25
Gen
2011

Niente

“Non so”, disse Alice guardando l’orizzonte spigoloso della città. Espirò piano, con i suoi occhi di ghiaccio stretti tra le palpebre, come se cercasse di mettere a fuoco qualcosa di lontanissimo.
Il fumo della sigaretta si fondeva al caldo del suo respiro nell’aria dell’inverno.
Il freddo sulla pelle era coperto dalla stretta allo stomaco che le dava quella vista, dal terrazzo in cima al sesto piano del suo palazzo quadrato color palazzo.
Il suo vicino di casa, un ragazzo sulla trentina dallo sguardo profondo e i capelli ricci, di cui non conosceva il nome, l’aveva presa per mano e l’aveva accompagnata per cinque piani di scale senza dire una parola, finché non le aveva aperto con una spinta la porta a vetri del terrazzo, coperta da due lenzuola color ciclamino stese ad asciugare.

Alice quel pomeriggio era triste, si sentiva sola. Cercava di comunicare con gli altri, ma finiva per ripetere sempre le stesse quattro paranoie, snervarsi e aggredire loro; sentendosi poi in colpa, e cercando di scusarsi nell’unico modo che conosceva: nessuno, uscendo dalla discussione con frasi del tipo “Se tu non facessi la vittima io non ti aggredirei”; e poi si chiudeva in bagno e si tagliava sulle caviglie, con le forbici per i capelli, disinfettate. E si sentiva ancora più sola.

Quel pomeriggio Alice aveva le guance arrossate dalla rabbia che le grattava il cuore; e dallo spioncino del portone aveva visto il vicino, che le era sembrato tanto carino il giorno prima, quando per pessime circostanze si era trovata a conversare sul suo divano con quella cara signora malata di cancro che era sua madre, riguardo al gatto che gli era appena morto, e che Alice non aveva potuto salvare.
Alice amava guardare dallo spioncino, era un po’ come essere dio, si diceva; il dio di un pianerottolo, va bene, ma da qualche parte si dovrà pure cominciare; si diceva.
Allora appena il vicino aveva tirato fuori le chiavi di casa dalla tasca del cappotto, lei aveva aperto la porta d’un colpo e aveva detto un “Ciao.” che suonava “Fermati.”. Lui sentì ciao e capì fermati. E si fermò. Alice sorrise appena, e lui vide le sue lacrime. Alice non disse nulla, e lui sentì il suo silenzio. Lui sorrise, e Alice capì seguimi.
Alice gli tese la mano, e lo seguì.

Forse il bello di quel terrazzo non era ciò che si vedeva dal terrazzo, ma ciò che non si vedeva. Quanto erano piccole le cose, quanto tutto era così poco importante; o forse quanto il poco fosse importante.
Alice adorava quel terrazzo. La prima volta che era salita in quelle soffitte da container, si era meravigliata di un posto così grande, e… aperto; alla fine di un cunicolo così anonimo, e segregato. Dopo due trafile di porte di alluminio serrate a doppia mandata, c’era una porta di vetro socchiusa, e una città nascosta da due lenzuola bagnate, color ciclamino.
Lui le aveva offerto una sigaretta solo avvicinandole il pacchetto, e lasciandole la mano. Lei aveva acceso la sigaretta ed era andata verso il parapetto. Dove il poco è ancora più importante.
Lui trasmetteva calma, e odorava di buono, di caldo. Alice poteva vedere il suo sorriso.
Ma non lo guardava; guardava quella città, quella città falsa amica, che pare che ti accolga e invece ti ingoia, che pare ti consigli e invece ti annienta. Le sembrava l’oceano più freddo e grigio del mondo.

“Non so”, disse Alice guardando l’orizzonte spigoloso della città.
Lui rimaneva indietro, fumava piano, e guardava avanti, Alice e oltre Alice, la città e oltre la città, il cielo, e oltre il cielo.
Alice continuò. “Una volta un mio…” . Silenzio. “Ho conosciuto…” . Silenzio.
“Evald. Si chiamava Evald. Semplicemente, a un certo punto c’era. E mi ha trovata.”
Lui abbozzò un sorriso quasi dispiaciuto, come quello che si farebbe guardando la fine del mondo dal terrazzo di un palazzo quadrato color palazzo.
“Una volta mi ha detto: “Immagina di essere sul fondo del mare. Non devi trattenere il respiro, non ci sono pesci, non c’è niente. Cosa senti? Dimmi una sola parola.”. Lui mi conosceva, sai. Mi vedeva dentro, limpido e chiaro, senza nemmeno avermi mai vista fuori. Io no. Io avevo troppa fretta di dimostrare di sapere, per fermarmi ad imparare.”.
“Cosa gli hai detto?”, soffiò in un bisbiglio di fumo.
“Cazzate. Un mare di parole sbagliate.”.
Lui rise come si ride per qualcosa che ti aspetti, qualcosa di una banalità quasi tenera.
Alice sollevò un angolo della bocca in una specie di scanzonatura. Senza mai voltarsi. Senza mai muoversi. Quasi senza far battere il cuore. Era quasi l’aria, e la città. Era quasi parte del davanti, e del piccolo.
“Cosa senti?”, gli domandò, con voce quasi preoccupata.
“Niente.”, scandì lui piano.
“E come ti senti?”, gli chiese con calma, voltandosi verso di lui, col tono di chi sa già la risposta.
“Niente.”, disse ancora più piano, gli occhi socchiusi sul vuoto.
“E com’è?”
“E’… troppo”.
Alice sorrise di un sorriso dolce.
“Io gli ho detto: “L’immenso”. E lui mi ha detto: “No, ma quasi.”.”
Anche lui sorrise.  Adesso avevano lo stesso sorriso.  Non c’era più bisogno di dire o non dire.
Erano sul fondo del mare.

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{8 Responses to “Niente”}

  1. Evald Evald… Evald… devo averlo già sentito…

  2. Soluzione al mancato reperimento di un’idea: immergersi nella propria testa cercando di tracciarne il complemento assoluto.
    Mica una testa qualsiasi, eh.

    gasparecido
  3. QUANTO PARLAMMO DEL FONDO DEL MARE UN TEMPO

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