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Scelgo le parole con estrema difficoltà: a caso.


22
Apr
2019

Quella volta che non ci ho capito niente

Io, certe volte, faccio queste cose senza senso, queste cose proprio insensate. Soprattutto quando sono triste, perché quando uno è triste, fa le cose più insensate di tutte. Uno si mette a fare queste cose perché spera di farsi passare dalla testa il motivo di questa tristezza, sempre ammesso che un motivo ci sia. Perché di solito uno scappa da qualcosa o da qualcuno. Vive fuggendo, insomma. Oppure corre di qua e di là perché cerca qualcosa, mi suggeriscono. Può darsi tutte e due le cose. Ecco.

Io, ad esempio, queste volte di cui parlo, faccio cose che poi mi pento d’aver fatto. Non tutte. Alcune. Prima fra tutte: io parlo. Parlo con gli sconosciuti. Tanto, tantissimo. E dico cose un po’ leggere, un po’ generiche. O, per lo meno, parlo delle cose che mi piacerebbe fare, di quelle che mi piace d’aver fatto e, per lo più, di cose che possono suscitare ilarità. Perché mi piace quando la gente ride. Vedere la gente che sorride intorno a me, mi mette sempre allegria. Così se devo finire per sembrare quello che fa lo scemo di guerra pur di far ridere qualcuno, va bene così. Il gioco vale la candela, come si dice.

Poi, dopo che parlo tantissimo ed ho sfinito tutti, compreso me, vado a passeggiare. E guardo la gente. Me la immagino vecchia, se è giovane, e giovane se è vecchia. Mi immagino com’erano e come saranno, queste persone. Faccio un lavoro di immaginazione, di fantasia. Sarebbe bello poter andare avanti e tornare indietro a piacimento. Caspita se sarebbe bello. Ma non si può, lo dice la scienza. E’ crudele questa scienza, mi dico. Allora posso solo immaginarlo, come sarebbe. Purtroppo, spesso, finisce che fisso la gente negli occhi. Senza accorgermene. Involontariamente. Qualche volta va bene, perché mi fermo a guardare una ragazza bellissima. Qualche volta un po’ meno, perché mi fisso a guardare un pregiudicato che poi mi vuole picchiare fortissimo. E devo scappare. Sono costretto a scappare, dalla situazione.

Ma va bene così. E’ il rischio che bisogna correre. Anche la fantasia è un posto pericoloso, a volte.A un certo punto mi stanco. Mi stanco di parlare, di immaginare, di scappare da quelli che mi vogliono picchiare e delle ragazze bellissime. Vado a immaginarmi le cose che si sono immaginati gli altri. Faccio il ladro, praticamente. Il ladro di fantasia. Così vado in libreria. E voi direte: che cosa c’entra adesso la libreria? C’entra, c’entra. Ricordo che una volta sceglievo i libri leggendo le prime e le ultime righe. Poi ho cominciato a prenderli a caso. Guardo le copertine, i colori, i titoli, i nomi degli autori. E non ci penso neanche più. Praticamente sono i libri che scelgono me. L’ironia della cosa è che, così facendo, a casa ho un mucchio di libri che non ho mai letto. Che mi trascino dietro a ogni trasloco che faccio, ma che non ho mai letto. Mi ripropongo di farlo, questo è vero. Ma non lo faccio. Perché ne ho sempre di nuovi che voglio leggere. E sempre meno tempo per farlo. Perché cerco di tenermi impegnato, quando sono triste. E, se è pur vero che quando uno legge usa la fantasia degli altri, finisce sempre che ricomincia a pensare.

E io non voglio pensare.

Per niente proprio.

Lo so, me lo dicono, che è inevitabile e necessario. Ma io, me medesimo, queste cose inevitabili e necessarie voglio proprio evitarle perché mi sembrano inutili. Che non arrivo mai a niente. Non lo vedo mai questo punto di svolta, questo momento in cui fai una scelta profonda e ponderata sulla vita tua, che poi ti senti meglio e sollevato. Io, addosso, sento sempre il peso di queste scelte, e sollevato non mi ci sento proprio per niente. Anzi. Mi pare che vorrei sempre tornare indietro e poi andare avanti, e poi a destra, e poi a sinistra. Mi vorrei portare dietro tutte le cose belle della vita, ma pure quelle brutte. Che quando ci sono, non solo apprezzi quelle belle, ma poi ti senti pure di avere qualcosa di cui parlare, quando vuoi fare la persona seria, oltre che lo scemo di guerra.

Tuttavia, finisce sempre che non ci capisci niente di niente. Chissà se prima o poi tutto questo ci sembrerà chiaro.

Io me lo auguro.

O forse no.

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14
Giu
2011

Frammenti della vita che ho vissuto

(da una pagina buttata del “Onoranze Funebri”)

Le storie possono cominciare in tanti modi, con una nascita, con una morte; nel bel mezzo dell’azione o anche partire da lontano, con un “c’era una volta”.
Le storie possono anche cominciare dalla fine e poi tornare indietro.

Non c’è un modo preciso per iniziare una storia. E’ una libera scelta dell’autore, di quello che scrive, quello che muove la penna o che schiaccia i tasti.
Ma nella maggior parte delle storie si racconta sempre di un amore, o di un odio.

Io, quand’ero vivo, avevo una ragazza. L’ho sempre ricordata con gioia e continuerò a farlo ancora, nei secoli dei secoli, per l’eternità. Era una ragazza mediamente bella, mediamente simpatica, mediamente socievole, mediamente istruita. Era una ragazza come se ne trovano tante in giro.

Ma era la mia ragazza.
O forse, io ero il suo ragazzo.
In ogni caso era la ragazza che mi piaceva, oltre ad essere la ragazza con cui stavo.
Lei mi ha sempre rimproverato questo mio essere sognatore: uno di quelli che usa le belle parole… ma, com’è noto, le parole si spendono, mica pagano.

A quel tempo, devo ammetterlo, non ero un tipo molto convinto, piuttosto ero un tipo d’imbarcazione a vela senza timone nè remi: “si va se c’è il vento”; “si va dove porta il vento”.
E c’è anche da dire che la cosa non mi scuoteva minimamente; neanche mi lamentavo della mia condizione, lo facevo quasi come stile di vita o come ripicca verso qualcuno o qualcosa.

Cose che non possono durare a lungo…

Poi successe tutto all’improvviso, il pub di via Eremo, quella canzone lenta e costante, e Lei.

Lei.

Lei sì che era bella. Quando camminava si portava dietro altre mille parole. Se ti giravi a guardarla non sapevi dove mettere gli occhi, rimanevi intimidito, quasi sopraffatto.
Non come raccontano in giro, la questione del fiato che manca, la storia negli occhi o stronzate del genere… no, lei si portava dietro una musica con cadenza perfetta. E tu che vedevi muoversi questa sintonia era come se avessi già capito senza bisogno di parole, senza bisogno di sguardi, senza bisogno di niente.

Evitò il bancone, evitò il jukebox spento, il telefono; evitò pure tutti gli sguardi che le si paravano davanti (e dietro) e si diresse alla finestra. La aprì e rimase un po’ ad occhi chiusi a sentire il vento che le strisciava addosso.
Dopo un po’ si girò, accese una sigaretta di quelle fini e lunghe, andò verso il palchetto, spinse via il tipo smilzo che suonava e schiacciò quanti più tasti poteva.

Le note del pianoforte si sparsero alla rinfusa nella stanza.
E tutti si fermarono.

 

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11
Giu
2011

Il becco di un quattrino

Ora voi ridete, ma non c’è mica poi tanto da ridere qui.
(“Mica poi tanto” è un rafforzativo che fa un po’ cagare, ma rende bene l’idea del pensiero che mi passa per la testa)

E’ da poco che, per volere del Dio superiore che governa il mondo o del caso (senza nulla togliere al karma), mi trovo emigrato dalla terra che tanto mi è cara; quella terra piena di colline, monti e alberi… molto molto diversa da questa distesa di campi e nient’altro che è la Pianura Padana.

Ma, come con tutte le cose, bisogna prima conoscersi a fondo per esprimere dei giudizi, bisogna imparare a osservarsi con occhi diversi per non cadere in pareri di parte e perdere l’occasione di fare amicizia.
Così mi sono avviato per questa terra piana girando per i campi: ed è finita che la prima cosa che ho incontrato è stata un topo morto al bordo della strada. Stecchito. A pancia in su.
Mi ha fatto anche un po’ impressione il povero topo. Però sono andato avanti… la prima impressione bisogna sempre lasciarla stare, si sa che è fuorviante.

Pochi minuti di cammino più avanti vedo una luce: m’ero già esaltato e pensavo che da lì a poco sarebbe comparso il mio destino. Invece era il tempo che s’era incazzato… se pur non è scesa la Madonna, è sceso un tuono della Madonna.

E ho cominciato ad avere paura, ho cominciato a pensare che questa terra in fondo mi è ostile ma mi son ripetuto che è giusto buttarsi senza paura e con coraggio nelle avventure.
Mentre correvo in preda a questa sensazione di euforia e paura tra due campi di grano è successo qualcosa che non mi sarei mai aspettato.

Il quattrino.
Pensavo fosse tipico solo delle zone povere, invece l’ho trovato qui a nord.
Era nascosto tra le coltivazioni ed ha spiccato il volo facendo quel verso sordo e gracchiante che quasi pareva un corvo, ma era ‘na cosa grossa che pareva un cinghiale.
Io, intanto, m’ero preso un infarto, ed ero cascato a terra.

E’ caduto un altro fulmine e si è portato dietro un altro tuono. Ho riaperto gli occhi e me lo sono trovato davanti: il becco del quattrino. Mi guardava male. Come se avessi usurpato il suo territorio.

Ho chiuso gli occhi pensando che volesse riempirmi di beccate ma quando li ho riaperti non c’era più.
E’ cominciato a piovere.
A dir la verità, non sono più tanto convinto di averlo visto il becco del quattrino. Ma il quattrino sì; vi giuro che m’ha fatto cascare a terra.

Nel campo di grano.

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23
Gen
2011

A ritmo alternato

Biller è un paesino del nord-ovest dove l’inverno fa freddo e l’estate pure ma dove il Sole non manca mai.
Sta aggrappato al monte Esio e pare, ad uno che viene da fuori, sia lì lì per rovinare a valle a seguito del fiume Lao.
E invece no. Saran più di cent’anni ormai che se ne sta lì aggrappato al suo unico appiglio senza batter ciglio. Umile e composto come sempre.

A Biller viveva un vecchio. La gente del posto lo chiamava Jack Pancetta. ‘Sto Vecchio c’aveva sei figli: Olivander il fattore, Bri il boscaiolo, Bernard il droghiere, Gino il fruttivendolo e gli altri due non li ricordo.
Li aveva avuti da tre donne diverse, donne bellissime secondo quanto si racconta ma che sono tutte morte giovani per il carattere di lui, scontroso e taciturno.

Si dice.

Jack Pancetta faceva il falegname come Giuseppe, quello della Bibbia, ma a differenza di quest’ultimo non era mai riuscito a farne una dritta. Egli, infatti, aveva il dono o la maledizione di non arrivare mai a inquadrare in una figura geometrica regolare le sue creazioni; motivo per cui porte e finestre di casa sua sembravano bozze di progetti irrealizzabili, buttati giù da un giovanotto svogliato e sognatore. In un momento di noia.
Ma lui no. Lui era costanza e impegno, lacrime e sudore… lui era l’accanimento nel cercare la regolarità che si risolveva sempre in un cadere continuo nella linea lieve, al di fuori delle regole, distante dai canoni. Così ogni giorno della sua vita non faceva altro che aggiungere prove, prove che entravano a far parte di questo singolare quadro che era la sua casa.
E la sua vita.

Lui era un vecchio di quelli che avevano un autentico e sincero attaccamento alla proprio casa, alla propria terra, ai propri cari. Era uno di quei vecchi che non riesci a portar via dalle proprie abitudini. La gente, quando ne parla, ricorda di come storpiava il proverbio “lontano dagli occhi lontano dal cuore” in “lontano da casa lontano dal cuore”. E infatti quando lo accompagnarono all’ospedale giù a valle, per fargli vedere l’ultima delle mogli sue, ormai morente, si chiuse in un silenzio triste che mai aveva avuto e da cui mai si liberò.

Ma non smise mai di tagliare, livellare, curare le sue creazioni, la sua casa e le sue poche abitudini. Continuava ostinato a dare forma alle sue idee, a incastrarle nel legno che si trasformava in opere amorfe lasciate ai bordi della strada.
Con gli anni quel dono che egli aveva tanto odiato era diventato più marcato, più frenetico. Jack Pancetta si era accorto che gli angoli nella sua testa non c’erano più. Cominciò a toglierli da tutto quello che era fatto di legno prima nella sua casa, poi nel suo paese.
Quel dono diventò la sua follia. La gente non sapeva come fermarlo, non riusciva a dissuaderlo.
Le staccionate, i segnali, le panchine, perfino i tetti. Tutti, tutti gli angoli dovevano essere eliminati, questo Jack Pancetta lo sapeva bene. E sapeva anche che gli restava poco tempo. Doveva essere più veloce, più bravo, più deciso. Doveva finire il suo grande quadro prima di andarsene via.

Successe ad agosto, all’alba di un giorno ben preciso. Egli si svegliò come al solito. Prese gli attrezzi e scese la strada che lo separava dalla piazza. Si fermò. Guardò in alto e vide la luna che ancora non era tramontata. Poi due giovani si diressero verso di lui. Erano quei due suoi figli di cui neanche lui ricordava il nome. Gli sussurrarono qualcosa nell’orecchio.

Chiuse gli occhi. E morì.

E anche quello non fu di certo un angolo, ma solo un cerchio che si chiuse.

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19
Gen
2011

Everyday is exactly the same

M’impressiono tutte le volte. Tutte le volte che ci passo, dico.

Dall’incrocio.

E io neanche l’ho visto com’è successo. Non ho visto l’ambulanza; nè il dottore che si è fermato nè il sangue. Non ho nemmeno visto lui a onor del vero. Non so chi era, com’era fatto.

Ma me lo immagino.
In un certo senso lo vedo.

Tutte le volte. Tutte le volte che ci passo. E sta sempre lì. E mi guarda. Mi dice che non l’ha scelto mica lui di finire a quel modo: “manifestazione improbabile del posto sbagliato nel momento sbagliato.” Ma io non ci credo al posto sbagliato. Credo solo al momento. E’ sempre una questione di tempistica dopo tutto.

Il tempo è padrone dello spazio. Riesce a estenderlo, a tirarlo, a strapparlo.
E quella volta ha strappato lui.

Lui mi dice che è brutto… il fatto che la maggiorparte  di quelli che passano da lì non sanno nemmeno perché la barriera non sta al suo posto. Allora gli dico che è normale, che a certe cose uno non ci pensa mentre insegue la vita attraverso il tempo. Uno pensa a quello che deve fare, ai suoi amici, alla sua ragazza… uno pensa che bisogna andare avanti, perché se no il tempo si spreca e il tempo è sempre poco, troppo poco. Non è come lo spazio che è infinito… no. Di tempo non sai nemmeno quanto ne hai.

Allora mi risponde che ho ragione. Neanche lui ci pensava quella volta lì. Ma poi inizia a raccontarmi dell’eco. Mi dice che è un tipo di proroga, di prolungamento. Una sorta di tempo in più che puoi avere. Solo che funziona solo in certi posti. E in quel posto lì non funzionava. Per questo dice che era il posto sbagliato.

Allora ho pensato che lo spazio non è uno schiavo stupido. Ogni tanto lo prende pure in giro il tempo. Per distendersi. Per distendere.

Questo è il mio pensiero per te.
Addio. Sconosciuto.

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20
Nov
2010

Marco e le favole (prova #1)

Marco crede alle favole, alle belle storie, ai lieto fine. Marco crede che tutto da una certa particolare prospettiva possa essere ridotto ad una dimensione fantastica, indiscutibilmente e senza ombra di dubbio splendida per tutti.
Marco ne ha ventuno, di anni. Alle favole, alla sua età, non dovrebbe mica crederci. Ma lui è positivo, convinto della sua idea un po’ come lo sono quelle persone che credono in Dio ma solo quelle che riescono a vederlo manifestarsi nelle cose del mondo. Perché Marco le favole le vede dappertutto.

Due mesi fa è morto suo nonno, “il rivoluzionario” come lo chiamavano gli amici. Non per le sue idee politiche che a farla breve si riducevano a “io voto Togliatti” ma Togliatti, c’è da dire, era morto che erano ormai passati un bel po’ di anni.
Non c’è bisogno di dire che era un tipo bizzarro suo nonno. C’è della gente che sorridendo racconta d’averlo visto camminare sotto la pioggia col suo immancabile cappello e un lavandino sulle spalle; uno di quelli per le cucine, di acciaio. Cioè pioveva… e lui si portava ‘sto lavandino sulle spalle fermandosi anche di tanto in tanto a parlare con i soliti amici del bar. “Perché il lavoro fortifica il corpo e gratifica lo spirito” diceva.

Quand’è morto suo nonno Marco non era al paese. Era andato in città per seguire in TV lo sbarco sulla luna. Suo nonno, lui, mica l’ha più visto e quando la madre gli ha detto ch’era “scomparso” Marco, come sempre, s’è fatto la sua favola: s’è immaginato il nonno suo lavorare a quell’impresa tanto ardita perché, secondo lui, “il nonno era pure ingegnoso” oltre che “rivoluzionario”.
Un “rivoluzionario ingegnoso” o un “ingegnoso rivoluzionario”. Su questo era ancora indeciso perché si sa che sono due cose molto diverse.

Così Marco s’è ritrovato senza nonno ch’aveva da poco compiuto ventun anni, l’uomo era appena andato sulla Luna e nonostante la guerra fredda stavano iniziando gli anni settanta. Comparvero le radio libere che trasmettevano sogni, la TV a colori, le droghe sintetiche, le discoteche, le Brigate Rosse che a ritmo di rock cercavano di far valere le proprio idee…Comparvero variabili e alternative che lui non aveva calcolato ma niente riuscì a fargli smettere di credere alle favole.

Perché con le favole è un po’ come con Dio: o ci credi o non ci credi.

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03
Nov
2010

Ei Fu. All’ombra dei cipressi e dentro l’urne.

Fatto sta che non c’è più. Desaparecidos. Che TU sia un’idea, una cosa, una bestia, con il tuo silenzio mi tradisci. C’eri e non ci sei più. Stavamo insieme, io e TU.
Ma riappari. Anche se non ti voglio. Soprattutto se non ti voglio. Corsi e ricorsi storici. Ma vorrei andare avanti, non ricorrere. O, meglio, riNcorrere. Perchè mi fai sentire deriso da una prepotente impotenza che mi irrita il sistema nervoso. Cioè: o bianco, o nero. Se vuoi scomparire, esci fuori definitivamente anche dalla mia testa.
E invece no, stai lì che zompetti allegramente.
Non sai quanto vorrei ridurti in polvere. E seppellirti.
E se sparissi io? (di una morte artefatta?) Giochiamo un pò a nascondino. So già che finiremo per perderci tutti. Saremo compagni del niente.
Finchè arriverà lui: Limoncè. Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è. Mi pare logico.
Sinceramente? Sprecarlo non mi pare il caso.

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10
Ott
2010

A presa diretta

Quella che avevo scritto era un’altra storia ma a rileggerla, ora, non mi pare poi così interessante. (Per farvela leggere, è chiaro).
Quella che avevo scritto era una storia che parlava di me, o di qualcuno che gli somigliava. Forse più di qualcuno che gli somigliava che di me.
Ma questo non ha importanza.

Stasera ho visto un gatto ciccione. Se ne stava su un muretto con la solita aria che c’hanno i gatti che si danno le arie. Cioè tutti. Sto gatto c’aveva un collare e sto collare c’aveva i campanellini. Secondo me i campanellini l’hanno inventati per rovinare la fama a li gatti loro. Per rovinargli la fama di felini, di cacciatori silenziosi.
Comunque, il gatto non c’entra niente… E’ che io credo che oltre a rovinargli la fama a loro rovinano pure la vita a me, che mi devo sentire sti campanellini di sto gatto ciccione che cammina.

Quindi il gatto forse c’entra.

Stasera ho pensato che è un po’ troppo tempo che volevo scrivere una storia. Così l’ho scritta. Ma non è venuta per niente bene. Per questo non ve la leggo, anzi, non ve la faccio leggere.
Stasera ho pensato che vorrei essere silenzioso come un gatto… un gatto col collare coi campanellini. Che c’ha la fama di essere silenzioso ma che ogni passo che fa tutti s’accorgono che c’è.

Stasera ho pensato che forse i campanellini ce li abbiamo tutti e che tutti facciamo rumore, ci incazziamo con chi non sa fare il lavoro suo, con chi si fotte li soldi, con chi c’ammazza la famiglia e pure con chi si fa ammazzare soldato, co’ quello che fa il ministro e co’ tutti l’artri che capitano.

Ma poi alla fine siamo silenziosi. Perchè c’abbiamo solo la fama di fare rumore.

Ma non facciamo mai un cazzo.

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