sei giorni, un riposo a settimana, ferie da concordare, vacanze, come se fosse facile avere un posto, scegliere una meta, quando non c’è l’hai e a stento riconosci te stesso allo specchio. Rade la barba, poi il balsamo gel, brucia tutto, il suo viso è cotto, vissuto, forse anche troppo.
Conguaglio dell’acqua, conguaglio del gas, luce, internet, e buste che s’ammucchiano sul tavolo.<< pagherò domani, pagherò non appena avrò i soldi, senza debiti non pago, quanto devo!?>>. La vita non ha un prezzo, la vita ha un costo, la vita è un bene senza un valore determinabile <<la Corte la condanna a risarcire il danno subito dalla famiglia per la perdita del proprio caro>>,        ma determinato a volte, come un contratto a tempo. La vita… ad avercela, a sentirla propria, mentre affitta un appartamento, fa confusione, l’avrebbe comprato,<< non versiamo contributi qui>> come la macchina, << mi spiace non è in grado di fornirci le garanzie richieste per avere questa somma a mutuo>>  come la vita, come la casa, come il futuro, avrebbe comprato tutto, come l’anima, il benessere, e poi ancora l’anima, di nuovo, come il ventisette d’ogni mese, come sé stesso,  bollette sul tavolo, avvisi di pagamento a precederle, avvisi di pagamento a succederle,<< s’affidi a noi, siamo una tra le migliori assicurazioni sulla piazza, stipuli con noi la sua polizza, così se dovesse succederle qualcosa i suoi figli sarebbero quantomeno economicamente coperti>>. Viveva tutto da li, ogni singolo istante, giorno dopo giorno, non senso dopo non senso, dall’ottavo piano di via Farini, poi un bel giorno… << quanto avrebbero se mi dovesse succedere qualcosa!?>>… è finita!
Dicono che gli siano entrati i ladri in casa, ma voi
non credeteci!

 

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