anitagrey

Lives in the dimming of your eyes Comes from a thousand years behind Born on the wrong side of life Pieces of her in your mind Live forever after with Anita Grey on Saturday Don't you want something to say? Anita Grey takes you away Away Cry when the best of her goes by Shine like the echo of the sigh Pieces of her in your mind Born on the wrong side of life Live forever after with Anita Grey on Saturday Don't you want something to say? Anita Grey takes you away Away Anita Grey on Saturday don't you want something to say Anita Grey takes you away


28
Set
2011

Sturm und Drang

Teresa,
in queste voci non trovo le tue labbra, in questo vento io non sento il tuo respiro; e mi domando quanto lontano, e immenso, sia quel mare che ogni giorno ha la pazienza di dividerci, coi suoi mille umori a noi indifferenti, tra i nostri sospiri affranti che non lo scuotono di un soffio. Immagino il tuo petto sollevarsi ed abbassarsi sotto un lenzuolo di pieghe di luce, con l’alba che entra da quel balcone sospeso nel cielo – il cielo di un paradiso lontano, un paradiso di acqua e terra. Troppo lunghe sono le ore di questi giorni, e troppo leggeri e fragili i tuoi pensieri; tanto che non mi arrivano, e si perdono nella brezza e tra gli alberi, e sui continenti, e scorrono come brividi lungo schiene sconosciute, e cadono nel buio degli occhi di qualche straniero, in cui ti perdi per pochi minuti confusi.
E ogni mattina io cerco i tuoi occhi, Teresa, sulle increspature e sulle onde di questa distanza blu e smeraldo; e accarezzo il tuo corpo col raso della tua vestaglia bianca, e gioco sulla tua schiena perfetta con mille fili dei tuoi lunghi capelli neri.
Ti immagino al balcone, immersa nell’aria ferma e gelida del mattino; e vorrei scuoterti negli spasmi del mio tormento, nella silenziosa folle bufera che osservi al sicuro, dietro il vetro dei tuoi occhi… Vorrei infrangere quelle enormi finestre della tua anima e fare mio tutto ciò che vedi, e tutto ciò che hai visto; vorrei rubare la luce che ogni giorno ti disegna su uno sfondo diverso da tutto ciò che vedo, e da tutto ciò che ho visto…Teresa!
La vita senza te è tragedia e morte; ma se tu non fossi mai stata, allora che senso avrebbe avuto questo mare, e dove avrebbe trascinato le sue nuvole il vento? Teresa, senza il tuo nome, quanto sarebbero sterili queste mie parole, quanto sarebbe arida questa terra, e gracile questo mio male, e comune questo mio sentire?
Da te non voglio uno sguardo, o un bacio dei più appassionati; da te non voglio l’amore, Teresa, l’amore dei sussurri e delle confessioni; da te voglio la vita, Teresa, la vita! La vita tua, e mia; e la vita di questo mare inquieto e di questo vento senza pace, e di queste distese di sabbia, e di uomini, e di luce e di follia, e di tutto quello che intorno a me chiama, e freme, e con tutta l’anima e con tutta la forza, nelle mie viscere e nella mia testa, grida: Teresa!

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10
Set
2011

Basic Space

Sono un palloncino con il ciclo mestruale. Non ho troppe parole da usare per spiegarvelo. Essendo un palloncino.
Vado in bagno. Magari mi passa.
Non il ciclo mestruale. Sai, la storia del palloncino.
Niente.
Nemmeno pisciando. Neanche se mi lavo la faccia.
Gneeeek gneeeeek. L’acqua stride sulla plastica. Niente. Mi rassegno all’essere un palloncino con il ciclo mestruale. Svolazzo gocciolando fino alla cucina.
Non so come fare colazione. Lo so che non dovrebbe essere questo il problema. Ma adesso lo è.
I palloncini mangiano? Non credo.
Ma d’altro canto, se ho il ciclo mestruale, dovrò pure prendere del ferro, da qualche parte. Sbatto contro la maniglia della porta. Ah-ah, molto molto divertente, dio.
Per mangiare si deve avere fame? Punti di vista.
A volte per mangiare basta un orario.
I palloncini hanno un orario? Ehi, che bella parola, palloncino. Mi sento già più leggera.
Poi guardo giù e quasi ho le vertigini. Le piastrelle del pavimento sono un sacco più piccine. In un lago di sangue.
Capisco che ogni goccia che perdo sono una goccia più leggera e una goccia meno umana. E la mia testa, che è anche la mia pancia, è anche quella sempre più leggera. Sempre più vuota.
Stai a vedere che mi pianto contro il lampadario.
Attenta al lampadario! Attenta al lampadario! Mi dicevano sempre quando correvo con i palloncini in casa. Il palloncino di Sailor Moon. Ogni anno. Ad ogni festa. La luna a quest’ora sarà piena di palloncini di Sailor Moon. Per quante lacrime ci ho buttato dietro avrei dovuto diventare un sacco più leggera. Ma forse questo lo fanno solo i palloncini. Forse più piangevo e più il palloncino andava in alto.
Punti di vista.
Occavolo. Intanto che pensavo, sono quasi arrivata al lampadario. Pensavo a…? Boh. Bah.
Mi devo spostare. Credo. Essì che il lampadario è spento. Ma stasera, poi? Io ho paura, del buio.
Però forse pensare già a stasera… sono le otto di mattina. Sì e no che c’è il sole.
E intanto tocco il lampadario. Allora mi dico che è ora.
Quindi i palloncini hanno un orario. (A volte le risposte non hanno un senso, ma solo un momento.)
Vado verso il balcone. A terra è uno stillicidio.
Stillicidio. Stilli. Che bel nome. Il palloncino Stilli. Stilli!
Stillicidio… il mio sangue per terra… mi stanno ammazzando! Via, al balcone! Al balcone!
Ma la ringhiera è troppo bassa. E il sangue è quasi finito. Carenza di ferro!
E infatti la manco. E vado su. Quasi mi infilzo su un albero. Poi via.
Su e su.
E su, e su! Cielo! Di che è fatto il cielo?
Il cielo è fatto di azzurro.
E cielo e cielo per chilometri….
E…
Quindi…
Ora…?

Scusatemi ma oggi ho la testa tra le nuvole.

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25
Ago
2011

o son desto

Intorno tutto galleggiava su scaglie di aria e di marmo. I contorni del fuori fuoco erano blu. Le sue palpebre sbattevano come a chiedere aiuto, come a cercare di rianimare quegli occhi sbarrati che parevano palle di cera. Lucidi ma spenti, tondi e fissi, guardavano e non vedevano che oggetti e concetti sparsi per uno spazio che non riusciva a ricomporsi in una stanza. Le porte e i balconi sbattevano all’improvviso, al posto del suo cuore. Un cuore a cardini, una stanza a listelli, gli occhi di cera fissi sul cuscino vuoto, un cuscino rosa lucido, quel rosa che tende al rosso, quel rosa quasi confetto, quel rosa quasi elegante. Il corpo flaccido e rigido teso in un rigore da morto. Ciccia flaccida e muscoli duri.
Un corpo senza un nome ed una mente senza un senso. Delle palpebre impazzite che improvvisano un alfabeto morse di disperazione. L’unica forma di frenetica coscienza.
Poi piano piano si smorza. Nessuno può vederla e lei nessuno può vedere. La resistenza cessa. Piano. Le palpebre si distendono. Rallentano. Piano. A scatti. Intervalli di luce sempre più corti che colpiscono la retina. Come colpi. Colpi leggeri. Colpi di realtà. Come passi. Come porte che sbattono lontano. Col vento. Col sole. Col battito. Sempre meno. Poi più niente. È il sonno. È il buio. Non è più.

Marianna si sveglia a mezzogiorno sul divano bianco della sua casa confetto. Fa caldo. Non ricorda. Apre gli occhi e vede il gatto dormire sul cuscino rosa. Ha la strana sensazione di un’angoscia antica, tamponata dalla tranquillità del sonno del gatto e dall’aria un po’ pigra di quella mattina d’agosto. In casa ogni cosa è al suo posto, nel disordine e nell’ordine. Tutto esattamente com’era. Eppure qualcosa le sfugge, come se non ricordasse. Dove era stata? Quanto aveva dormito? Da quanto era lì?
Una mattinata…
Un giorno…
Una vita…

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26
Giu
2011

intorno all’ultimo giorno

Piantato lì dalla zia ad aspettare che quei dannati stracci fossero puliti. Seduto sul water di un cesso tremendo, di colore del muschio arido, faceva slittare a destra e sinistra la tavoletta rotta facendola schioccare in un motivetto, la testa tra le mani e una lavatrice epilettica davanti, che si percuoteva e si dimenava tra la parete e il marmo scheggiato. “Cristo”, scandì a fior di labbra in un alito di voce. Non era incazzato, era solo stanco. Stanco e avolico come un buco nel muro. Era il giugno del ’94, non faceva neanche tanto caldo e a volte nell’aria si sentiva una strana eccitazione, come l’illuminazione fulminante di un cambiamento o forse solo una zaffata di feromoni. Il cielo sembrava quello della California dipinta dai film – vedeva solo quello, dalla feritoia del bagno. Sospirò. Si sentivano distintamente i colpi contro i sampietrini delle rotelle di una bicicletta per bambini, che continuava a girare ossessivamente in tondo, proprio sotto la finestra. Sempre più veloce, sempre più veloce. Il ticchettio dei raggi come lancette di un orologio suicida.
Un piccione tuba al di là della parete. Merda di piccione sul selciato. Il sole che fa ondeggiare l’aria e distorce nell’afa le grondaie grige.
La lavatrice che salta e strepita e si contorce e sbatte, proprio davanti a lui, e gira, gira, schianta i panni di qua e di là;  e quell’olezzo di candeggina come di piscio di gatto che gli impregna le narici e le labbra, e a tratti gli secca il respiro in gola.  Novanta gradi. Cenci sporchi di tutto lo scarto del mondo, lo stesso che scrosti dai tubi intasati, la stessa melma che ti torce l’intestino evaporando dalle fogne a mezzogiorno in pieno agosto, magari mentre lecchi un ghiacciolo da duecento lire che sa di acqua e poco altro; lo stesso lercio che porti sotto le scarpe tornando da chissà quale bettola, chissà quale strada che dà di orina e piccioni morti, e ti pulisci sul tappeto; quel tappeto là, che gira, e gira, e gira, e sbatte, si torce, e gira, gira, gonfio di acqua bollente, e impregnato di una candeggina senza marca dal sapore dell’asfissia.
Ma la sua faccia sull’oblò non era riflessa nell’ansia del tutto che si muove nel cesto, quanto nel vuoto fermo in cui tutto si dimena. E pensò a quanto gli sarebbe piaciuto, lavarsi la coscienza a 90 gradi nella candeggina, come se fosse sporca di merda di piccone o piscio di vagabondo; e poter star seduto tranquillo, lontano da se stesso, col corpo dentro ad una lavatrice e la testa fuori, e non il contrario.

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26
Mag
2011

Terrestri

“È un vero peccato che il caldo bruci la gioia di un cielo così limpido. Lo stavo aspettando da mesi, e mesi; all’ombra di una tenda grigia di freddo pioggia e stoffa acrilica, a coprire un cielo bianco elettrico. Tensione.
Questo cielo mi esalta ma questo caldo mi stronca. Mi fa colare giù per la schiena ogni goccia d’energia. Mi ritrovo schiantata a terra, alla ricerca del sollievo in un giorno che guardato dalla finestra sarebbe invece di per sè così lieve.
La stagione degli amori è passata, e chi non ha avuto fiori non farà frutti. In macchina con Sara insultiamo l’insegnante, deridiamo tutto il suo cipiglio, le sue teorie mistiche che a lezione sembrano così importanti, così pesanti da schiacciarci, sotto l’enormità di qualcosa che è così semplice da essere quasi niente, come la spontaneità; e che poi viene intessuto di mille teorie e proposte e conoscenze e presupposti e apparenze e pratiche e opinioni e impressioni e lucidato d’orgoglio e superbia della macchinazione. Tutto il tendaggio pesante, l’arazzo della sua immagine crolla, sotto il suo stesso onere; lui resta una personcina nuda e ridicola che corre tra i nostri discorsi urlando e saltando a ogni puntura, reso sempre più piccolo da una sincera risata.

 

Gli animali ridono? Il mostrare i denti è simbolo di aggressività. La risata nell’uomo nasce dall’aggressività trasposta in scherno, come un ridere di, un mostrarsi superiore a qualcuno o qualcosa. Prendere il sopravvento.

Poi a lezione l’aria torna piatta e il mio stomaco è più leggero. Svuoto la mente e non ci penso, prendo la mia sedia, è estate ormai e non so come farò a sopravviverle, ma sicuramente i giorni andranno avanti, e di questo sono certa.
Sono la massaia che riempie le ore. La massaia della mia vita, la cameriera del mondo.
Poi arriva la sera e si alza il vento. È calmo, freddo. Adoro la luna di queste sere. Adoro andarci in contro mentre vado verso casa, come se potessi tornare alla luna. Ma la luna piano piano sparisce dietro mille case, mille storie, mille città.

 

Le prime volte che viaggiavo di notte non riuscivo a prendere sonno, guardavo l’infinità di luci blu e bianche che mitragliavano la vallata oltre le barriere, e mi si contorcevano le viscere; vedevo una casa più vicina e smaniavo per poter entrarci dentro, guardare almeno dalla finestra: chi c’era? cosa faceva? Perchè scorreva via da me senza nemmeno aver avuto il tempo di annusare l’aria che ci lasciavamo dietro… E quante persone, quante, mi sarebbero interessate; quante avrei odiato, da quante avrei imparato…. era tutto lì, cavolo, era tutto lì, in quelle enormi vallate di luci!
Poi il tempo è passato, ora delle notti in autobus mi porto dietro solo un gran mal di schiena.

Mi mancano i nostri discorsi, i tuoi sguardi che mi bucavano l’anima. Mi manca quel silenzio che in questo silenzio non troverò mai. Mi manca quel vento che è passato via portandosi le nostre parole su fino allo spazio aperto.
Non voglio più che il vento mi porti via qualcosa di importante. Ma sento questo vento che mi porta via il sudore e mi lascia il suo gelo, e capisco che non potrò resistere a lungo triste, sotto un cielo così azzurro.

Vorrei soffiare il vento, vorrei piangere la pioggia. Ma ormai sono una donna.”

 

-Ecco come trasformarlo in un racconto-, disse Anita chiudendo la lettera.

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27
Apr
2011

seasons in the sun

Senza speranza. Senza speranza e peggio ancora. Peggio? Sì, sì. Peggio di così. Se guardava avanti vedeva le poche ore che aveva ancora per farsi girare il sangue addosso, e poi più niente. Misurava il suo tempo in chilometri, si diceva: a Trieste, arrivo; a Trieste sì e no. E pensare che Trieste non l’aveva mai vista.
Se fosse partita in quel momento, per Trieste… ?
Un barlume. Speranza? No, no. Speranza no. Eccolo lì il barlume. È mattina. Il barlume è fuori dalla finestra. Quello che prima era stato il giorno, ora era un barlume. E quello che era stato un barlume ora era fumo. Fumo? No, nemmeno quello. Nemmeno fastidio.
Una palla di fuoco, era il barlume. E bruciava il tempo che non aveva forse mai avuto, almeno non fuori dalla pelle. Attimi di canzoni ripetute – i più inutili, forse i migliori. Chi lo sa. Vorrebbe guardarsi le vene e i tendini delle mani ma vede solo le sue cataratte – e un barlume. Si ricorda di quel suo amico che indicava le vecchie dicendo – quella lì ha già un piede nella fossa. La fossa. Se lo immagina zoppicare in una cunetta; della gioventù solo la barba, ma bianca, e crespa, e secca. Occasioni sprecate.
Vecchia. Secca. Stecca. Sigarette. Richiama il sapore. Le piacevano? Mah. Il gusto che avevano non era in bocca, nè nei polmoni. Era tutto nella testa. La testa! La testa o il barlume? Doveva decidere. E gli uccelli. Gli uccelli. Una volta ha sentito cinguettare e si è girata verso l’albero ed è riuscita a vederlo, in lontananza, nei rami, e si è sempre chiesta se era un usignolo, ma ogni volta che avrebbe potuto controllare aveva altro a cui pensare – che lo spazio degli uccelli è fuori, fuori, fuori. Nel cielo. Come lanciati. Come un pallone. Calciati. Calciati in alto dalla fame. Cacciati. Cacciati in basso per la fame. La fama. La trama. Trema. Trema. Non ha più tutto quel sangue. Fa freddo adesso. E poi? ..È il momento..?! No, no. È solo un, momento. Ma passa.
E quindi testa. Preferire testa alla croce. Che la croce poi arriva. Ma adesso testa. E quindi ciao barlume. Ciao uccelli. Non dice che ha chiuso con loro ma è la verità. Ha vissuto una vita per i ricordi, ora vive lì dentro, pensa quello che non può più fare, quello che faceva senza sapere, quello a cui non sapeva pensare prima di farlo. Adesso sa il massimo che può sapere, forse anche meno, che le cose poco importanti sono andate via; e forse anche qualche nome, qualche vecchio parente; e sotto i vent’anni si chiamano tutti uguali. E questa passione per gli animali da tenere in casa come degli scomunicati. Nella sua testa però non è così chiaro. Ormai sono solo emozioni che vibrano sottopelle come la luce. La sua pelle è di cartapesta e le sue vene brillano di blu. È trasparente, fatta d’aria. Ossa di ceramica. Pupille di vetro. Fragile. Frigida. Un piede addormentato e un piede nella fossa.
È maggio e il giardino non ha mai avuto tanti fiori.

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07
Apr
2011

still life

E sì che Julia faceva sport, ma lo sport non è mica come nella realtà, nello sport corri per dimagrire, mica per correre. Così tutto quello che hai dentro te lo tieni dentro, ma c’è sempre meno spazio dentro di te. E anche se ti sembra che ci siano meno cose, la verità è che ci sono sempre più cose in uno spazio sempre più piccino, in una coscienza sempre più castigata, incastrate come cibo tra i denti, nella fessura troppo stretta dei tuoi vestiti tra le facciate troppo larghe dei tuoi punti di vista.
Così alla fine quello che Julia aveva dentro da più tempo era marcito sul fondo, e, a dirla in breve, il suo cuore era ora una cancrena pulsante che non vedeva l’ora di scoppiare. O almeno così l’ho intesa io, e perciò non sono rimasta affatto sorpresa, quando a un certo punto Julia ha preso una bottiglia di salsa fatta in casa e gliel’ha spaccata in testa. Non che quel giorno ci fossero più ragioni di un altro giorno. Il fatto è che ogni giorno c’erano sempre meno ragioni e sempre più voglia. Julia era a metà tra lo spegnersi e lo svampare. E così, quando Julia la vide a terra, tra sangue e salsa, fu colta da una morsa allo stomaco che forse voleva essere nausea ma che lei scambiò per rabbia, e allora Julia prese a spezzarle tutto quello che era a portata di un calcio ben assesstato, di un pugno, di un colpo qualsiasi. Quando Julia si risollevò era perfettamente cosciente che ormai quella là era crepata. Ma forse perfettamente cosciente è l’espressione peggiore che potessi usare. Diciamo che Julia sapeva che quella là non campava più, che non respirava più, e che non si sarebbe mai più alzata. E quando togli la vita a qualcuno, forse, la morte diventa solo questo. Le speranze infrante e il dolore dell’abbandono, subito dopo la morte, spariscono: sono cose della vita, e con la vita vanno via.
Julia invece non è che fosse proprio in gran salute, specie per certe strane manie che erano tornate ad azzannarle il collo; ma tuttavia no, non si poteva lamentare: era ancora in piedi, e se non proprio nel fiore della gioventù, quantomeno nella parte più autonoma dell’esistenza.
Era primavera e tutto era tornato alla vita. Beh, tranne quella là, morta a terra.
E a Julia un tempo era piaciuta, la primavera. Un tempo Julia non vedeva l’ora di raccogliere le ciliegie, e guardava i tappeti di petali rosa sulla strada con una melanconica angoscia, che le era anche quella rimasta dentro.
Julia attraversò il corridoio e inspirò a fondo. In quella casa, la vita era passata così in fretta, con così tanta indifferenza, che l’aveva lasciata quasi vergine, intonsa dalle lame della routine e delle piccole gioie e tragedie domestiche.
La vita di Julia era stata un buco nello spazio, in cui il tempo scendeva goccia a goccia. Una vita che non sporcava nulla, al massimo consumava i soliti quattro stracci che Julia portava distrattamente addosso: ma solo perchè vivevano con lei, solo perchè stridevano contro l’aria e contro gli anni.
Così, respirando a fondo in questa ritrovata libertà, sentì ancora l’odore di quando la vita solitaria era una vacanza e non un eremo. L’aria afosa che si respirava a giugno, mentre lei alle soglie della vita guardava scocciata fuori da una finestra di quella stessa casa – non già così estranea -, impaziente di poter uscire, fare, conoscere. Quell’aria l’aveva ancora dentro nei polmoni, perchè era così viva lei allora, così speranzosa, che respirava per davvero. E Julia ora sentiva quell’odore, l’odore di quel posto, di quella casa, di quelle estati, di quelle speranze. Uscì in balcone, i merli si chiamavano dagli alberi bianchi. Il sole la investì in pieno, e lei chiuse gli occhi. Sentiva il calore sulla pelle, e le vene, e le ansie nella pancia. Sentiva la vita. Sentiva la città. E quelle vecchie speranze che stranamente non puzzavano di carogna.

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13
Mar
2011

L’uomo di casa

Per quanto potesse sembrare impossibile, gli anni 60 stavano finendo.
Margot era una donna a forma di donna, trent’anni, pelle chiara e morbida, fianchi generosi, sguardo lontano e capelli neri corti dal mento e risvoltati in sù alle punte.
In quel momento era chiusa a chiave in bagno, seduta nuda su una lavatrice in funzione, e leggeva un libro illuminata dalla luce del vetro opacizzato.
Il libro parlava di una ragazza che aveva deciso, per un grosso senso di colpa e responsabilità, di non mentire più. Non volendo però raccontare la verità, uccideva tutti quelli che le facessero le domande sbagliate.
Intanto che Margot leggeva, sulla sua pelle candida si apriva uno squarcio rosso vivo, che tagliava tutto l’avambraccio, arrossandolo, scavandolo, in una ragnatela di lacrime porpora.
Se Margot non fosse morta dissanguata in quell’insensato attimo di vuoto di realtà, avrebbe potuto sposare Jacque.
Jacque era l’uomo della sua vita, arrivò due anni dopo a chiedere un appuntamento all’ufficio di segreteria dove Margot lavorava; ma Margot non c’era più, al suo posto c’era un’altra, che non era lei.

Jacque non se ne accorse.

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02
Mar
2011

impression, soleil levant

Proviamo così, facciamo così, si disse facendo schioccare la lingua. Facciamo che butto fuori tutto, così, un colpo d’aria, come un conato o coito che dir si voglia, battendo le dita forte sui tasti, sentendo il ticchettio come di pioggia meccanica cadere su un foglio bianco che alla fine del rigetto sarà un quadro sporco di R E A L T A’. La realtà. Così lontana, una statua greca di cui non cogli l’ovvia bellezza. Forse potresti amare una venatura del suo marmo, se c’è scappata a uno scultore scialbo. Piano piano la rabbia mi scende come uno sciroppo appiccicoso lungo la spina dorsale, piano piano raggiunge ogni angolo del mio piccolo stupido corpo. Faceva queste stupide ridondanti riflessioni seduta sul divano, con la pancia di fuori, si sentiva quasi un rifiuto, si sentiva quasi il superfluo del mondo, l’organico della casa, roba da concime. Io finirò prima di queste sedie. Questa una delle sue poche certezze. La natura ama più un albero di me; non perchè lo ami davvero ma semplicemente perchè i meno evoluti sono i più longevi, come a dire più sei generico e più sei robusto. Come dire. Come dire che non lo so, come in quelle pubblicità in cui non si sa cosa dire e si piazza un bambino a dire una cosa del tutto insignificante con una vocina da bambino che ci fa sorridere comunque. Sorridere? Ma che squallore. Quanti calci quei bidoni in giro per strada si erano risparmiati, per un castigato triste senso del decoro. Il decoro! L’estetica è quanto di più effimero abbiamo: il concreto è distruttibile, l’astratto che esista o meno è inattaccabile, proprio perchè forse nemmeno esiste. La realtà è dentro di noi!, come dicevano in quel poliziesco che aveva guardato invece di studiare. Quel giorno aveva le palle girate a mille, avrebbe urlato e squartato, avrebbe fatto a pezzi anni di dare del lei e dissimulare delusioni e aspettative, avrebbe gridato al mondo tutto quell’amore che si era risparmiata, tutto quell’odio che non aveva inferto, tutte quelle sofferenze che aveva dato a torto, per sbaglio, per fare del bene che non aveva senso, per dispensare benessere insincero, tranquillità costruita a tavolino, un tavolino calmo, un tavolino piccolo, un tavolino in disparte. Un tavolino di plastica!
La sua bocca era un urlo muto! Muto più delle sue orecchie!! Se solo le coronarie e lo stomaco avessero potuto parlare! Se solo le tempie le fossero esplose! E invece niente! L’adrenalina le serve solo per correre via dalle sue conseguenze! Correre via dalle conseguenze per evitare le azioni: che vita grama, che vita pianificata, così grigia, così perentoria, periodica, precisa, perpendicolare, puntigliosa, penosa. Irriverente! Una vita irriverente nei suoi confronti, come persona e come vita! Una vita che non si rispetta, una vita che non si dà spazio, una vita concava. Fuggire da cosa, poi?
Una volta che mi potevo imporre! Una volta che avevo ragione! Ma avevo veramente ragione? Avrò fatto bene a scappare? Esagero sempre! Non posso evitare di farne una questione di principio, ogni volta?!? E tutte queste pedate, sulla mia fronte? Sai tutti i loro numeri di scarpa e i loro passi, e loro nemmeno sanno il tuo nome, ma che dico nemmeno che esisti, ma che dico nemmeno che pensi! Che sei! Nemmeno cadono se inciampano nella tua carcassa! Un tronco, sei! E peggio di un tronco! Nemmeno gli dai fastidio quando devono costruire un parcheggio sulla tua schiena!

Ma dico, non sei stanca
di non essere mai niente di più

dell’impressione che dai?

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25
Gen
2011

Niente

“Non so”, disse Alice guardando l’orizzonte spigoloso della città. Espirò piano, con i suoi occhi di ghiaccio stretti tra le palpebre, come se cercasse di mettere a fuoco qualcosa di lontanissimo.
Il fumo della sigaretta si fondeva al caldo del suo respiro nell’aria dell’inverno.
Il freddo sulla pelle era coperto dalla stretta allo stomaco che le dava quella vista, dal terrazzo in cima al sesto piano del suo palazzo quadrato color palazzo.
Il suo vicino di casa, un ragazzo sulla trentina dallo sguardo profondo e i capelli ricci, di cui non conosceva il nome, l’aveva presa per mano e l’aveva accompagnata per cinque piani di scale senza dire una parola, finché non le aveva aperto con una spinta la porta a vetri del terrazzo, coperta da due lenzuola color ciclamino stese ad asciugare.

Alice quel pomeriggio era triste, si sentiva sola. Cercava di comunicare con gli altri, ma finiva per ripetere sempre le stesse quattro paranoie, snervarsi e aggredire loro; sentendosi poi in colpa, e cercando di scusarsi nell’unico modo che conosceva: nessuno, uscendo dalla discussione con frasi del tipo “Se tu non facessi la vittima io non ti aggredirei”; e poi si chiudeva in bagno e si tagliava sulle caviglie, con le forbici per i capelli, disinfettate. E si sentiva ancora più sola.

Quel pomeriggio Alice aveva le guance arrossate dalla rabbia che le grattava il cuore; e dallo spioncino del portone aveva visto il vicino, che le era sembrato tanto carino il giorno prima, quando per pessime circostanze si era trovata a conversare sul suo divano con quella cara signora malata di cancro che era sua madre, riguardo al gatto che gli era appena morto, e che Alice non aveva potuto salvare.
Alice amava guardare dallo spioncino, era un po’ come essere dio, si diceva; il dio di un pianerottolo, va bene, ma da qualche parte si dovrà pure cominciare; si diceva.
Allora appena il vicino aveva tirato fuori le chiavi di casa dalla tasca del cappotto, lei aveva aperto la porta d’un colpo e aveva detto un “Ciao.” che suonava “Fermati.”. Lui sentì ciao e capì fermati. E si fermò. Alice sorrise appena, e lui vide le sue lacrime. Alice non disse nulla, e lui sentì il suo silenzio. Lui sorrise, e Alice capì seguimi.
Alice gli tese la mano, e lo seguì.

Forse il bello di quel terrazzo non era ciò che si vedeva dal terrazzo, ma ciò che non si vedeva. Quanto erano piccole le cose, quanto tutto era così poco importante; o forse quanto il poco fosse importante.
Alice adorava quel terrazzo. La prima volta che era salita in quelle soffitte da container, si era meravigliata di un posto così grande, e… aperto; alla fine di un cunicolo così anonimo, e segregato. Dopo due trafile di porte di alluminio serrate a doppia mandata, c’era una porta di vetro socchiusa, e una città nascosta da due lenzuola bagnate, color ciclamino.
Lui le aveva offerto una sigaretta solo avvicinandole il pacchetto, e lasciandole la mano. Lei aveva acceso la sigaretta ed era andata verso il parapetto. Dove il poco è ancora più importante.
Lui trasmetteva calma, e odorava di buono, di caldo. Alice poteva vedere il suo sorriso.
Ma non lo guardava; guardava quella città, quella città falsa amica, che pare che ti accolga e invece ti ingoia, che pare ti consigli e invece ti annienta. Le sembrava l’oceano più freddo e grigio del mondo.

“Non so”, disse Alice guardando l’orizzonte spigoloso della città.
Lui rimaneva indietro, fumava piano, e guardava avanti, Alice e oltre Alice, la città e oltre la città, il cielo, e oltre il cielo.
Alice continuò. “Una volta un mio…” . Silenzio. “Ho conosciuto…” . Silenzio.
“Evald. Si chiamava Evald. Semplicemente, a un certo punto c’era. E mi ha trovata.”
Lui abbozzò un sorriso quasi dispiaciuto, come quello che si farebbe guardando la fine del mondo dal terrazzo di un palazzo quadrato color palazzo.
“Una volta mi ha detto: “Immagina di essere sul fondo del mare. Non devi trattenere il respiro, non ci sono pesci, non c’è niente. Cosa senti? Dimmi una sola parola.”. Lui mi conosceva, sai. Mi vedeva dentro, limpido e chiaro, senza nemmeno avermi mai vista fuori. Io no. Io avevo troppa fretta di dimostrare di sapere, per fermarmi ad imparare.”.
“Cosa gli hai detto?”, soffiò in un bisbiglio di fumo.
“Cazzate. Un mare di parole sbagliate.”.
Lui rise come si ride per qualcosa che ti aspetti, qualcosa di una banalità quasi tenera.
Alice sollevò un angolo della bocca in una specie di scanzonatura. Senza mai voltarsi. Senza mai muoversi. Quasi senza far battere il cuore. Era quasi l’aria, e la città. Era quasi parte del davanti, e del piccolo.
“Cosa senti?”, gli domandò, con voce quasi preoccupata.
“Niente.”, scandì lui piano.
“E come ti senti?”, gli chiese con calma, voltandosi verso di lui, col tono di chi sa già la risposta.
“Niente.”, disse ancora più piano, gli occhi socchiusi sul vuoto.
“E com’è?”
“E’… troppo”.
Alice sorrise di un sorriso dolce.
“Io gli ho detto: “L’immenso”. E lui mi ha detto: “No, ma quasi.”.”
Anche lui sorrise.  Adesso avevano lo stesso sorriso.  Non c’era più bisogno di dire o non dire.
Erano sul fondo del mare.

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