17
Ott
2011

Il gioco dell’attesa.

Sono pillole che si urtano e poi, vorrei che esplodessero. Ed invece rimbalzano, come ogni pregiudizio che attiro. Fuggono veloci, quando sospese nel vuoto le contemplo per un attimo infinito, poi le afferro in un colpo e le ingoio.
E intanto, rimango seduto a questo tavolo di caffè.
Vorrei un posto da poter frequentare ogni giorno, senza porte da dover tirare o spingere; da raggiungere attraverso la cucina di un modesto ristorante.
Sarei un cliente abituale, di quelli che amano tacere. Decine e decine di altri clienti abituali. Sempre uguali. Nessuno sconosciuto al quale presentarsi. Nessun conoscente da intrattenere. Nessuna tristezza da ostentare e, nemmanco quella spensieratezza da sottoporre a congetture oscillanti fra lo stupore e la sentenza irremovibile che sia tutta una mia finzione. Nient’altro che lo stereotipo offerto dai miei connotati. Forse qualcuno ricorderebbe davvero il mio nome, altri si riferirebbero a me attraverso sensazioni non descrivibili a parole.
Chiudo gli occhi, sono dove desidero.
Fisso iridi e mi fondo con il riflesso dell’essere me stesso corpo e anima nella mente di un altro. Seleziono personalità con lo sguardo, le dispongo su più livelli, stilo statistiche a riguardo, scambio opinioni con loro, illudendomi, tentando l’inganno, sono il banchetto delle tre carte alla fermata del mio mondo. Linee della metro la collegano a dove il sole è più alto, convogli d’amianto si fermano e poi ripartono, li sento ed ignorarli m’è dovuto, altri si bloccano soltanto nell’istante esatto in cui alzo lo sguardo, li conosco per un attimo, poi dimentico tutto come di ogni mio sogno, come di quella volta che ho pianto.
-Anche questa sera qui?
è l’amica di un amico, le rispondo con un sorriso e raggiungo il posto libero sul divano più vicino.
Incrocio le gambe. Cambio lato. Conto ogni secondo, ogni istante. Non mi sento per nulla a mio agio, mi scompongo. Faccio per alzarmi, vorrei girare in tondo a quel tavolo da biliardo spoglio là in fondo, ma non posso. Non è né fastidio né tensione. E’ dinamismo. E’ il dinamismo che delimita i confini dell’esistenza stessa di noi uomini col cilindro.
E’ vero, mentivo. Voglio la più opprimente staticità per frantumarla con un paradossale equivoco e costruire mattoncino su mattoncino una eccellente presunta socialità e poterla giustificare come vita. Vorrei pianificare ogni aspetto di quest’ultima e poi attendere solo e soltanto la venuta di ciò che mi ostino a chiamare imprevedibilità.
Non ho zucchero, né glitter da spargere sul tutto.
Proporrei una partita di pallavolo. Formerei ogni squadra, ripasserei le regole. Posizionerei ogni singolo habitué del posto di cui sopra in attacco o difesa, indagherei su ogni piccola, minuscola loro potenzialità. Muro, bagher, schiacciata.
Ho sempre odiato tutto questo.
Proporrei una partita di pallavolo, per rompere i lampadari e fare qualcosa d’insolito nel buio.
Apro gli occhi, ancora non ci sei.

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