piovaschi

nel '97 ho visto un fenicottero rosa nella riserva naturale di Punta Aderci e nessuno mi ha mai creduto. nel 2010 un monitor ha cercato di entrare nella mia testa. ho rimediato 3 punti di sutura. il monitor non è sopravvissuto.


24
Ott
2010

L’ira

Il cane gli si avvicinò superando la tenda mossa dal vento bianca come la luce del primo pomeriggio. Era seduto composto, si girò – la bestia gli era affianco – gli occhi in quelli dell’animale. Il cane si alzò sulle zampe posteriori e divenne una donna, i capelli come il manto fulvo dell’animale che era stata; non aveva peli tranne dove chiunque si aspetterebbe di trovarli e non disse una parola. Egli si alzò, distogliendo lo sguardo da quel desiderio incarnato e in un’altra stanza prese un bicchiere colmo d’acqua. Bevve. Alla sera la donna era ancora lì, egli evitava i suoi occhi e di lì a poco la notte avvolse il tutto, sconoscendo il mondo.
La donna aveva unghie lunghe e nere, ma non erano laccate, forse gocciolavano sangue immaginario; i denti erano scuri, appuntiti come una notte gelida. Pensò che la donna volesse ucciderlo e non si capacitava che un cane fosse riuscito ad entrare da una finestra del terzo piano.
La donna-cane sembrava non respirasse. Era discreta fino alla virtù e avrebbe svolto il suo compito con la dedizione di un boia.
“E’ forse il diavolo?” si chiese mentalmente, rimanendo nell’altra stanza.
Arrivò l’alba e l’uomo si addormentò composto su una sedia nonostante la paura, senza accertarsi se la bestia fosse ancora una donna o se fosse tornata ad essere un cane: era indeciso di chi avere più timore.
Sognò una vicenda del suo passato recente, così come avrebbe voluto che andasse o forse come andò.
Conosceva i capelli e le mani, il viso e le labbra di quella donna che ancora stava nel suo salotto. La conosceva benissimo, ma non l’aveva mai vista nuda; bussò ad una porta con un battaglio con Orfeo scolpito su. Venne ad aprire una vecchia donna, vestita di bianco come la luce del primo pomeriggio. Lo condusse in una sala dove sedette su una poltrona di vimini e rifiutò da bere. Era nervoso e si accese l’ultima sigaretta di un pacchetto che aveva comprato due ore prima. Non si rese conto che era ormai vuoto.
La donna entrò. Era bellissima, con l’aria solenne e stanca di chi conosce già i termini della discussione, il tono di supplica e la dichiarazione finale: ma l’uomo non se ne avvide perché per queste cose era cieco.
Quando uscì dalla casa, mezz’ora dopo, incontrò un vecchio cane bruno, un randagio dal manto fulvo che lo guardò con la pietà del mondo e l’incomprensione del giudice che emetterà sentenza. La sua camicia era insanguinata, la stessa che aveva ancora indosso quando all’oscuro si addormentò composto sulla sedia; tentò di nasconderla chiudendosi la giacca, ma il cane, pensò, lo aveva visto e avrebbe parlato.
Scappò a casa con gli occhi dell’animale nei suoi occhi e si rinchiuse, vicino ad una tenda mossa dal vento, davanti ad un tavolo. Voleva fumare, ma era impossibile. Attendeva la visione della sua colpa.

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08
Ott
2010

La creatura nella biblioteca

Nella biblioteca di Herman Melville si nascondeva una creatura antidiluviana depositaria del segreto delle cose. Era stata questa creatura ad insegnare per prima la scrittura agli uomini. Li aveva ispirati a creare pagine di pergamena su cui scrivere simboli simili alle sue macule. Era stata questa stessa creatura a introdurre nella mente turbata di Gilgamesh il tremendo concetto di immortalità, fetido seme di ogni religione a venire. Questa creatura era un dio. Melville non avrebbe mai potuto immaginarlo perché essa aveva la forma di un libro.
Era lunga circa quaranta centimetri, larga ottanta, spessa quindici. Possedeva quattro artigli con un’unica unghia.  Una volta robustissimi da molto tempo non riuscivano più a tenerla nemmeno in piedi. Il suo corpo era attraversato da una costola dura tipo sterno, che formava quello che chiameremmo “dorso” del libro, la parte che Melville vedeva ogni giorno senza sapere cosa davvero avesse davanti e che era la vera pancia di quest’essere. Il vero dorso della creatura, invece, era formato da sottilissime membrane sovrapposte che si dipartivano dalla costola verso l’esterno. Bianche come il latte erano maculate con arabeschi neri di varie forme e dimensioni. Non erano attaccate fra di loro, se non al centro ed era possibile sollevarle e sovrapporle le une sulle altre, quelle di destra su quelle di sinistra e viceversa: era solo in questo modo che questa bestia poteva girarsi quando si capovolgeva. Dopo l’invenzione della stampa la creatura si era abbandonata a lunghi sonni durati secoli e fu ritrovata da Melville in un mercato di una città nelle isole del sud, ormai semi-mummificata e completamente chiusa su se stessa. Pensando fosse scritto in chissà quale misterioso linguaggio, lo scrittore americano acquistò per pochi dollari quello che credeva  fosse un libro, dimenticandosene presto.
La creatura era dotata di poteri sovrumani e prima di morire si insinuò nei pensieri dello scrittore. Fu così che Herman Melville scatenò la formula.
La creatura gli dettò un messaggio che sarebbe stato incomprensibile a tutti tranne che al suo vero destinatario e questo messaggio si intitola «Bartleby lo scrivano».
Il protagonista del racconto, Bartleby, prima di entrare come scrivano nell’ufficio di un avvocato di Mahnattan, era un oscuro subalterno dell’ufficio postale, impiegato nella sezione “Lettere Smarrite”, addetto all’ingrata incombenza di gettarle in un apposito inceneritore. Agli occhi di Bartleby, unico testimone consapevole, il fumo di quelle lettere bruciate rappresenta le ultime vestigia di un alito vitale ormai disperso, un’ultima brezza nell’imminente bonaccia della solitudine.

Melville scriveva mangiando biscotti allo zenzero. La moglie discuteva fra sé la preferenza per questo o quell’altro posto di vacanza. Melville rispondeva alle sue proposte con dei ‹si› o ‹no› scritti su foglietti volanti mentre la sua signora sospendeva le immagini che il suo cervello creava con dei “preferisco”. Fino a quando considerò un’ipotesi, ne scartò un’opzione e disse “preferirei” (I would prefer…). Melville scrisse “…di no” (not to). La creatura, istigando le indecisioni e i desideri della donna, diede vita alla indecisa indecisione di Bartleby. La sua risposta, irremissibilità pura, generava silenzio, imbarazzo o infauste risposte o nuovi e più infausti non-sensi. Bartleby preferisce di no (ha preferenza di no), preserva il mondo dall’orrore, consapevole di non poter fare nessun altro tipo di lavoro (anche B & P copiano, alla fine, in Flaubert) e capisce di non potersi salvare dopo quello a cui ha assistito (o dopo quello che ha saputo) per il ruolo che il destino gli ha riservato.

La signora Melville stava preparando un pasticcio di fegato d’oca e quando lo scrittore si alzò per raggiungerla a tavola la creatura sentì i suoi passi, sospirando di gioia per quel letargo da vecchiaia prolungata ormai prossimo alla fine. La sua interminabile vita era agli sgoccioli, ma era soddisfatta poichè il suo lascito era il più perfetto che un individuo della sua specie avesse mai concepito. Aveva dettato a Melville il suo testamento.

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04
Ott
2010

L’acquasantiera della domenica

Una mosca ronzava a intervalli di qualche secondo impedendo di concentrarmi. Pensavo che rimanendo seduto e facendo conto delle mie grandi doti di concentrazione avrei ridotto il ronzare della mosca ad un infinitesimo di nulla. Non ho grandi doti di concentrazione. Anche se impaurito dalla possibilità di perdere il filo dei miei pensieri mi sono alzato e mi sono piazzato davanti alla finestra. Ho guardato la mosca. Silenzio. Ho aperto la finestra e ho aspettato qualche secondo. La mosca è uscita ronzando. Vedi le mosche, ho pensato, non sono mica sceme come pensano tutti. Quando mi sono seduto mi mancava quel ronzio intervallato che mi intralciava la concentrazione. Ma ho scritto lo stesso. Vedi lo scrittore, ho pensato, non sono mica così intelligente come pensano tutti.
“Non ditemi che non contemplate il tradimento in amore perché non ci credo”
“E’ un argomento da evitare in coppia, ma da consumare fuori”
“E’ una regola del gioco, un non-detto che si discute tra i giudici di gara, ma che i giocatori fanno finta di non conoscere”
sono alcuni degli aforismi che abbiamo consumato e riconsumato in automobile prima che…
…finita la benzina in piena discesa la strada pianeggiante ci facesse fermare. Eravamo in cinque. Tre da buttare di sotto due da salvare: io e la tipa, entrambi volevamo salvarci, ma non a vicenda. Lei mi avrebbe salvato tra i file mostri & affini, io tra bellezze & di più, ma la macchina era a secco. Eravamo tutti nella merda, metaforicamente.
Una mosca stava invece saggiando uno stronzo di cane sul marciapiede. Sembrava dicesse: Ah, questo mondo è tutto una merda e a voi non piace.
Era lo spiazzo di una chiesa, domenica dopo pranzo e non c’era nessuno. Uno dei tre che non mi interessano entrò nella chiesa, si fece il segno della croce dopo aver intinto il dito nell’acquasantiera e si bagnò la fronte. Sentì uno strano odore (in realtà assaggiò, amici beoni sapete bene di cosa parlo). Strano per quel luogo. Uscì dalla chiesa. “E’ wodka” disse. “Dove” domandò qualcun altro, ma senza il punto interrogativo, solo così.
“Nell’acqua santa hanno messo la wodka”
“In che misura?” chiese il barman del gruppo, ma gli altri erano già entrati. L’assaggiarono tutti. La finirono tutta.
Io intanto cercavo di insegnare alla mosca un ronzio tibetano, giusto per provare una mezza meditazione in quel luogo disanimato. Gli altri, tipa compresa, uscirono un po’ brilli, contenti.
Dopo mezz’ora i quattro si erano completamente intrecciati in un sontuoso dialogo sul tradimento: come ragni sputavano fili di seta resistenti a seconda della forza dell’argomentazione, riuscendo ad avvolgere il dialettico che si aveva di fronte e tenerlo imprigionato fino a quando la sua tesi era distrutta da un’argomentazione migliore. Un giorno solo era bastato per ereggere il muro di Berlino, dividere famiglie, scandire il tempo di una macabra danza col men che meno strumento mortale di una cazzuola. E quelli, ormai avvinghiati nei loro sputi, nei loro dissensi, nel loro egoismo e nel loro tentativo di avere a tutti i costi ragione, con un semplice filo sottile divedevano il mondo in due parti. Non est & ovest, ma in amanti & cornuti.
La mosca, ormai sazia della merda appena intaccata, sontuosa come una montagna sacra, li canzonava col suo ronzio privo di significato e faceva attenzione a non avvicinarsi per non rimanere intrappolata in quella rete di insulti. Si era ormai passati a mere questioni di lavoro e a più incosistenti (e per questo più interessanti) questioni private, tra occhietti dolci, parole gentili e pesanti apprezzamenti.
Fossero tornati dentro nell’acquasantiera avrebbero magari trovato un po’ di benzina, bastava chiedere. La scoprii io. infatti. Per fortuna armi nei paraggi non ce n’erano per cui potei lasciarli soli e dopo essere riuscito a staccare tutta l’acquasantiera dalla colonna della chiesa, aver trovato un carrellino in sagrestia e averci caricato il carico, mi sono presentato davanti alla macchina. Ho detto: smettetela di rompere che devo concentrarmi. Anche la mosca si è arronzata, ha tirato fuori uno stuzzicadenti alla fibra di vetro e si è goduta lo spettacolo. Col foglio di una rivista patinata, scelto a caso tra culi tette e muscoli, feci un imbuto, inclinai il carrello e riuscii a versare la benzina nel serbatoio.
“Possiamo andare” dissi. Gli avvinghiati si disavvinghiarono e tornammo in città nel crepuscolo che sorseggiava orizzonte da un sole al succo d’arancia. Che eravamo usciti a fare nessuno se lo ricorda.

La mosca si è sposata. Al matrimonio il prete, una mantide religiosa maschio a cui una grossa femmina della sua specie faceva l’occhiolino mentre affilava la zampe,  pensando al suo destino di nascita-copula-morte ha ripetuto varie volte:
avrà una vita felice, avrà una vita felice perché avrà una vita piena di merda.

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30
Set
2010

Perseguitate gli illusi

Avvertenza:
questo racconto è destinato ad un pubblico adulto

1. Thriller

Mancano dieci minuti all’inizio della trasmissione. La pubblicità scorre fluida come il sangue nelle vene di un bambino. Dopo aver preso attentamente la mira controlla ancora una volta le informazioni sulla vecchietta.
Non ci possono essere dubbi. È lei. La vecchietta ha subìto da una settimana un’operazione al femore sinistro e il ginocchio dell’altra gamba le fa male. Ha i trigliceridi alti, la pressione alle stelle ed è emozionatissima per lo spettacolo televisivo che sta per iniziare. Non se lo perderebbe per nulla al mondo. Il genero le ha trovato una donna ad ore: una bulgara che l’aiuta ora che non riesce a muoversi.
Tre minuti alla trasmissione. Spara. Il rampino si aggancia perfettamente all’antenna. Tira il laccio. Sente la giusta resistenza. Tira più forte. Con un colpo secco il supporto superiore cede sferragliando, l’antenna si piega come un fuscello. Nel televisore della vecchietta è pieno inverno.
Quando appare il guasto, attraverso il mirino, la vede nel doloroso tentativo di alzarsi e di risolvere faccia a faccia la questione. La bulgara le chiede di rimanere seduta, il problema non è così grave. Si avvicina lei, senza sapere cosa fare, sussurrando dei premurosi “ecco mette a posto, mette a posto subito”. La vecchia allora insiste, si alza a forza, la bulgara accorre a sostenerla, le pesta un piede: bestemmia: segno della croce (della bulgara). Lo schiaffo della vecchia sul televisore si sente per tutto il quartiere. Schiaffeggia altre volte fino al parossismo. La bulgara non sa più chi reggere prima, la vecchia o l’apparecchio, l’apparecchio o la vecchia mentre tenta di farsi il segno della croce per gli smadonnamenti… Vede il viso della vecchia alterarsi, la bulgara tenta di calmarla, cerca le perfette parole tecnico-tranquillizzanti-rassicuranti dal garbuglio di termini che le affollano i pensieri; indecisa cerca il genero, la trasmissione è già iniziata, prende il telefono. La vecchia sente un formicolio al braccio, ha un turbamento allo stomaco, un mancamento…
La vecchietta si accascia, preda di un collasso. La bulgara si piega su di lei strattonandola, cercando di farla rinvenire. Troppo tardi.
L’attentatore di antenne attese sul tetto della casa di fronte fino all’arrivo dell’autombulanza.
La nonna di un partecipante al Grande Fratello è stata stroncata da un infarto.

2. Educational

L’esplosione di un televisore è spettacolare per due ragioni speculari e intrinsecamente distinte: 1) è una figura dell’apocalisse: una scatola-mezzo per trasmettere immagini chiamate spettacoli che diventa spettacolo, però della sua fine, il suo ultimo dare spettacolo. 2) ragione meno teleologica, meno filosofica, è vicina ad un ambito tecnico-scientifico e ai nascosti meandri della materia. Questa ragione, che spiega la spettacolarità, è interessante per la sua possibile natura: cherosene, alta tensione, fulmine, telecomando lanciato dentro lo schermo, autocombustione, bomba a mano, vomito infiammabile, aspersione di acqua santa particolarmente santa, uso sconsiderato della sua superficie liscia (sci d’acqua, da neve), tentativo di decollo, deliberato utilizzo come mezzo di difesa, deliberato utilizzo come mezzo d’offesa, scambio del polo positivo e del polo negativo, attacco da parte della Sfinge del Pixel – nuova specie di farfalla che si nutre di cristalli liquidi – , squilibrio interiore, innesco incazzatore, kamikaze, meteorite e chi più ne ha più ne metta. Un televisore ha la stessa possibilità di morire di un cristiano, di un musulmano, di un ebreo o di un indoista, scintoista o buddista, ed è sottomesso al caos o al destino allo stesso modo di ognuno di noi.

3. Titoli

Le trasmissioni a colori in Italia iniziarono ufficialmente il 24 febbraio del 1977, ma pochi potevano permettersi un televisore che trasmettesse a colori. La mia infanzia, fino al 1984, è stata una carrellata di cartoni animati in scala di grigi.

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29
Set
2010

Le nozze termodinamiche di Cana

Joshua e i suoi discepoli partecipavano ad un matrimonio in Cana di Galilea. Venuto a mancare il vino la madre di Joshua, Miriam, gli disse: – Non hanno più vino.
– E’ un matrimonio, non un festival della canzone – rispose Joshua, mentre la madre diceva ai servi: – Fate quello che vi dirà.
In un canto c’erano sei otri di pietra ognuno dei quali poteva contenere anche più di trenta litri. Joshua disse ai servi di riempirli d’acqua, di portarli dal Maestro di tavola e di attingerne. Il Maestro di tavola, che aveva tenuto da parte il suo vino migliore per una festa prevista quella stessa sera con persone molto ricche, si stupì molto della bontà di quel vino e per non mettere zizzania e commettere peccato durante un matrimonio fece buon viso a cattivo gioco chiamando lo sposo e dicendogli: – Ognuno serve prima il vino buono e quando si è bevuto abbondantemente il meno buono; tu, invece, hai tenuto il vino buono fino ad ora.
Lo sposo non sapeva nemmeno di cosa stesse parlando e il Maestro di tavola capì che non c’entrava nulla. I discepoli di Joshua credettero in lui dopo questa trasmutazione e al tramonto andarano via insieme al loro maestro e agli altri ospiti.
Del vino nei sei otri ne rimaneva appena uno a metà. Il Maestro di tavola aspettava di lì a poco che arrivassero i suoi ospiti danarosi. Chiamò i servi e disse loro: – Dove avete preso il vino?
Quelli risposero: – Da nessuna parte. Abbiamo riempieto gli otri d’acqua come ci ha ordinato uno degli ospiti e ve li abbiamo portato per attingerne.
– Voi mentite. Pensate di parlare con un beone che si beve simili frottole?
– Noi sappiamo quello che abbiamo visto – risposero i servi, ma il Maestro di tavola li fece frustare lo stesso.
Con inquietudine e sospetto scese nella cantina, trasse la chiave della nicchia segreta dove teneva il vino buono e saggiò la consistenza della serratura. Nessuno l’aveva forzata, né qualcuno poteva averla aperta poiché nessuno poteva avergli rubato la chiave. Quando assaggiò dai suoi otri il vino aveva lasciato il posto all’acqua. Altro che miracolo, pensò. Qualcuno l’aveva fregato, ma chi era stato? e soprattutto, come aveva fatto?

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28
Set
2010

Il monaco

Il monaco a caccia di libri in una casa abbandonata dagli infedeli trovava in un baule uno strano cono di cuoio con due lenti di vetro di circonferenze diseguali alle estremità. La luce vi passava attraverso e il monaco puntava istintivamente l’estremità più grande verso un fiume lontano, alle cui sponde si notava del movimento. Altrettanto istintivamente posava l’occhio all’estremità più piccola e dopo aver socchiuso l’altro gli si materializzò davanti una giovane donna senza vestiti nell’acqua fino alle ginocchia. Indulse a guardarla bagnarsi ripetutamente il petto e passarsi l’acqua tra le coscie bianche. Passato un lunghissimo minuto realizzava il suo peccato. Lo strumento dell’infedele era un’arma del demonio. Come tale andava distrutta.
Partiva per un pellegrinaggio con altri monaci. Si festeggiava il ritorno di quelle terre sotto la corona cattolica. Nottetempo il monaco si perdeva volontariamente in una zona desertica, lontana da qualsiasi occhio umano. Tirava fuori dalla bisaccia lo strumento che “vedeva come Dio”, che portava gli occhi più lontano da dove Dio avesse deciso che potessero arrivare. Ne calpestava le lenti e lacerava il cuoio. Scavava numerose buche e vi depositava i pezzi dello strumento. Si inginocchiava a pregare gli venissero perdonati i suoi peccati e stette in quella posizione per sette giorni e sette notti.
All’alba dell’ottavo giorno la vista del sole lo commuoveva, ma non si sentiva ancora contrito. Il suo peccato era stato troppo grande. Capiva che non avrebbe potuto continuare a vivere con quella colpa. Allora si cavava gli occhi per espiare. Stette altri sette giorni e sette notti in ginocchio, in preghiera. All’alba dell’ottavo giorno sentiva il sole sulla pelle e si commomueva nuovamente, ma nessuna lacrima scendeva lungo le sue gote. Singhiozzava e si vergognava della sua puerilità. Si strappava allora la lingua per evitare altri gemiti infantili. Rimaneva altri sette giorni e sette notti a pregare per espiare la sua grandissima colpa.
All’alba dell’ottavo giorno veniva a piovere. L’acqua cadeva fitta e lo purificava della polvere e lo dissetava dall’arsura che aveva consumato la sua bocca muta. Rimaneva a contemplare il suono delle gocce sulle foglie degli alberi intorno a lui, sulle pietre, sulla polvere ormai fango. Intuiva un’armonia segreta di cui mai aveva sentito parlare e di cui mai aveva trovato traccia nei libri, nonostante ne avesse letti quanti ne erano stati scritti. Ne era degno? Per risposta si tagliava le orecchie. Dopo altri sette giorni e sette notti, all’alba dell’ottavo giorno, proprio sotto il suo mento sbocciava un gelsomino, poco più in là riconosceva la malva, dietro di lui una roccia antica ospitava una ginestra. Il ronzare degli impollinatori gli sfiorava il viso e le mani giunte. La vita lo tentava con tutte le sue passioni. Ne era degno? In risposta si tagliava il naso.
Passavano altri sette giorni e sette notti di preghiera per la salvezza della sua anima. All’alba dell’ottavo giorno sentiva delle piccole punture alle piante dei piedi che interrompevano la sua richiesta di grazia. Cercava di alzarsi, ma le poche forze che gli rimanevano glielo impedivano. Tutt’intorno a lui il suo sangue raggrumato aveva attirato un esercito di formiche che espugnavano il suo corpo, come un castello senza difese. Il monaco cercava di strapparsele di dosso, ma non le vedeva. Sentiva ogni piccolo morso e centinaia di morsi tutti insieme, ma non poteva più gridare. Non udiva il grido dell’avvoltoio, né sentiva il profumo della polvere quando stramazzò. Non gli fu di viatico il pensiero terribile dell’inappellabile condanna che il suo Dio dall’occhio onniveggente gli avrebbe comminato dopo la morte per la sua imperfetta condotta.

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26
Set
2010

LA GUARDIA (3/3)

– Io so quello che hai sognato! – gridò Kurtz dall’alto della Torre.
Sotto di lui i suoi compagni saltarono e gridarano, inneggiandolo come il loro condottiero mentre il cielo tuonava insieme a loro.
Qvass sparò in aria per riportare la calma e diede ordine di andarlo a prendere. Kikero era nero di rabbia e blu dall’umiliazione e tutta l’acqua che stava scendendo anche se avesse continuato da lì all’eternità non avrebbe potuto lavarla. Pensò che quel Kurtz fosse un bafometto, un arrivista senza scrupoli. Se quell’idiota non si fosse addormentato durante il suo turno di guardia il nemico, in quel preciso momento, starebbe fuggendo con la coda tra le gambe. E quei codardi dei suoi soldati? Acclamare il gesto frutto di un caso, di un loro commilitone senza meriti, era da femminucce.
Qvass domandò a Kurtz cosa avesse intenzione di fare. L’uomo si inginocchiò.
– Mio capitano, ho messo la macchina di questo Stato al servizio della mia vendetta. Sono nato in uno dei vostri villaggi, venti anni fa vidi uccidere i miei genitori, violentare le mie sorelle, incendiare le case. Da quel momento meditai di vendicarmi e quando fu l’ora mi arruolai tra le fila di questi stranieri. Sapevo che sareste arrivati, prima o poi. Ho drogato le sentinelle e poi mi sono proposto come guardia alla Torre. Quando siete giunti ho lasciato che entraste e conquistaste il forte. Vi ho visto strisciare come ladri nella notte e ho resistito alla tentazione di unirmi a voi perchè mi restava un’ultima cosa da fare.
Qvass era rimasto colpito da queste parole. Ma non gli piaceva aver avuto l’aiuto di un traditore. I traditori non avevano nessun posto tra le sue categorie di prigionieri o di vittime. Quel soldato diceva la verità, oppure si stava inventando tutto per salvarsi la vita? Il modo per saperlo era sottoporlo all’Ordalia a cui finora nessuno era scampato, l’unico tribunale a cui riconosceva autorità.
– Sentiamo, cos’è l’ultima cosa che devi fare?
Kurtz rispose: – I soldati che distrussero il mio villaggio erano comandati da Kikero, questo stupido aguzzino, incapace di difendere l’avanposto che gli hanno assegnato, inetto a riconoscere il valore di un uomo, insignicante verme che trova gusto soltanto nell’uccidere per uccidere.
Kikero trattenne le parole tra i denti. Quando capì che stava piangendo ringraziò la pioggia che nascondeva quell’ultima offesa al suo orgoglio.
– Se è vero tutto quello che tu dici, allora ti concederò di fare l’ultima cosa che devi fare solo se risponderai correttamente alla domanda. – disse Qvass.
– Bene, – rispose Kurtz – la risposta è molto semplice: non hai sognato nulla. Perché questa notte hai vegliato marciando con i tuoi uomini, calando dalla montagna, attraversando la foresta e arrivando fin qui dopo aver attraversato il fiume nel più assoluto silenzio come si confà alla giustizia.
Qvass in persona consegnò a Kurtz una pistola.

leggi la prima parte
leggi la seconda parte
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25
Set
2010

LA GUARDIA (2/3)

Alle otto in punto del giorno di Natale la cittadella comandata dal capitano Kikero era in mano ai nemici. Inosservati e silenziosi, intabarrati nei loro lunghi cappotti di pelo avevano passato il ponte, divelto le transenne, sfondato l’alto portone e catturato uno a uno tutti i soldati della guarnigione. La legione nemica era comandata dal capitano Qvass, un accorto stratega con il vizio della tortura psicologica. I suoi festeggiamenti durarano poco. Acquavitae e donnine lo stancarono subito. C’era una guerra da combattere. Una città lontana da conquistare e uno stato da invadere.  La facilità con cui erano entrati lo aveva sorpreso. Mantenere in vita quel centinaio di idioti, pensò, era un impensabile spreco di risorse e un oltraggio all’onore militare. Qvass scese in cortile, ordinò di sistemare una specie di scanno e, dopo averli fatti perquisire e spogliare, i prigionieri furono portati al suo cospetto. Infreddoliti e spaventati in quel momento parevano tutti uguali. Ufficiali e soldati semplici avevano la stessa paura, lo stesso freddo, la stessa fame. Qvass ordinò ad una delle guardie di portargli un prigioniero.
– Se mi dirai cosa ho sognato stanotte avrai salva la vita. – disse il capitano.
Il soldato non aveva capito una parola e rispose soltanto: – Ho freddo, vi prego.
Qvass levò una mano e la guardia sparò per uccidere.
Il freddo di quella giornata divenne storia. I prigionieri che stavano tremando si immobilizzarono. Le bocche si seccarono. Qualcuno se la fece addosso, con un leggero inutile sollievo. Qvass diede l’ordine di nuovo. Questa volta la guardia dovette farsi aiutare. Nessuno poteva sapere cosa avesse sognato quel bastardo.
– E’ molto semplice, hai capito benissimo – disse Qvass al secondo prigioniero – se sei in grado di raccontarmi il sogno che ho fatto stanotte avrai salva la vita. Mi vedi? Sono un uomo semplice, non sono capace di grandi sogni.
Il soldato lo guardò come si guarda il proprio boia.
– Hai sognato la tua casa? – domandò.
Qvass lo guardò con stupore, strinse le labbra in segno di ammirazione. – No. – disse. Un altro sparo risuonò terribile nel cortile.
Il terzo prigioniero avanzò con un certo rispettabile decoro. Tradito dal freddo avrebbe voluto gonfiare il petto in segno di sfida, ma non riusciva a staccare le braccia dal corpo. Il portamento fiero tuttavia era palesemente ostentato.
– Sono il capitano Kikero! – disse con voce alta e ferma.
Mentre Qvass piegava di lato la testa come un cane raggiunto da uno strano suono, il soldato semplice Kurtz, ancora libero in cima alla torre, si affacciò dal parapetto e gridò: – Fermi tutti.
Prigionieri e carcerieri alzarono la testa verso la voce e in quel momento prese a piovere. Le gocce erano grosse come sputi.

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leggi la terza parte
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24
Set
2010

LA GUARDIA (1/3)

Alle otto in punto del giorno più corto dell’anno il capitano Kikero, con la barba ghiacciata e uno sguardo gelido naturale, abbassò il braccio gridando: – Fuoco!
Una raffica di proiettili colpì il soldato semplice Karl alla testa, al petto e all’addome. Il suo corpo si afflosciò come un filo d’erba raggiunto dalle fiamme. La pena più severa per essersi addormentato durante il turno di guardia sulla Torre, l’unica postazione dalla quale si poteva scorgere l’arrivo del nemico.
Dopo pochissime ore lunghissime discussioni e approfonditi interrogatori il capitano Kikero scelse una nuova sentinella. Quella notte si prospettava ancora più fredda della precedente. Alla guardia si consegnavano una marmitta con della minestra, una fiaschetta di acquavitae e un corno di bue per dare l’allarme. Al prescelto non restava che arrampicarsi per i duecentoundici scalini della Torre pentagonale e aspettare vigile e guardingo che la notte passasse senza intoppi.
Alle otto in punto del giorno seguente a quello più corto dell’anno il capitano Kikero, con la barba appena meno ghiacciata e il solito gelido sguardo naturale, abbassò il braccio gridando: – Fuoco!
Il soldato semplice Kija si afflosciò sulla neve che ricopriva il cortile.

Al tramonto si scatenò una tale bufera e la temperatura scese così tanto che il soldato semplice Kurtz pensò che chiunque fosse salito fino alla guardiola della Torre non solo non avrebbe potuto resistere al sonno, ma che il freddo non gli avrebbe dato scampo.
Il capitano Kikero questa volta si prese molte ore per fare la sua scelta. Il soldato Karraka era il più grosso essere umano che si fosse visto da quelle parti. Pesava più di cento kili e dava al più alto degli altri tutta la testa. “Perché non ho pensato subito a lui?” pensò il capitano Kikero. Karraka sopravvisse al freddo, ma non resistette al sonno.
Con un’ombra di indecisione il capitano Kikero fece giustiziare anche lui. Il soldato semplice Kurtz elaborò una specie di sillogismo senza pretese di validità. Se la notte che doveva arrivare fosse stata più mite forse Karraka avrebbe anche potuto resistere al sonno, dunque il capitano Kikero era un idiota, oltre che un aguzzino.
Quando fu il turno del suo interrogatorio, il soldato semplice Kurtz prese una decisione che ai più sembrò folle in quanto repentina e immotivata.
– Vado io. – disse.
“Sono cose che càpitano” pensò il capitano.
Kurtz contemplava il fiume sotto di lui e il ponte che la sua divisione doveva proteggere. Sull’altra sponda una foresta a perdita d’occhio e dove il cielo si sposava di nero con la terra le montagne invisibili che li separavano dal nemico. Kurtz prese un sorso di acquavitae e si sedette ad attendere il suo destino.

continua
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21
Set
2010

Eudemonistica metafisica

Il signor Fausto era a letto da più di tre mesi. Il suo stomaco era in pappa. Gli rimanevano da vivere poche ore. L’unica cosa che gli restava da fare prima di morire era confessarsi. Quando il prete ebbe salutato i nipoti, i generi, l’unica nuora e la cara moglie, compagna di più di quarant’anni di gioie e dolori, non gli restava che salutare il malato nel modo che sapeva lui. Il signor Fausto era lì, perfetto esempio di uomo fedele e cristiano devoto. Nella confessione del buon Fausto si addensarono frasi, concetti, esperienze e desideri che il buon prete conosceva per santa ispezione delle cose umane, ma che non avrebbe mai creduto potessero uscire dalla bocca di un uomo timorato come il caro signor Fausto. Con l’indispensabile calma che il momento prescriveva, il buon prete chiese al malato terminale cosa volesse davvero confessargli: di aver mai fatto quelle cose che gli aveva detto oppure…
– No, no, non ho mai fatto nulla del genere, sono sempre stati dei desideri, delle voluttà mai cercate – gli rispose Fausto – Volevo confessare a lei i miei pensieri impuri, perché ho sempre desiderato fare… quelle…cose, ma la fede mi ha aiutato a superare quei momenti difficili. Questa è la mia ultima confessione… Il prete stava per dirgli una cosa che si era sentito dire già altre volte, in ben altre occasioni e per ben altre azioni: il buon Fausto sarebbe sicuramente andato in paradiso, ma spirò prima di poterle ascoltare.
Subito dopo il buon Fausto si ritrovò in un lungo tunnel illuminato che portava nell’oltretomba, che il buon vecchio prete non lo avrebbe mai saputo, ma lui le sue parole le aveva sentite e aveva già scacciato i suoi brutti desideri repressi. All’uscita del tunnel vide tantissime persone che volavano verso l’alto e verso il basso, evidentemente verso il paradiso e verso l’inferno. Egli stava per essere convogliato verso l’alto, ma all’ultimo venne trattenuto verso il basso e per un po’ di tempo gli sembrò di aggirarsi nell’aria senza meta. Intorno c’erano solo nuvole, sostanze nebbiose che rendevano il viaggio molto confortevole. L’aria era fresca, respirava bene, non c’era musica ma sentiva l’atmosfera trillare lasciandolo immaginare, pensare, liberamente nuovi mondi e meravigliosi universi di piacere che aspettavano solo di essere visitati … ad un tratto si ritrovò in una stanza giallognola con una sedia e una porta, una specie di anticamera di qualche misterioso ufficio.
– SI SIEDA! – tuonò una voce all’improvviso. Fausto obbedì senza por tempo in mezzo.
– ENTRI! – tuonò la stessa voce dopo qualche tempo. Fausto obbedì con un po’ di stizza. Era un’altra stanza senza mobili. C’era solo una poltrona girata dall’altra parte con qualcuno seduto sopra che evidentemente l’aspettava. – Lei è Fausto? – domandò una voce per niente minacciosa, ma autorevole. – Sì. – Rispose con una certa sicurezza Fausto, che straziava la sua maglietta per il nervoso. – Noi siamo a conoscenza dei suoi desideri più repressi e inconsci e di questo lei non si deve preoccupare. Le è stato assegnato il paradiso come sperava e per il quale ha pregato tutta la vita terrena di volere in questa. Ma mi dica – la poltrona si girò mostrando un tipo vestito in doppiopetto che assomigliava a Richard Gere – è vero che a lei piacerebbe tanto essere picchiato fino a goderne? – Fausto abbassò lo sguardo mentre quel bel tomo continuava. – È vero che le piacerebbe se qualcuno glielo mettesse nel didietro e che lei vorrebbe metterlo a qualcuno? Su, mi risponda, ormai lei ha il paradiso, glielo garantisco come glielo ha garantito il suo prete, non abbia paura, dica la verità!Fausto sembrò riprendersi dal momento di mancamento che l’aveva preso e con un coraggio che non l’aveva mai contraddistinto disse: – Sì!
– Può andare – disse Richard Gere – sicuramente si troverà bene – Battè le mani due volte e
Fausto si ritrovò in un altro tunnel dominato da una luce rosso fuoco tendente all’arancione fiamma che si faceva sempre più bollente man mano che il tunnel avanzava. Fausto non ebbe il tempo di realizzare dove si trovasse che venne preso da un diavolo dalla pelle rosa che lo spogliò e lo sodomizzò, facendolo gridare di piacere. Poi arrivarono tre diavoli muscolosi che lo picchiarono fino a farlo godere di nuovo con tutte le urla che aveva trattenuto tutta la vita.
“Benvenuto in paradiso!” Gli dissero in coro altri tre diavoli in guêpiere.

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