Supero la frontiera del mare dei vivi
sarà luce questo nuovo continente?
Sarà pace, infine, questa terra nuova?
Supero la frontiera del mare dei vivi
e lascio i cento morti di speranza e di fame
nel mare dei morti che è di petrolio, non d’acqua.
Supero la frontiera del mare dei vivi
lo faccio per il tempo che viene, perché è giusto
devo solo avere il coraggio di convincermene
e non credere ai volti che ho intorno desolati e santi.
Mi conducono a te
oltre i rumori della città ed i motori degli aerei,
la forza del legno
ed i colori delle foglie
che subiscono
di stagione in stagione
la carezza gentile del tempo.
Nei rami degli alberi scorre il sangue della terra
e nel tuo cuore tutto il mio.
La leggerezza con cui mi cammini addosso
Le storie ripetute tutte identiche
Le cose che non cambiano
Le tue mani sottili
Se mi sento viva è perché mi vivi dentro.
tra tutto quello che aveva lasciato sul cuscino
oltre alle sbavature del mascara, ai grovigli di capelli, alle ciglia cadute per il lutto del risveglio,
c’era anche fermo, a boccheggiare, un cuore ancora caldo e turgido.
Gemma aveva la memoria offuscata da velluto blu, lo stesso velluto del vestito della donna nel film di Lynch, non sapeva che ora fosse o dove si trovasse, ma riconosceva la stanza in cui si era svegliata, una familiare accozzaglia di colori. Pensava all’ultima cosa di cui aveva memoria, ma le sembrava che fosse lontanissima nel tempo, come un ricordo d’infanzia che è più rumore che spazio, che si perde tra le cose accadute e riaffiora con un odore, un gesto.
Nella stanza c’era una grande finestra con le imposte bianche, non sentiva nessun rumore venire da fuori, doveva essere in campagna. Qual era l’ultima cosa che aveva fatto prima di andare a dormire? Bere un bicchiere di latte freddo, forse, aveva in testa una gran confusione. La stanza profumava di oleandro, riusciva appena a percepire il battito del suo cuore, le sembrava fosse irregolare.
D’un tratto sentì dei passi nel corridoio, si facevano sempre più vicini, erano passi di uomo, lenti, forti, passi di chi non torna indietro.
I passi si fermarono, sentì il cigolio della porta di legno che si apriva muovendo un vuoto d’aria, poi il viso di un uomo. “Gemma”, le disse “dobbiamo andare.”, e si avvicinò al letto su cui era steso, tremante, il suo corpo.
…
Il verde dei suoi occhi contagiava gli alberi di primavera, era una sorta di condanna, nessuno che le fosse accanto poteva nascondere la sensazione di leggerezza che dava il suo sorriso. Aveva vissuto per anni nascosta in giardino, badava alla vecchia zia che era l’ unica familiare sopravvissuta all’incidente del bosco, usciva raramente a farsi bagnare dal sole, la sua pelle rifletteva i raggi come fosse d’oro, accecava gli insetti di luce. Il giono del grande freddo si era affacciata alla finestra e un vecchio che passava di là spingendo le provviste del giorno, vedendo da lontano quel bagliore intenso, d’improvviso cadde a terra svenuto. Quando si svegliò, ancora stordito e circondato dal brulicare delle voci, il vecchio indicò il punto luminoso in lontananza e venti uomini corsero in quella direzione. Catturata che fu la ragazza, spogliata di ogni colore, privata degli occhi, squartata, ormai spenta, il vecchio raccolse le provviste, riprese a camminare e pensò che nel paese della malinconia, ogni luce è reato.
Del tuo nome non resterá ricordo. Delle tue debolezze, del tuo modo di ridere, del rumore che fai quando scendi le scale, non ci sará memoria. Non sapranno neanche dire se eri alto o basso, parleranno di te come se fossi emigrato in America e non avessero tue notizie da decenni. Cambieranno il colore della tua casa, la disposizione dei mobili, non penseranno a cosa avresti voluto. Non piangeranno, vedranno ogni tua traccia affievolirsi e celebreranno il tempo che passa. Vivranno con cuori di piombo, li riempiranno di vino aspettando che nascano fiori. Non avranno memoria dei vinti, sapranno che la violenza é stata necessaria. Saranno la razza nuova, li vedremo maestosi sopra di noi e verseremo le utlime lacrime, poi il Sole si spegnerá e scopriremo cosa vuol dire estinguersi.
Si comincia ad avere un passato quando si torna al paese a salutare i defunti, quando c’è da restar fermi guardando il marmo e parlare alle ossa.
Nei pomeriggi assolati d’estate, quando il canto delle cicale annuncia il trascorrere delle ore, si scopre di avere una storia da raccontare per forza di cose trascorse, per forza di pensieri che si annidano sulla lingua, scivolano tra i denti e vengono fuori in sospiri.
ho quella spina sottocutanea al ginocchio destro che sempre mi parla di te
mi avevi spinta in un rovo di rose rosse
ricordi?
t’inseguivo con le gambe sbucciate che bruciavano come sale sulla lingua
dove sei, sangue mio? dov’è finita la tua gioia?
Si svegliava presto al mattino. Ascoltava i propri pensieri, li formulava con tale attenzione che dimenticava di mangiare e inciampava spesso, tutto preso com’era a cavarsi fuori risposte. All’inizio qualche amico ci provava ancora a coinvolgerlo un poco. “Mario” gli dicevano “vieni al bar a bere una birra”, ma lui era bravo a tenere il silenzio. Pensava: “Mi pesano gli occhi, mi pesano sugli zigomi con la forza del pianto che non conosce tregua. Prima che fosse dolore, cos’era? Cos’era quel prato? Era forse un bosco, un unicorno, una nuvola. Ricordo ancora la forma delle cose? Ne vedo ancora il senso? Non so più da quanto tempo il mondo non mi tange. Dicevano fosse l’inverno, ma trascorsa che è`la stagione, non passa. Dicevano che parlarne mi avrebbe aiutato a non farne tragedia, ma ogni voce che ho maturato nel cuore, giunta che era alla lingua, tornava giù nel profondo, scivolava sulla saliva e restava nel gorgo del silenzio, dispersa. Allora di cosa si tratta? Cos’è questo vuoto nel petto?”
Pensava così tanto, Mario, dimenticava così tante cose, che un giorno prese a piangere e non smise mai più.
Cara C.
ti scrivo senza ormai speranze. Come stai? L’inverno ha lasciato sulle cose tracce scurissime come grumi di sangue che nessuno si spiega visto il candore della neve caduta, ho pensato a quando mi hai regalato le ultime lettere di Jacopo Ortis, a quando mi hai detto che i tuoi erano dolori di un’altra generazione e per questa ragione nessuno riusciva a capirli. Eravamo piccole, C., eravamo così piccole da non conoscere la paura della solitudine eppure anelarla ogni giorno, adesso sappiamo che gusto abbia ma non sappiamo più che farcene. Sei felice? Mi parlavi di Edipo, mi tenevi per mano, sembravamo perfette nei nostri vestiti un po’ grandi e un po’ sporchi, guardavamo le nuvole. Ti manco mai, C.? La tua voce, al tramonto, sembra chiamarmi con dolcezza, poi mi distraggo tra i rumori della città, chiudo gli occhi e tutto diventa silenzio.