“è un fatto scientifico” continuava a ripetere a se stesso “è un fatto scientifico che il mondo sia costituito da gerarchie d’importanza fondate sul possesso. La questione è nascere dalla parte dei giusti, o saper rettificare le attitudini meno condivise in tempi ragionevoli.” Inciampava di continuo in quel pensiero il Signor Moulenber, come fosse un sasso, uno di quei sassi appuntiti che circondavano la sua casa nel bosco. Quella litania era diventata la sua ossessione, era una tortura continuare a realizzare quanto fosse vera mentre il sole nasceva e moriva alle sue spalle. Per distrarsi il Signor Moulenber raccoglieva i fiori, era diventato lo zimbello del paese, ne faceva collane lunghissime e le lasciava ad essiccare dietro la porta affinchè chiunque entrasse in casa sentisse profumo di primavera. Si svegliava prestissimo per timore che qualcuno lo seguisse e s’insinuava nel bosco, dicevano tutti che fosse troppo strano, troppo diverso. Il giorno dell’eclissi di Sole il signor Moulenber camminava da solo nel bosco, sentiva bisbigli d’uomo dietro si sé, fingeva di non farci caso. Il giorno dell’eclissi di Sole si racconta s’udissero urla nel bosco, poi un colpo soltanto, sordo come il cielo, violento.
Infine il giorno si aprì, il sole tornò e del Signor Moulenber non si seppe più nulla.
Al Barocco, il venerdì notte, c’è un musicista con i capelli bianchi che suona il sax. La gente lo ascolta distratta, sorseggia malibù nel vocìo del locale. Qualcuno sorride, il bancone di legno è sempre umido di cocktail, ma non ci si fa caso, la luce opaca nasconde la sporcizia e l’odore dell’alcool inebria. Se vuoi ballare, al Barocco, devi alzarti dallo sgabello con discrezione ed avvicinarti alle tante donne sole che guardano intorno con aria un po’ persa, offrire loro da bere. A volte rifiutano, accade sempre che i cuori solitari non cerchino compagnia, ma vogliano soltanto stordire i pensieri al suono del sax che culla la notte. Se sei fortunato e ti risponde un sorriso, ti basta sfiorarle la mano e accompagnarla danzando. I pensieri diventano musica il venerdì notte, al Barocco.
Autunno inoltrato, cammino seguendo scie delicate di profumo sino a perdermi tra i passanti, sino a confondere suolo e cielo in un unico, indistinto, orizzonte raffermo. Vedo vite possibili ferme ad una stazione della metropolitana, le raccolgo dal marciapiede con disinteresse. Ho bisogno di prendere fiato e uscire di casa, di diventare albero, pietra, luce, di passare attraverso la notte e sentire la densità dell’aria contro la mia pelle, di dimenticare le distanze infinite che mi separano dai tuoi occhi immensi. Ho piedi piccoli e stanchi, ma le strade non sono mai sufficienti alla mia curiosa attitudine verso il mondo. Il respiro si fa superficiale, mi rincorre, ho deciso di mettere da parte i suoni, di aspettare che si allontanino in dissolvenza e mi lascino a contemplare gli oggetti in un assordante oceano di silenzio.
Cos’è la guerra, amore mio?
Cosa sono le reticenze, le parole strozzate tra la gola e la lingua e le tristezze cosmiche per quello che sto perdendo?
Le foglie sono martiri d’autunno ed io, qui, aspetto che sia notte, che le illazioni del giorno mi abbandonino e fluiscano nel blu come il tuo sangue.
aveva l’abitudine di collezionare piccoli oggetti metallici, li raccoglieva da terra. Fingeva di inciampare, sfiorava il suolo e con gesti distratti afferrava monetine, anelli, tappi di bottiglia, portachiavi. Poi si rialzava irrigidendo la schiena (nel pugno chiuso il pezzetto d’acciaio) e riprendeva a camminare con le mani in tasca. Lungo il tragitto verso casa sentiva l’aria diventare più fredda, focalizzava l’attenzione sui dettagli, sui semafori, sui vestiti stesi al sole tra i palazzi, sui giochi di luce che si riflettevano nelle pozzanghere.
Quel giorno uscì di casa al mattino presto, ai piedi i soliti stivali logorati dalle piogge acide della città, chiuse la porta dietro di sé facendo eco nel palazzo. Uscì sulla strada ad aspettare che nascesse il giorno, incrociò poche auto chiare, un cane annoiato, un vecchio. All’improvviso un bagliore, scorse in lontananza una scintilla di luce, accelerò il passo. Si avvicinò vertiginosamente all’oggetto, con sistematicità finse d’inciampare, si piegò su se stessa, toccò il suolo e, con somma meraviglia, quello che vide fu il suo cuore.
una ferita profonda nella carne viva, perfetta come un punto. mi sono macchiata di rosso le scarpe ed ho pensato a quando dicevi che il mio sangue era color melograno. mi chiamavi regina di sabbia e di tenebra, dicevi che nei silenzi celavo universi, pensavo al collare del gatto nel film Men in black, quel collare che conteneva galassie parallele, mi sembrava ridicolo. parlavi molto, dicevi che era un modo per compensare i miei vuoti di suono, dicevi che non sei nato poeta, ma la vita è poesia in via dei matti al numero zero.
ribes nero
il mio desiderio di viola ricorda il lutto di un cuore in esilio.
amuleti di vite passate
mi hai detto che conservo le foto come se dovessi onorare la memoria d’amici scomparsi
nei cimiteri desaturati delle mie conoscenze.
è un processo alle intenzioni
la mia storia è orfana di ricordi
ogni immagine è una traccia tenue di ciò che non è più.
L’Apocalisse delle certezze, il pensiero assume la sembianza della responsabilità, diventa rigido e privo di logica.
La luce mette a nudo la povertà delle parole e ci lascia, ansimanti e spenti, a ricostruirci.
Si racconta che avesse un debito con la vita
trascorreva ore ed ore a guardare l’orizzonte in silenzio.
cantava canzoni terribili e sconsolate all’angolo della strada
le sue gote erano rigate da lacrime calde ad intervalli regolari di disperazione.
aveva imparato a distinguere i centesimi dall’intensità dell’impatto con il suolo
ogni monetina faceva un rumore diverso.
Poi, un giorno, raccolse gli ultimi spiccioli, diede le spalle al mondo
e sparì.
disimpariamo a centellinare le ore
tutte così calde
tutte così uguali
costruiamo fortezze calde di sonno e d’intenti
eppure
niente ci aiuta a sopravvivere.
mi ricordo degli anni trascorsi a cercare lucciole
eravamo bambini
avevi imparato a chiudere gli insetti nei barattoli di vetro e mi tenevi per mano mentre morivano.
dicevi che un giorno saremmo morti anche noi
senza spettatori
senza lacrime
ma nella stessa, squallida, gabbia di vetro.