04
Set
2012

Nella penombra.

Le sembrò quasi di sentire uno scricchiolio di costole incrinate. Il suo petto non si sollevava più; anzi, sprofondava nel materasso. Quel poco d’aria che svincolava nello stomaco non bastava a svegliarle il cervello. Così rimaneva lì. Stesa. Braccia aperte come se fosse appena caduta dal soffitto. E quella cosa accovacciata sullo sterno. Una cosetta piccola, dal peso di mille mattoni, e dagli occhi gelidamente vuoti. Quella cosa neanche respirava. Forse non l’aveva neppure notato, che la stava soffocando.
Questa storia andava avanti da un mese a questa parte. Marta non aveva mai avuto paura del buio, prima di allora. E allora il buio si era ribellato. E dal buio era nata quella cosa. Quel peso. Quell’asfissia che puntualmente, alla fine del sogno, le si acquattava addosso. Non arrivava all’improvviso. Non saltava, né si arrampicava. Era piuttosto come se si materializzasse. Intanto che il sogno finiva, il fiato le si faceva sempre più corto, il torace sempre più male. Si sentiva sempre più pesante. Come schiacciata sotto una pressa, lenta, insindacabile. E poi c’era quell’istante. Quell’istante in cui tutto il tempo si fermava. Il peso era insostenibile, ma fisso, e il respiro era faticoso, ma indolore. Ciò che davvero le faceva esplodere il cuore in petto, quello che realmente la faceva impazzire, era quella sensazione, quello sguardo fisso su di lei che le attraversava le palpebre chiuse e la braccava fino a stanarla nel vicolo cieco della fine di un sogno.
Non contava molto cosa avesse sognato, cos’avesse guardato o pensato la sera prima. Il punto era questo: qualunque sogno fosse, stava finendo. E cosa c’è dopo la fine di un sogno? La realtà. Ma se ti strappano la realtà? Se la realtà, mentre tu la ignoravi, è cambiata? Se la realtà ti sta sognando mentre tu ti svegli, cos’è che succede?
Questo era quello che succedeva a lei: un macigno vivo di buio pesante, con due occhi grandi quanto la palla di un lampione, la osservava. La cercava. La trovava. E la inchiodava spalle al sogno. Spalle al niente.
E il corpo di Marta, ancora respirava. Come qualsiasi corpo, abitudinario, esigente, si sforzava di respirare lo stesso. Di sopravvivere ancora un po’.
Poi,  l’istante passava. E il peso spariva all’improvviso. Ma senza scatti, senza rumore, e senza risvegli cardiopalmatici nel cuore della notte. Semplicemente, il buio andava via. Il buio pauroso, almeno. Restava un’alba tiepida, di quando il sole ancora è lontano e il cielo comincia a ingrigire; di quando gli oggetti ricompaiono a spigoli e linee, e cercano silenziosamente i loro spazi e la loro sostanza nella penombra.

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06
Ago
2012

San Antonio Junio 13.

Si comincia ad avere un passato quando si torna al paese a salutare i defunti, quando c’è da restar fermi guardando il marmo e parlare alle ossa.

Nei pomeriggi assolati d’estate, quando il canto delle cicale annuncia il trascorrere delle ore, si scopre di avere una storia da raccontare per forza di cose trascorse, per forza di pensieri che si annidano sulla lingua, scivolano tra i denti e vengono fuori in sospiri.

 

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28
Lug
2012

Il Perditempo di Napoli

Barattare un libro con un titolo di viaggio,

usarlo,

ribarattarlo

per un’altro libro e questa volta perdersi

tra le righe di una strada,

in un sorriso intravisto.

Un’altra pagina, ancora un’altra,

prima che alla notte sopraggiunga il sonno.

Svegliarsi,

tornare a leggere, ripartire.

Sempre più distanti,

sempre più vicini.

Gettare l’ancora

e ancora salpare

assaporando gli odori,

nutrendosi di voci e delle loro storie,

sempre più poesia,

sempre più voglia di spendersi,

sporcarsi, trovarsi,

ritornare…a sé.

Incontrarsi davvero,

e per farlo costruire questa strada ideale

verso la quale andare

e ritornare.

E coerentemente sorridere

senza smorfie,

che nulla hai preteso da te stesso

se non il brivido del viaggio e la sua maestra

Libertà

biglietto ad ore

per un libro

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19
Lug
2012

Il delirio di Ilde

Potenzialmente inamovibili, un punto fermo al centro dello spazio,
sorriso acceso, frasi senza suoni.
Condannati al fraintendimento, nella chiarezza la confusione si rivolta, brucia, divampa,
il suo fumo è copertone,
s’attacca alle pareti.

Ricomincio da sopra, e da sotto,
riparto, da questo punto in cui poggio i piedi,
con il compasso traccio un semicerchio
Aperto.
A chi vorrebbe una sfera offro ellissi,  l’allungo all’infinito, imperfetta all’infinito:
sembra una rette, una strada, una vita…una persona.
La percorro tutta, perso tra gli odori inseguo i suoni mentre loro mi guardano.
Agitando le mani cerco tempo, prendo tempo,
troppo distratti da sé, cercano conferme, completezza;
una strada già tracciata su misura… una favola!
Un’illusione.

Concentro materia, lascio indietro i vostri occhi,
i vostri cuori non m’interessano,
non sento il polso non sento…
Dietro le vostre giacche nessuna idea, miliardi di pareti che frantumano.

non prendo niente da voi, faccio da me!
Con indifferenza posiziono le mie pedine tra gioie inaudite e paure cieche, moderne.
Anacronici, il  futuro è qui ed è ora, ma dove scappate?
Di chi sono il vostri nomi?

Ferrara brucia, Ferrara tuona, nessun rumore, nessun occhio che parli italiano racconta…
degli sbirri nel viale, della divisa che si sporca,
ci dimeniamo recalcitranti in un mondo che non sappiamo inventare.
Cani randagi, nufragati per sbaglio in questo mare, gente dispersa,
che col coltello incidete la vostra fortuna, allungando una linea della mano
Frasi senza senso quando tramonta il sole, quando tramonta il sole,
discorsi, parole, amici, intenzioni senza senso.

Ti ammazzan di discorsi quando tramonta il sole

Il delirio di Ilde si fa più audace

Ti rifugi nel  tuo tempo, nel tuo futuro che non ha spazzi, non offre ripari.

Sei al buio, vuoi sognare?
Cerchi un sogno  questa notte?

Un passato tranquillo, una vita discreta, di cui, francamente, nessuno riesce a ricordare,
con che coraggio stringi i tuoi pugni,
sei tu che hai bisogno di un motivo, non io!!!
Sei forse vivo? Ti senti vivo?

Alcuni se lo chiedono… altri no!

Quando ritorna il sole nuove gioie, a volte isteriche, altre  ansiose,
irregolari, frammentate, intraviste,
Rivuoi te stesso, il tuo respiro e

parli di te

come di un qualcosa che
non hai!
che non temo…

che derido.

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13
Lug
2012

potenziali d’azione.

ho quella spina sottocutanea al ginocchio destro che sempre mi parla di te

mi avevi spinta in un rovo di rose rosse

ricordi?

t’inseguivo con le gambe sbucciate che bruciavano come sale sulla lingua

 

dove sei,  sangue mio? dov’è finita la tua gioia?

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16
Mag
2012

né prima né dopo del buio

Calma. Calma. Mantieni uno stato di calma.

Poi sfora. Si divincola. Sguizza e squarta come uno squalo. La realtà è il suo banco di sarde.

L’unica possibilità è cancellare tutto, prima che lo distrugga. Chiudo gli occhi. Quale realtà? Non c’è stata nessuna realtà, mai, né prima né dopo del buio. È un attimo. Un solo secondo di perplessità, uno solo; lo squalo si arresta sconvolto: ma si è fermato un secondo di troppo, è morto, affogato da un’acqua traditrice, o forse dal nulla. Il risultato è lo stesso : niente più sardine per lui.

Ho paura a riaprire gli occhi.

Non so se perché temo abbia fatto grossi danni, o perché sospetto che non ne abbia provocati affatto.

Sento una porta che si chiude. È lei. È tornata.

L’angoscia. Sempre nel posto sbagliato al momento giusto, non un secondo prima né uno dopo. Nessuna squama la sventra. Lei agita il mare, e gli squali, e i banchi di sarde. Non ride né soffre, come un pianista che suona.

Forse nemmeno se ne accorge.

È la mia eterna gravidanza, me la porto nel mio marsupio di paranoie, tra le pieghe della corteccia del cervello.

Ogni passo mi pesa di più sullo stomaco, ogni ora mi abbassa di più la testa e mi corrode i nervi.

Non finirà mai.

Non ho trovato la calma. E in più c’è lei, dietro quella porta. E una realtà postapocalittica perfettamente (o quasi) conservata.

Momento peggiore per riaprire gli occhi.

E per questa ragione squilla il telefono. È la realtà che mi sta chiamando. Inutile non rispondere: ci sono già di nuovo dentro.

Rispondo e non mi dice niente di nuovo. Ho aperto gli occhi e il certo è tornato a confortarmi, sotto forma di apparenza e non di apparizione. Nulla si rivela, tutto c’è e giace. Nulla in questa stanza è entrato senza chiedermi il permesso.

Tranne lei.

L’angoscia. L’angoscia è reale, ma è sensazione e non sostanza, usa l’apparenza per l’apparizione, e mi sconvolge i piani. Architettonici, spaziali, temporali, eccetera. I piani. Non è mai stato nelle mie intenzioni filosofare o stupire con sagaci accostamenti di lettere e concetti. È, questo, solo il mio modo per sottintendere connessioni che ogni giorno pontifico e distruggo. Mille connessioni che poco o nulla c’entrano con il vissuto, così che buona parte della giornata sia vissuta nell’elaborazione della giornata, la quale giornata pure non mi abbandona e mi cinge e resta intorno finchè non muore, finchè l’orizzonte non la risucchia e non la ingoia, prima di risputarmene fuori ancora un’altra. Non la disprezzo, ma a volte sì, a volte l’ammiro, ma non sempre; molto spesso ne approfitto per scaricare sul suo vuoto spaziale e temporale il mio vuoto dell’essere, accusare i secondi che passano o che non passano, le azioni con cui la riempio o non la riempio o forse dovrei, e i doveri e le imposizioni che di certo non vengono da lei ma solo da questa mia ragnatela di connessioni, di pensieri che qualche metafora non vi spiegherà di certo ma di sicuro ve li rappresenterà in graziosa piccola scala, così come il passerotto è ciò che resta di un T-Rex.

 

E poi c’è Lei.

Lei non scrive per scrivere bene, ma si sforza di scrivere bene per scrivere, e questo le tronca tutte le vie di comunicazione. Persa in una rete di fili che non portano da nessuna parte, teleferiche che girano intorno al mondo e ritornano a lei. Lei non usa il linguaggio per comunicare ma per esprimere, lei non disegna per raffigurare ma solo per liberarsi di forme e concetti che nulla hanno a che vedere con le forme e i concetti del disegno, ma che a ben vedere trovano loro punti di fuga nelle vaghe aritmetiche infinitesime correlazioni tra spessore delle mine, qualità del foglio, forma, cultura, colore. Spesso musica.

Non ho mai capito se lei sia reale, e se lo è mai stato non so neppure se sia ancora viva, sebbene mi ostini a pensare che è, lì, da qualche parte, e che questo mio pensiero probabilmente sia all’oggi l’unica sua forma di vita.

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16
Mag
2012

Verum Ad Se

Non cambiate per loro.
Hanno sempre da chiedere, sempre da dire, da giustificare.
Devono sempre essere capiti, e allora cercate di capirli e
se non vi trovate, se l’errore non è il vostro, voi…
non cambiate.
Lasciateli all’Io, egotico, fine a sé stesso,
trattenuti da quelle poche, viziate, certezze
a mezzo piede dal tombino.
Non curatevi di loro, ché essi non vi curano, piuttosto…
Andate avanti, fuori da ogni genere di pretesa,
lontani da massacri di, o per, principio.
Chi ha il bisogno di ferire e chi
dell’essere ferito?
Abbandonate il rancore, isolatene il vostro, riduceteli.
Ché il giusto è giusto sempre, mentr’essi solo tra simili.
L’arte del bello è vita.
Pesate al vivere dunque e
se dovete,
cambiate,
ma non per loro!

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07
Mag
2012

Dentro e fuori, come scatole cinesi

La luna buca il cielo squarciandolo col suo bagliore bianco apertosi a Nord-Est della volta celeste.
La terra inumidisce, si bagna lentamente, in quel processo che dura ore, eterno.
Ed è su quel corposo terriccio che l’osservatore si sdraia, stende le mani dietro la nuca, respira, attento come un gatto mentre la sua preda è lì.
Raggiungerla, come trampolino usare la mente, gettandosi in quell’inumano quadro, sua arma l’immaginazione.
La Luna non lo teme, guarda il giovane uomo perdersi nel titanismo del buio, tra i lumini della notte.
È senz’altro la Terra, questo pensa l’essere dietro il vetro della sua cabina, attirato nel gravitare muove verso di lei, porta con sé la sua prima donna: entità, solitudine spartana, priva di regole, ricca d’onori, le tende la mano, contempla il tutto da un girone senza suoni, insieme a Lei
che non ha voce, non tocca, non scalda, nutre e si lascia nutrire.
Il primo osservatore non sa dell’altro, eppure è nella sua direzione che punta quell’indefinibile soffitto, enorme, non si lascia racchiudere. -la mente non lo contiene, non ha spazio per il cielo-, questo si dice il giovanotto, mentre scopre il libero, ed è l’armonia a sciogliergli il guinzaglio.
-Non potrei mai vivere, fuori dal mondo-, continua poi.
Vede solo un cielo e si crede roccia, guarda una luna e si riempie il cuore, al sole, povero ingenuo, si rende conto di non avere gli occhi per vedere, ma è un attimo, basta l’odore dell’immenso, certo è solo un cane che fiuta l’intimo di un’altra bestia, non coglie, non sa.
Sopra il cielo invece la cabina continua a muovere, la cosa là dentro è certo un uomo, solo pensa un po’ più su, costretto in due metri quadri, sua unica feritoia al mondo il vetro, corridoio da cui attinge, osserva: incidenti, traiettorie, punti di contatto, esplodono le stelle, vede luce, muovono i giganti, li rincorre al buio e a tutto quel che non capisce dà amore.
La gravità terrestre cattura la strana ferraglia, attraendola, -se torno sulla Terra sono spacciato ed io non voglio, ho fatto di tutto per lanciarmi, non voglio tornare. Finirei il mio viaggio, ritornerei a guardare il cielo steso su un prato e di questa terrificante bellezza resterebbe solo il ricordo,
ho passato una vita oltre il Cielo. Non posso tornare-
Se è vero che esiste un finale, moriranno entrambi.

Perdetevi senza fretta

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04
Mag
2012

ossa.

Si svegliava presto al mattino. Ascoltava i propri pensieri, li formulava con tale attenzione che dimenticava di mangiare e inciampava spesso, tutto preso com’era a cavarsi fuori risposte. All’inizio qualche amico ci provava ancora a coinvolgerlo un poco. “Mario” gli dicevano “vieni al bar a bere una birra”, ma lui era bravo a tenere il silenzio. Pensava: “Mi pesano gli occhi, mi pesano sugli zigomi con la forza del pianto che non conosce tregua. Prima che fosse dolore, cos’era? Cos’era quel prato? Era forse un bosco, un unicorno, una nuvola. Ricordo ancora la forma delle cose? Ne vedo ancora il senso? Non so più da quanto tempo il mondo non mi tange. Dicevano fosse l’inverno, ma trascorsa che è`la stagione, non passa. Dicevano che parlarne mi avrebbe aiutato a non farne tragedia, ma ogni voce che ho maturato nel cuore, giunta che era alla lingua, tornava giù nel profondo, scivolava sulla saliva e restava nel gorgo del silenzio, dispersa. Allora di cosa si tratta? Cos’è questo vuoto nel petto?”

Pensava così tanto, Mario, dimenticava così tante cose, che un giorno prese a piangere e non smise mai più.

 

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24
Apr
2012

Chopin, op 9 n 2

Cara C.

ti scrivo senza ormai speranze. Come stai? L’inverno ha lasciato sulle cose tracce scurissime come grumi di sangue che nessuno si spiega visto il candore della neve caduta, ho pensato a quando mi hai regalato le ultime lettere di Jacopo Ortis, a quando mi hai detto che i tuoi erano dolori di un’altra generazione e per questa ragione nessuno riusciva a capirli. Eravamo piccole, C., eravamo così piccole da non conoscere la paura della solitudine eppure anelarla ogni giorno, adesso sappiamo che gusto abbia ma non sappiamo più che farcene. Sei felice? Mi parlavi di Edipo, mi tenevi per mano, sembravamo perfette nei nostri vestiti un po’ grandi e un po’ sporchi, guardavamo le nuvole. Ti manco mai, C.? La tua voce, al tramonto, sembra chiamarmi con dolcezza, poi mi distraggo tra i rumori della città, chiudo gli occhi e tutto diventa silenzio.

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