anitagrey

Lives in the dimming of your eyes Comes from a thousand years behind Born on the wrong side of life Pieces of her in your mind Live forever after with Anita Grey on Saturday Don't you want something to say? Anita Grey takes you away Away Cry when the best of her goes by Shine like the echo of the sigh Pieces of her in your mind Born on the wrong side of life Live forever after with Anita Grey on Saturday Don't you want something to say? Anita Grey takes you away Away Anita Grey on Saturday don't you want something to say Anita Grey takes you away


10
Gen
2011

flash forward

E quando credevo di aver visto tutto e che la mia vita, sul tramontare di 50 faticosi anni, si fosse risolta in un sospiro; il male suonò alla mia porta, e mi chiese di adottarlo.
Non avevo mai visto degli occhi così grandi. Immaginai di guardare con i suoi occhi e il cielo mi sembrò più largo.
Non mi sono mai chiesto con cosa si faccia la mayonnaise o da dove vengano le cipolle; e nè lì mi chiesi niente. Ma sapevo già la risposta, e questo mi dava una certa amarezza, essendo stato così accorto, in tutta la mia esistenza, a evitare le domande.
Così lo lasciai entrare, che facesse ciò che voleva. Andai nello studio, presi tutti i soldi dalla cassaforte e la riempii di libri. Libri vecchi con la copertina scura e rovinata, rilegati in quella pesantezza caratteristica della cultura presuntuosa. Chiusi la cassaforte, mi feci coraggio e ingoiai la chiave. La sentii graffiare fin dove ancora sentivo. Poi sparì dentro di me. Buttai tutti i documenti che erano sulla scrivania e nell’archivio dentro il tritacarte. Poi tornai nella sala e gli dissi: “Eccomi, possiamo andare.”. Lui era acquattato vicino all’acquario e guardava i pesci con sguardo felino. “Ci penserà la domestica, ha le chiavi. Lascerò un biglietto. “. Stavo in piedi in un’attesa vuota e silenziosa, in tutta la mia immobile stazza imponente. A lui sembrava non importare molto della faccenda, e neanche a me. Indugiò un pò, come se volesse prendere qualcosa; poi scosse la testa, recuperò la sua grossa macchina fotografica dal divano e disse: “Sì, possiamo andare.”. Fece dei lunghissimi passi silenziosi verso il portone e concluse: “Sì, andremo da Carmen.”.
Lo seguii.
Dopo venti minuti di passi muti in strade di pietra, raggiungemmo una porta rossa di legno vecchio e intaccato. Accanto, di spalle a un vicolo in cui scendeva il sole, una donna stagliava la sua figura in controluce, con le mani dietro la schiena, e la lunga gonna al vento.

Carmen mi invitò nella sua miseria.
Nella casa non c’era quasi nulla, oltre a poche carcasse di mobili antichi e un odore pesante di umido, chiuso e pane raffermo. Lui mi guardò e io, d’istinto, mi misi a sedere. Carmen occupò l’altra sedia, di fronte, dietro il tavolo sbilenco. Lui continuava a fissarci. Sentivo quasi il suo respiro leggero addosso. Respirava?
Carmen poggiò una mano sul tavolo. Amo le mani delle donne, dove un velo di pelle raggrinzita sa rendere eleganti tendini e ossa.
Lui fece un passo verso di noi. Io sentii il sangue gelare, come se l’aria intorno a lui fosse fredda. In quell’istante Carmen alzò lo sguardo. Aveva le iridi viola. Le sue pupille si fermarono nelle mie e, prima che tutte le domande del mio castigo potessero piovermi addosso, il tempo si fermò, le sue pupille si piantarono nelle mie; e io La vidi.

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19
Dic
2010

around you

Una frenata secca. L’auto che fa un mezzo testacoda, imperniata sul freno a mano; lo stridore delle ruote scuoiate dall’asfalto, l’odore leggero e pungente di gomma bruciata. Il rimbombo nelle orecchie di un clacson premuto con forza qualche istante prima. Il tempo si sfasa, rallenta, frena: lascia cadere in avanti il suono, con lo stesso aggetto dell’autista che viene spinto verso lo sterzo ,come un manichino; e strattonato contro il sedile dalla cintura.
La scena poco oltre la macchina non è così d’impatto, ma si dilata a fisarmonica l’istante prima dell’urto: una serie cinematografica di immagini scatta a fatica una storia senza soluzione di continuità, dal suo voltarsi al suo repentino cambiamento d’espressione, il modo in cui le sue pupille si restringono, gli angoli della sua bocca che si abbassano lasciandola semiaperta in un urlo vuoto; i capelli le sbattono sulla schiena per la sua frenata istintiva, i tendini sul collo si delineano, come se il suo corpo stesse faticando a voltarsi in avanti; ma lei non riesce a distogliere lo sguardo, e il blocco del tempo si incanala nei suoi occhi fissi e si proietta sulla macchina, che viene allontanata di mille frazioni di secondo, e riavvicinata in una sequenza strozzata in attimi infinitesimamente brevi fino all’impatto imminente NO! pensa lei, NO! grida lui, nello stesso preciso momento in cui la frattura del tempo si ricompone, e le due metà combaciano perfettamente in un colpo sordo che chiude la scena.

Aldo è un ragazzo strano, uno di quei ragazzi per cui si preferisce utilizzare il termine speciale, o quantomeno particolare; pronunciato così, a fior di labbra, con quell’accento iniziale che in un qualche modo sembra inclinare la parola, quasi fosse infetta. Non è chiaro se sia muto dalla nascita o vagamente autistico; in ogni caso, ha il 100% di invalidità civile, così che a nessun familiare balena la speranza che un giorno Aldo lo delucidi in proposito.
E Aldo dà questo tipo di soddisfazioni, piccole abitudinarie soddisfazioni.
Oggi Aldo assiste a qualcosa di incredibile. La figlia del fornaio viene investita davanti ai suoi occhi da un’auto, mentre attraversa la strada in bicicletta.
Aldo aveva  passato sempre molto tempo ad osservare quasi maniacalmente alcune persone che lo colpivano. Tra queste figurava appunto Francesca, una sedicenne dai capelli mori e lo sguardo intenso.  La guardava davvero a lungo, e dava l’idea di pensare molte cose; impossibile capire se con malizia o meno, impossibile capire cosa.
Aldo non parla con gli occhi, nè con un block notes, nè con un ridicolo computer dalla voce artificiale e gli accenti improbabili. Aldo non parla e basta. Per lui comunque non è mai sembrato essere un problema. Sicuramente tanti, in un afflato poetico, avranno supposto che Aldo non parla perchè c’è più da apprendere che da dire, perchè tutto ciò che si può dire esiste già, e basta guardarlo; perchè non c’è bisogno di dare una forma ambigua e approssimata a qualcosa che già è, perfettamente, incomunicabilmente, sè stessa.
Probabilmente questa gente ha letto troppa critica artistica e letteraria per poter capire la vita fuori di metafora.
Ad ogni modo, Aldo resta folgorato da quello che vede, per caso, attraversando una qualsiasi via della periferia. Vede Francesca scomparire sotto una grossa auto nero corvino, lucida ed elegante. Vede la borsa plastificata di Francesca liberarsi dalla tracolla e schizzare sull’asfalto, rotolare, punteggiata di sangue, aprirsi; dentro un grosso libro fotocopiato si sposta di poco, e due quaderni strisciano per qualche decina di centimetri, stropicciandosi. Un quaderno con la copertina di cartone grezzo si ferma poco lontano dai piedi di Aldo.
Ma Aldo non riesce a distogliere lo sguardo dal punto preciso in cui tutto si è concentrato in un solo istante. Continua a guardare come se anzichè conoscere l’epilogo della faccenda volesse rivederne l’inizio. Non c’è curiosità o ansia nel suo sguardo, soltanto una strana sbigottita meraviglia, che gli illumina gli occhi in un’impressione inquietante.
Vede un rigagnolo di sangue uscire da sotto le ruote, dove Francesca è sparita. I passanti hanno dei gesti molto torbidi e incerti, immediatamente prima del panico: poi urla, corse, il conducente è nell’auto: è in stato di choc: guarda fisso avanti, le mani ancora sul volante; e trema. Una donna scomposta sul balcone ha le mani tra i capelli sciatti e lancia un grido da soprano; ma Aldo non sa nemmeno chi lei sia, e probabilmente non lo sapeva nemmeno Francesca.
Passa un tempo che Aldo non saprebbe quantificare, oltre il quale si sentono delle sirene in lontananza e il conducente comincia lentamente a muoversi, ma attanagliato ora dal dubbio se a prevalere tra la folla sarà la rabbia o l’umantarismo.
In quel momento Aldo capisce che deve sbrigarsi, perchè si piega rapido a prendere il quaderno, gira i tacchi e va via a passo svelto: nessuno ha fatto caso a lui, o nessuno lo consiglierebbe come testimone: e comunque davanti all’insolito e al tragico senza colpa, tutti sono pronti a testimoniare, anche solo testimoniare che non c’erano, o tutt’al più che avrebbero potuto esserci.
Arrivato a casa, si chiude in camera, spegne la luce, accende l’abat-jour sul capezzale del letto, poggia il viso sul quaderno. Odora di paglia.
Inizia a leggerlo.

La noia seppellisce in un velo di vecchiaia ogni gesto, meccanico, di mia madre; mentre per l’ennesima volta apparecchia una tavola, nella tacita indifferenza di una casa ingrata, mentre la tv ronza qualche sonnolenta notizia di calciomercato, e suo marito progetta lavorazioni immaginarie di terreni con il genero; le pance che strabordano dalla cintura. Continuo a fissare mia madre, non le chiedo se ha bisogno di aiuto perchè trovo poetica la sua fatica sprecata e invisibile, i suoi sacrifici no profit. Lei nemmeno lo nota. Va avanti e indietro come un robottino, se morisse la scavalcheremmo per andare a prenderci da soli gli stuzzicadenti. Senza nessuna attenzione poggia al volo tre bicchieri sulla tavola, questi si piantano in verticale, col loro fondo pesante e tondo, e una goccia superstite di acqua di lavaggio inizia a scivolare verso il basso, come un’onta di vergogna per l’impeccabilità del quotidiano, e io la guardo scendere, indecisa e serpentina, cercare la tovaglia, col sottofondo vago di discorsi inutili, di gesti inutili, di inutili attenzioni.

Passa un mese. Aldo è nel cimitero di campagna della sua città, ha ancora in mano il quaderno di cartone.
Aldo prende questo foglio dalla sua tasca, lo poggia accanto alla foto di Francesca, incassata nel marmo; e dice: ” Sei stata bellissima.“.

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04
Dic
2010

La casa accanto

L’impiegato, con un sorriso infastidito, allunga il braccio fuori dal gabbiotto, a chiudere il cancelletto smaltato di nero, modellato a steli e fiori dal decadente sapore liberty. Preme il tasto 4, e la porta dell’ascensore si chiude a fatica con un paio di singhiozzi; lui intanto congiunge le mani e guarda verso l’alto, come nei migliori clichè degli impiegati immobiliari. Gli osservo il collo per un pò, poi lascio cadere lo sguardo sulla moquette formica, fingendo anch’io di concentrarmi sul cigolìo cronico dell’apparecchio.
La vecchia occupa metà dello spazio. Il suo alito pesante è un’agonia.
Continuo ad ascoltare il rumore dell’ascensore, fin quando, con un sobbalzo, ci lascia sul quarto piano.
L’impiegato si affretta a sporgersi in avanti per aprirmi il cancello. Sento la vecchia sgomitare dietro di me, vorrebbe divincolarsi per precederci e fare gli onori di casa. Il ragazzo non le rivolge neppure lo sguardo, è disgustato da quest’accoglienza campagnola. Più sono trascurati, più deve faticare e fingere. “Eccoci qua”, esordisce in un tono allegro platealmente smentito dal suo colorito di cera e dalle sue palpebre pesanti che cercano le occhiaie scure. Si ferma compostamente alla destra di un portone anonimo, facendo un cenno elegante ma scocciato alla donna, affinchè ci faccia entrare. A piccoli passi affannati e zoppi la vecchia si porta a ridosso della porta e cerca le chiavi in un mazzo pesante e disordinato, ansiosa. Apre, spinge la porta, mi sorride a stento, tra le rughe sudate del faccione appassito. Di riflesso, accenno ad una smorfia impercettibile di fredda cortesia. La porta si apre con un colpo dall’altra parte, un guaìto e delle unghie che picchiettano rapide sulle mattonelle, scandendo una fulminea ritirata.
Sul volto della donna balena un attimo di dispiacere, che dissimula subito, indicandoci con una mano il corridoio, stretto e affollato di mobilia – specchi, attaccapanni, vecchi bauli, tappeti -. Seguo i due nella penombra di quel budello; una tristezza singolare, tra il nostalgico e il rassegnato, trasuda dal leggero velo di polvere che riveste l’arredamento, da quelle fessure tra cassapanche e mobili votate all’abbandono e alla negligenza. Sul fondo del corridoio si affacciano due porte, una marrone ocra e una dipinta di un bianco opaco, sgualcito e ripassato. Il ragazzo apre la porta bianca e, e io lo vedo. Il balcone. Entro velocemente, a passo sicuro. Annuisco a ciò che dice. Non rispondo mai. Mi credono muta. Non parlo mai. Non ne ho voglia. Guardo attraverso il vetro. Vedo ciò che speravo di vedere. Non ascolto più ciò che si dice. Un omaccione si affaccia sulla soglia della camera, in canottiera di lana, e fa un cenno di saluto. Poi sparisce verso lo stesso angolo che aveva ingoiato il cane.

Un mese dopo sono lì. Dei vecchi proprietari è rimasta solo la polvere negli angoli e una paralitica tristezza che impregna i muri, assieme all’umidità e a un odore pregnante di frittura.
Sistemo i miei due scatoloni e la mia valigia nella stanza con la porta ocra. Poi entro nell’altra. E’ vuota. E’ grande. La attraverso scalza, tra sbuffi di polvere che si sollevano sotto i miei calzini. Raggiungo il balcone. Sposto la tenda. Lo osservo. Lui è lì, dietro il suo balcone. Mi ha vista. Mi aspettava. Resta in silenzio. Io resto in silenzio. Entrambi immobili. Ci osserviamo.
La sera ci sorprende lì, incorniciati da due patetiche pareti scrostate in un vicolo marcio.
Mai visto quadro più bello. Inspiro forte, tutta l’aria che posso, fino a sentirmi svenire.
Poi, più niente. Cala il buio.
E domani è un altro giorno. Un altro ancora.

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21
Nov
2010

Quasi inverno

-Io non voglio l’esclusiva su di te. – dice secca Scarlet, strappando il silenzio tranquillo della camera in penombra.
-Mi stai facendo perdere di vista i miei obbiettivi. -, aggiunge dopo un attimo di silenzio, quasi soppesando le parole.
La seconda frase non si collega alla prima, ma la completa, pensa Scarlet.
Massimo è nel dormiveglia, non la sta ascoltando. Non è innamorato nè preoccupato, sta solo riposando. Non c’è nulla di cui potrebbe lamentarsi, in fondo; o per meglio dire, non c’è nessuno motivo impellente per lamentarsi, rovinandosi la giornata.
Massimo non le sente, le gocce contro il vetro della finestra; ma Scarlet sì, riesce a separarle e sentirle una ad una picchiare contro il miocardio.
E’ seduta su un letto neanche troppo caldo, abbracciata alle sue ginocchia nude, su cui poggia blanda una copertina di cotone color panna. Con le luci spente quella camera straniera le è meno ostile, quella pregnante sconosciuta familiarità è cancellata dal buio. Forse non è stato il giorno a chiudere gli occhi, forse è stata lei, si dice Scarlet.
Per tutte queste notti a far notte è stata lei… E nessuno al mondo lo sa! Accenna a un sorriso quasi dispiaciuto, che viene subito soffocato dall’insipida stasi del momento, da quella calma di gesso che le impagliava il cuore, in quelle lunghe mattine che seguivano quelle notti sfuggenti; e la vita che era stata spogliata e mostrata per quello che semplicemente era, ora, lontano dalla consolazione di una carezza o di un gesto, restava una statua immobile, banalizzazione di se stessa, fredda nel suo blocco di marmo.
Massimo si gira dall’altro lato, tirando a sè le lenzuola: il suo corpo le dice di non disturbare, di andare via se ormai è sveglia. Scarlet stringe le ginocchia al petto e ci poggia sopra la guancia, guardando la schiena di Massimo disegnata dalle pieghe della stoffa. Vorrebbe disegnarlo ma non ha i colori giusti. Scarlet si volta e poggia la fronte sulle ginocchia. I capelli neri le coprono il viso e cadono sulla coperta. Il suo corpo chiede un abbraccio che non riceverà mai. Ha troppe spine la sua corazza.
La notte è finita e Scarlet va via, come i sogni. Ma non è questa la verità. La verità è che Scarlet va via perchè viene rimpiazzata dai sogni. Non c’è più spazio per lei nel letto. Massimo si riposa, ma non da lei. Si riposa dal giorno.
Lei è il suo palliativo per andare a letto senza pensieri. Non lo calma, lo svuota.
Lui è la sua cura all’autolesionismo, si dice Scarlet. Ma non lo sa se è vero, perchè non gli dà la colpa di niente.
Quale colpa?
Scarlet scivola giù dal letto e indossa i vestiti che aveva piegato in ordine sulla sedia, attraversa scalza la casa addormentata, prende in mano le scarpe sul pianerottolo ed esce. Massimo non le sente, le gocce contro il vetro della finestra. Scarlet invece sì, è uscita nella pioggia, e ora è lei la sua finestra, in quella camera così buia, così familiare; e può separare le gocce di pioggia e sentirle una ad una battere contro i suoi capelli, contro il suo stomaco, contro la sua coscienza.
Scarlet resta lì, ferma, finchè anche lei non inizia gocciolare.

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16
Nov
2010

il mal di stomaco

Veronica non credeva sarebbe potuta essere così felice. All’inizio era la giostra, che aveva cominciato a girare, piano, cigolando; e l’aveva portata sù, un pò più sù, sospesa a mezz’aria mentre lei si domandava se davvero si poteva essere così leggeri, e se non conveniva scendere, e se si potesse volare, volendo, nel mentre, o anche dopo. Poi, da un certo indefinito punto, la giostra con lei dentro si era fermata, e aveva iniziato a girare il mondo. Lei si sentiva come quel ragazzino che aveva visto una volta da più piccola, in un cartone: un ragazzino che aveva deciso di rimanere tale per sempre e poteva stare fermo a galleggiare nell’aria come se nulla fosse; e volava.
Veronica chiudeva gli occhi ritmicamente, come ogni volta che era molto emozionata, e non riusciva a trattenere quel sorriso che non era mai arrivata a completare, e che restava sempre un abozzo di sorriso, che dal di fuori poteva sembrava una smorfia, e poteva mettere paura. Veronica non lo sapeva, fosse stato per lei non avrebbe mai sorriso, ma poi certe volte gli altri le davano retta, le raccontavano belle cose, o cose imbarazzanti per loro o per altri, e lei provava una specie di piacere, una certa soddisfazione, quasi una comunione con gli insuccessi del mondo, e dalla pancia le saliva quel mezzo sorriso d’acciaio, che si allargava sulla bocca senza mai salire troppo, e piegandole all’insù le sopracciglia, nello sforzo di trattenerlo, o di capire.
Se si guardava i piedi, quelli restavano perfettamente fermi, a fuoco, la punta dell’uno contro quella dell’altro, nelle sue piccole vecchie scarpe argentate. Se guardava fuori, tutta la gente era diventata una macchia di colori strascinati in cerchio, come se qualcuno ci avesse passato sopra un pennello bagnato mentre la creazione era ancora fresca: e urlavano, ridevano, chiamavano nomi, coperti dal frastuono di una musica che aveva sentito spesso, una delle poche che conosceva; non che l’ascoltasse, lei non ascoltava musica, però quella la sentivi sempre, anche in macchina quando tuo papà ti accompagna a lezione la mattina; da anni la sentiva. E quindi si sentiva meno a disagio, così, anche se non c’era nessuno che gridasse “Veronica!”, lei non ci faceva nemmeno caso, guardava il vortice con un pò di paura mista a onnipotenza; su quel seggiolino c’era solo lei, e solo lei poteva volare, e nessuno poteva prenderla in giro perchè lei da lì non li avrebbe mai e poi mai sentiti, e i loro vestiti non erano migliori dei suoi, e non importava più che lei non avesse la patente, che fosse sleale, che godesse quando gli altri stavano male perchè soffriva quando gli altri stavano bene.
Poi piano piano il mondo si fermò; lei aveva ancora le gambe che tremavano e lo stomaco in gola. Ringraziò Francesca molte volte, con la sua voce strana, che saltava di tono all’improvviso in gridolini che strozzavano i nervi e ferivano i timpani. Poi arrivarono alla macchina del padre; nel tragitto Francesca si raccomandò molte volte di non raccontargli niente: lei lo avrebbe fatto lo stesso, se non fosse stato che si era divertita, e si sentiva in colpa anche lei, ed era impotentemente eccitata dall’idea del segreto, dell’amicizia, del mal di pancia.
Il viaggio in macchina trascorse tranquillo, l’aria era un pò tesa, lei cercava di smorzare il sorriso e continuava a sbattere le palpebre e modellare la faccia in smorfie più serie che sembravano quasi mostruose. Il padre per fortuna non la guardava nemmeno. Ascoltava l’opera su radio tre, e fissava la strada davanti a lui.
Quella notte dormì felice, con una strana sensazione nello stomaco, e i piedi che le formicolavano da quell’emozione che non riusciva più a contenere in nessun modo. Non capiva.
Erano le sette e diciotto quando prese la tazza di latte caldo dal microonde e fece per portarla nella sala. Di solito era la madre a prepararle la colazione, mentre il fratello si serviva da solo: lei non ci aveva mai fatto caso, aveva fatto sempre quello che le avevano detto di fare: ma oggi si sentiva ok, poteva fare anche lei quello che fanno tutti. Mescolava il latte e andava verso la porta. Allungò il braccio per spegnere la luce, ma, presa dai suoi pensieri, non riuscì a coordinare il movimento, cadde in avanti contro il muro e la tazza volò per aria; il latte schizzò su tutta la parete, su tutta la busta della spazzatura differenziata, sulla porta e sulle casse d’acqua, per poi riversarsi per terra insieme a mille cocci di ceramica bianca.
Veronica rimase lì, poggiata al muro, al buio, paralizzata dalla paura, in mezzo a quel macello.
Avrebbe voluto piangere ma non ne era capace.

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19
Ott
2010

a me di lei

D’accordo. Ci siamo. La penna? Eccola, eccola qua: una bella penna nera: ci sto scrivendo proprio ora, vedi che solchi? La adoro. Il foglio, il foglio sta sotto, perfettamente bianco, una piega là, in fondo, la vedete? Marchio di qualità. Ottimo. Io? Io ci sono, ma eccomi, un bel pezzo di ragazzone di 60 chili per un metro e quasi novanta, se non fosse che sto scrivendo pensereste che sono morto, di fame; che un morto di fame poi in fin dei conti lo sono anche.
Bene. La matita l’ho temperata e sta lì bella appuntita, in riga in alto al foglio, ma non mi serve; comunque mi dà una certa sicurezza.
Mi accendo una paglia e vi spiego tutto.
Ok.
Ci sono.
Allora. Voglio creare l’atmosfera per parlarvi di una certa storia di cui forse poco m’importa, ma chissà, è che mi si sta scrivendo da sè nel cervello e in qualche modo dovrò pur sbarazzarmene; e vado convincendomi che sia proprio lei, una stronza parassita che entra anche nella testa più insensibile, e a maggior ragione nella più insensibile, per costringerla al rigetto, ed all’inevitabile contagio. Racconta la sua storia attraverso di me, quella stronza; la racconta a voi che mai ci parlereste, stupra la mia intelligenza per partorire la sua immagine. Ora, io cercherò di essere il più conciso possibile, evitando tutti i particolari futili e i paroloni ottocenteschi, o le gag da futurismo; per togliermi da quest’impiccio il prima possibile e tornare a crucciarmi dei meritati cazzi miei.

Un giorno che non ricordo, forse oggi, del mese in cui siamo ora che a giudicare dalle foglie direi, ottobre o giù di lì;  a un’ora poco importante del primo pomeriggio lei chiuse lo zainetto con un’aria tra il nervoso e il rassegnato, quella che in gergo è detta aria da sfigata, fissò pensierosa l’orologio a schermo della tv e dopo qualche calcolo paranoico si lasciò la casa alle spalle spingendo sui pedali della bici, che aveva detto che doveva gonfiare la ruota l’ultima volta che ci siamo visti, una settimana fa, e se l’era scritto anche  sul braccio, e ovviamente ora pedalava a stento con questa ruota a terra, direzionata verso il negozio, o il centro, o chissà. Però c’era un bel sole, e allora lei prese un pò d’animo, e pensò che in fondo non sembrava una donna gestante un feto di elio e che magari quei suoi dannati capelli quadrati in testa e del colore sbagliato non erano così quadrati e quella tinta così scura sul suo viso color cadavere non stava poi così male, e magari le sue cosce non erano grosse quanto quelle delle ciccione con la cellulite che vedi in spiaggia e dici, madonna. Lei lo sapeva che non c’ero; sapeva che non c’ero anche quando dovevo esserci, figuriamoci se credeva che ci fossi oggi. In un certo modo, lei riusciva a sentirmi, e io sentivo questa cosa, e facevo finta di niente, perchè io a lei prima e dopo quei 40 minuti in cui la sentivo stare zitta non ci pensavo mai, e quindi anche se avrei potuto saperlo, che c’era, avevo altri cazzi per la testa, io, che essere il suo scrupolo di coscienza. E quindi attraversò tutta la pista ciclabile, tra quegli strani castagni di cui non conosceva il nome, dalle foglie così lunghe color arancio, e giallo, e marrone, e tutti i loro frutti così simili alle castagne, ma più scuri, con quei gusci che le ricordavano un episodio di Dragon Ball, tutti spappolati per terra, mentre cercava di evitarli; come tutti quegli strobili dell’abete vicino alla sua facoltà, che l’altra mattina l’avevano affascinata tanto, uno strano tappeto di piccoli embrioni color senape dorata che impreziosiva l’asfalto alla luce fredda del sole d’autunno, e allora ci aveva camminato sopra, e li aveva sentiti così soffici, e intanto si sentiva così in colpa, ma quando il giorno dopo, che forse era quella mattina stessa, ripassando, aveva trovato solo una grande schiacciatina gialla a sporcare il catrame, si era detta che in fondo lo sapeva, e aveva pensato, chissà se la gente si rende conto di fare manovra sullo sperma. Non aveva la testa troppo a posto, lei.
Comunque sia, parcheggiò la bicicletta vicino a un negozietto inutile in cui doveva effettivamente comprare qualcosa ma non era così urgente, così per tutto il tempo intanto pensò solo ed esclusivamente al pacchetto di sigarette che aveva messo nello zaino quella mattina, e uscita dal negozio, tra l’analisi di una faccia e quella di una scarpa, e quella di una busta fashion, aveva tirato dritto fino alle colonne, il solito stupido porticato, che già sapeva vuoto di gente di passaggio, così come in effetti era, e allora percorrendolo guardò la vetrina come se potesse davvero essere interessante la vetrina di una banca, con quegli enormi cartelloni striati di giallo su cui troneggiavano dei grossi numeri di telefono e tasso d’interesse. Altri giorni si era sistemata i capelli nelle vetrine di Pimkie e della Benetton, e si era sentita anche abbastanza cretina, così si era detta ma smettila, cosa vuoi che gliene importi di come sei, però nel mentre mendicava qualche sguardo di consenso negli ultimi passanti che incrociava prima di vedermi.
Così, questo giorno, cioè forse oggi, trattenne il respiro prima di arrivare al porticato, così da non sentire il colpo quando le sue ineccepibili previsioni non sarebbero state eccepite, e ammirando la convenienza di una banca che ora non saprebbe neanche dire quale fosse, finse di non vedere che quel gradino di marmo era insolitamente vuoto, che non c’era più la cenere di sigaretta che restava lì ogni giorno e che la polvere stava iniziando a riformarsi esattamente euguale a quella che sbiadivia gli altri gradini. Non che lei avesse passato intere ore di attesa ad osservare questa minuzia di dettagli, nei giorni precedenti, nelle precedenti settimane.
Tirò dritto in quest’apnea emotiva fino alla piazzetta solita, dove fu attratta dal miraggio di una bella panchina vuota nella metà civile della piazza, quella con vista edicola e telo che copre la Ghirlandina, così da non doversi arrischiare in quella buia in cui non aveva mai capito perchè si relegavano tutti gli stranieri a sfamare loro stessi o i piccioni o i peggio tamarri a insultare loro stessi o gli altri, attorniati dai piccioni.  Sta di fatto che affrettò il passo prendendo pieno possesso della seduta con un repentino poggiare il culo nel mezzo e tirar su lo zaino accanto a sè, zaino da cui stava prelevando, nel modo più sobrio che la sue disfunzioni psicomotorie le permettevano, una sigaretta: che era già da cinque minuti che aveva smesso di pensarci, e doveva compensare, una volta che ce le aveva, e le poteva pure fumare; e così automaticamente l’estrazione della sigaretta suonò uno “scusami”, e in un attimo si ritrovò davanti il solito tossico, che faceva le medie con me, di cui avevamo anche parlato l’ulitma volta, mi pare, o ne ho parlato con qualcun altro? Bah comunque, il solito tossico che le disse, mi dai una sigaretta? E lei gli rispose con la faccia sfottente, oh ciao, ancora tu! E lui rimase un pò intontito, come se si fosse trovato davanti a un palo parlante e si stesse domandando se era ancora fatto o se doveva ancora farsi. Poi quell’ultima sinapsi riuscì a dare un pizzico al cervello, al che lo sguardo spento fu attraversato da un attimo di coscienza e si ricordò, così lei gli chiese di me mentre gli accendeva la sigaretta, lui ci mise un pò per ricordarsi anche di me, che non si può prentendere tanto da un tossico dipendente cazzo solo in cinque minuti!, e poi gli disse che no, non mi aveva visto, magari ero tornato a casa, ma era la mia ragazza?, ma le piacevo?, vabbè se mi vedeva me lo diceva che mi cercava, non ti disperare le disse, andando via col suo giornalino di Tex sottobraccio, pensando già ad altro, o forse a nulla, mentre lei di spalle gli urlava un non mi dispero mica. Si sedette all’altra estremità della panchina una cinese sulla cinquantina. Vedendo un vecchio ondeggiare incerto alle sue spalle, lei rinunciò al territorio e buttò giù lo zaino, rintanandosi in un angolo e facendo un ampio cenno di accoglienza con la mano libera. L’uomo indugiò, domandò, si sedette, commentò, la cinese si limitò a un sorriso compiacente da non ho palesemente capito nulla e guardare altrove, lei guardava la parte oscura della piazza ma continuava a dargli risposte secche con una certa cortesia, così che lui, invogliato dalla gentilezza e dalla solitudine, ma frenato dalla perduta fantasia, tirava avanti questa improbabile conversazione a singhiozzi.  La cinese rispose al cellulare e poi si allontanò. Man mano che la sigaretta si consumava, il vecchio incalzava, con una leggera ansia, le domande tipiche da vecchio, con una ridondaza di argomenti e di parole che si perdevano le une nelle altre, mentre lei osservava con attenzione il tizzone della sigaretta e stizzava di continuo. Un altro vecchio arrivò già parlando, che non l’aveva mica visto che era qui, si sedette e continuò un discorso mai cominciato. Lei, sollevata, spense con dedizione la sigaretta su un sanpietrino, si alzò col suo bel mozzicone in mano, salutò e iniziò una dignitosa invisibile ritirata che aveva come prima tappa dal sapore ecologistico il bidone della spazzatura, dove si imbattè in un terzo vecchio storpio che, ancora a un buon paio di metri dalla panchina, esordiva in un inascoltato “ma due chiacchiere me le faccio và” claudicando verso i colleghi. Lei si allontanò con le mani in tasca e il vomito in gola, sulle labbra un sorriso leggero e un sapore di tabacco e catrame che continuava ad accarezzare con la lingua, in uno dei tic sobri con cui ultimamente aveva sostituito la sua sindrome di Tourette.
Lei lo sa che io non ci sarò, ma continuerà ad aspettarmi. Non è che sia brutta, o antipatica, o apprensiva. Per carità, tanto buona, tanto carina, tanto cordiale, o magari no, magari il contrario; o magari quello che volete. Non è che mi piaccia farla stare male o non mi piaccia vederla soffrire. Non capisco perchè cercare una soluzione più complicata e profonda del semplice fatto che a me, di lei, non me ne frega niente.

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15
Ott
2010

le lunghe attese di Anita Grey

Dando un primo sguardo alla sua vita e alla sua casa, di lei si sarebbe potuto dire forse solamente che si trattava di una persona molto sola – volendo essere completamente onesti, di una persona in cui la solitudine aveva scavato la dignità fino a raggiungere il patetico.
Luciana era una donna di mezz’età; se per mezz’età si vuol intendere un’età indefinita in cui non si è più abbastanza giovani da prendere la vita di petto ed aspettarsi qualche opportunità dal cielo, ma nemmeno si è ancora tanto vecchi da potersi lasciar schiacciare dalla vita inveendo contro la novità e pretendendo qualche piccola opportunità di vanagloria dagli altri.
Era una donna bassina, dalle forme un pò piene vanificate sotto vestiti di cotone informi, infeltriti su gomiti e ginocchia; a coronare il ritratto anonimo c’era un caschetto biondo cenere di capelli crespi che, ricadendo anche sulle palpebre, la portavano a stringere e spalancare i suoi piccoli occhi ritmicamente, come se si stesse sforzando di capire qualcosa per cui fingere interesse.
La sua dimora era di un banale color bistro, con dei geranei rugginosi alle finestre nei giorni più caldi; e se ne stava, sola tra mille simili, a scolorire accanto al panificio di quartiere. Le pareti delle stanze erano impregnate dell’odore di fiori appassiti e naftalina, per quanto quel donnino fosse sempre indaffarato a strofinare le mensole con l’ammoniaca e arieggiare le camere due volte al dì. Quella pulizia asettica aveva invece l’effetto di rendere l’ambiente ancora meno ospitale, o per meglio dire più impersonale e “immobile”, come se ogni oggetto e ogni molecola dell’aria fossero congelate nella loro posizione da un tempo indefinibile. Così che, quando qualcuno malauguratamente si trovava ad entrare e accomodarsi in salotto, aveva sempre la sensazione di essere fuori luogo, e continuava a rigirarsi sulla poltroncina di velluto come se fosse fatta di spine, e non vedeva l’ora di infilare l’uscita e andare a far due chiacchiere al bar con chicchessia, per scrollarsi di dosso la pesantezza di quella prigione del tempo, che tanta tristezza pareva piangere da ogni tinta, ogni oggetto, ogni porta di legno pesante.
Luciana teneva le unghie tagliate corte e smaltate di rosso, e da ventitrè anni usava sempre lo stesso profumo dozzinale, dolce fino allo stucchevole. Quel giorno era molto nervosa e si storceva le mani l’una nell’altra, guizzando avanti e indietro ora nel bagno, ora nella camera, ora nel salotto, come per riassettare, o prendere qualcosa, o spazzar via un velo di polvere con la manica; e poi tornava allo specchio, e faceva per prendere la spazzola, o ripassarsi il rimmel, e si guardava con un barlume di speranza che si soffocava all’istante nello sguardo morto dell’impersonalità. Senza un metro di paragone, possiamo veramente dire di essere belli, o di stare bene? Così nella sua solitudine aveva solo il nulla, con cui misurarsi; e con cui trovare impietosamente e docilmente mille punti di incontro. Ma Luciana non era una filosofa; Luciana aveva sì e no la terza media, e di queste cose neppure se ne avvedeva, e l’angoscia che le agitavano dentro nemmeno la sapeva angoscia, e si domandava cosa le prendesse, e tutt’al più come risposta metteva sul fuoco una camomilla.
In quel periodo in realtà Luciana sentiva più che mai il bisogno di scambiare anche solo due parole, di sentirsi parte di un qualche mondo, non tanto per una questione affettiva quanto per un desiderio disperato di normalità che attanagliava la sua piccola persona.
Finalmente si decise a prendere la borsa, quella di pelle marrone, che su quei vestiti faceva l’effetto della madre che corre in fretta e furia al mercato prima di prepararsi per andare a lavoro, e non bada di avere addosso quella che sembrerebbe più una tuta da jogging che una mise da passeggio.
Sta di fatto che era sabato, giorno libero, e lei stava programmando questa uscita da due o tre giorni. Aveva visto, tornando dall’ufficio, dei ragazzini che fermavano la gente per parlare di libri (si era avvicinata per sentire che fosse), ma siccome lei passava sempre di gran corriera dall’altro lato della strada, non l’avevano mai notata, e quindi non le avevano rivolto quelle tanto agognate parole di attenzione, che pure in quei momenti non avrebbe potuto ascoltare. Ma oggi, sarebbe capitata lì con aria sfaccendata, e loro l’avrebbero subito imbeccata, e fatto con lei il loro sfoggio di cordialità e di scadenti battute di comodo.
Quando arrivò sotto il porticato, però, c’era solo un gruppo rado di gente che cincischiava tra le vetrine dei pochi negozi aperti. Si guardò intorno, delusa e preoccupata, fece qualche altro passo, giocherellò con degli spicci che aveva in tasca, fingendo di guardare qualche cosa per terra o vicino alla chiesa, tornò inietro, sollevò gli occhi su un paio di facce dure e qualche espressione briosa da ragazzino o donna sbarazzina; questa indifferenza le riabbassò gli occhi sulle sue vecchie scarpe di cuoio, che torceva come a spegnere una cicca sul marciapiede. Poi prese un pò d’animo e si voltò di scatto, ritornando verso il suo vicolo a passo svelto.
Io, seduta sotto il portico, la osservai per tutto il tempo; e non ci misi molto ad immaginarmi la sua storia.

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12
Ott
2010

mattine d’autunno

Il giorno aveva sollevato una coltre brumosa di polvere, sospesa sui tetti delle case lontane nell’orizzonte. L’azzurro del mattino era gelido. Veronica respirava l’aria fredda lentamente, nella penombra di una panchina, attraverso la sciarpa di lana grigia; osservando a occhi stretti quella lontana foschia. Spostò lo sguardo sul rosso inglese delle sue unghie smaltate di fresco. Il sole cominciava a scintillare sulle grondaie e a colorare il vialetto col giallo acido delle prime foglie morte, e sotto gli aceri si frammentava in mille scheggie di un verde pungente.
Veronica fece scorrere piano la cerniera della borsa, quasi incantata dal meccanismo, che strappava il silenzio dell’alba. Indagò i pacchetti di sigarette scorrendoli con due dita, indugiò sulle Diana, accarezzandone il coperchio; poi si spostò decisa sulle Winston Blu, sollevò la scatolina, tirò fuori una sigaretta e la portò alle labbra. Richiuse la confezione e ripose la borsa sulla panchina con un’accuratezza nervosamente morbosa.
La sigaretta rimase incollata alla sua bocca, mentre cercava l’accendino nella tasca dei jeans. Lo sollevò e lo accostò al viso, piegandosi leggermente in avanti, e raccogliendo i lineamenti in un’espressione un pò corrucciata, che ispirava allo stesso tempo tenerezza e gelo.
Veronica aveva un pacco di sigarette per ogni stato d’animo. Quindici pacchetti da 10 sigarette ciascuno. Perchè il numero di occasioni e stati d’animo è di gran lunga maggiore del numero di volte che se ne ha uno. Era molto matematica, Veronica. Amava le dimostrazioni logiche e la fisica quantistica, quasi quanto amava le sei del mattino.
E le sei di quel mattino avevano portato una strana occasione e uno strano stato d’animo, così che il sapore di quella sigaretta, la sua lunghezza, il suo spessore tra i denti, erano tutti leggermente ed irrimediabilmente stonati; e questo la infastidiva in maniera particolare, come un prurito dell’anima che risveglia un masochismo sopito. Così, l’ansia indefinita che le formicolava nello stomaco dalla sera prima, quando aveva fatto quella scoperta, era sfumata ora in una leggera inebriante eccitazione, che piantava le sue infide radici nel terreno fertile della repressione colpevole.
Veronica aveva ancora il sentore del caffè amaro sulle labbra. Scostò la sigaretta e lo assaporò ad occhi chiusi, espirando il fumo dalle narici. Un passerotto fece crepitare delle foglie con pochi saltelli, riportandola in stato d’allerta; quindi la fissò chinando la testolina, con i suoi piccoli occhi vuoti, e volò via. Veronica portò una mano sulla borsa. Proprio in quel momento sentì il ruggito di tosse rauca di un uomo anziano. Fu un attimo. Veronica, con una velocità ed una precisione meccaniche, tirò fuori la pistola ed esplose due colpi che si piantarono nella fronte e nel torace del vecchio.

Veronica era stata una ragazzina come tante altre, con dei lunghi capelli raccolti in elastici colorati, e un sacco di interessi troppo grandi o troppo piccoli per lei. Certi giorni si sedeva tra il muro e la cassettiera della camera di sua madre, al buio, e pensava a cose tristi, come la morte o l’impossibile. Uno di questi giorni ebbe l’ironia crudele di coincidere con uno di quei giorni in cui lo strozzino con cui si era infognato il suo defunto padre faceva visita alla sua vivente madre.
Nei tempi migliori che a stento seguirono, i ricordi di Veronica furono progressivamente ammortati in un sonno sintetico, le sue sensazioni scambiate con pillole dai colori vivaci.
Ma l’uomo non dimentica. L’uomo archivia. Dimenticare è solo un chiudere la chiave nel cassetto. Ma se è vero che esiste l’incoscienza, è vero anche che possiamo nascondere a noi stessi molte cose. A maggior ragione, una chiave immaginaria.

Veronica si alzò con calma e gli si avvicinò, fino a sfiorare la sua giacca con la punta delle scarpe. Il sangue iniziava a rigare le giunture dei mattoncini. Lei lo guardò senza espressione. Lasciò cadere la pistola, che con un tonfo gli si posò accanto al gomito, rimasto flesso. Si voltò, ripiegando con attenzione il fazzoletto di stoffa azzurra che aveva avvolto l’impugnatura; lo infilò nella borsa facendo spazio tra i libri e richiuse la cerniera con un gesto secco, mentre già si allontanava. Veronica non era nè triste nè felice. Magari avrebbe anche aborrato la violenza, in un’altra vita. In questa, le era stata imposta.

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22
Set
2010

stare per

– Temo di stare per impazzire, sai. – mi sussurò, stringendo la sua mano nella mia.

Non so come fosse cominciato tutto ciò, o che cosa fosse di preciso. Le sue dita ossute e gelide accarezzavano le mie, stringendole sempre di più, con la stessa disperazione con cui immagino suonassero i notturni di Chopin, tutte le notti. Questo almeno lei mi raccontava. Ed io, da casa, li sentivo. Non al computer, o dal vinile; no. Li sentivo nella mia testa, accompagnavano i miei ultimi gesti vuoti e desolati della giornata, davanti allo specchio, nel letto; cercavano di addormentarmi cullandomi tra le coperte. Ma la dolcezza pungente di quelle note era impastata nell’angoscia che le teneva insieme.
Così mi suonava il suo volto, così la sua tiepida effimera compagnia. Era intrappolata in un mondo terribile, Michelle. E la melodia di lei, che tanto amavo, era il mio tormento. I miei sensi cercavano in lei la pace, e trovavano l’ossessione. E la mia anima beveva avida quell’orda di sentimenti che mi scuotevano fin nelle vene. Lei era il sogno che non arriva mai, il sogno che ti dà ancora una ragione per svegliarti.

Quel giardino era in fondo il sonno che lei strappava alle mie notti; ma molto più denso, un ristoro molto più avvolgente.
Quel giardino così pulito, con l’erbetta verde corta nelle quadre delimitate da alti pioppi ordinati, che scandivano il reticolo di ciottolato azzurrino, punteggiato di panchine in legno scuro. C’era davvero da uscire pazzi, povera Michelle.  Istituto, così lo chiamavano ora. Tre volte al giorno, due infermiere che odoravano di disinfettante, sorridenti e distratte, le porgevano un vassoietto con una scodella di cibo preparato alla meno peggio, un bicchierone d’acqua naturale e due pillole. Michelle ormai prendeva solo le pillole. Non la sgridavano neanche più.
Io, dal canto mio, non le avevo mai rimproverato niente. Puoi costringere un gatto ad abbaiare, puoi istigare un albero a mordere? Era intrappolata in un mondo terribile, Michelle. Michelle era la mia innocenza, protetta in uno scrigno di carne pallida dalle spalle strette e dalla vita sottile. Un’innocenza dall’anima sfuggente, un’anima che a volte avevo visto balenare dietro i suoi occhi vitrei, in qualche discorso o in qualche piccolo gesto, tra le ciocche castane scomposte che le serpeggiavano sul viso; per poi risprofondare nel torbido dei suoi pensieri, i suoi pensieri soffocanti come catrame fresco, che inghiottivano ogni speranza, cementavano ogni parola.  Allora le sue labbra si serravano con una specie di muto singhiozzo incerto, e il suo sguardo tornava a fissarsi nel vuoto, o su un minuscolo particolare, o su uno scatto ripetuto della sua mano.

Quel giorno le avevo portato due grandi biscotti al cioccolato rotondi, incartati in un tovagliolo di stoffa blu. Glieli avevo preparati io. Con quell’amore calorico comprai un suo sorriso; io, avido sfruttatore di solitudini; io, egoista impersonatore di anime assenti. In un’ora di conversazione ne mangiò quasi uno intero, la vedevo affondare morsetti affamati e un pò impacciati, guardandomi di sottecchi; e anche i suoi occhi parevano sorridere, e questo mi riempì un pò il buco che avevo nel cuore.

Quello stesso inverno, le regalai un’enorme sciarpa di lana viola. La indossava ogni volta che sperava sarei andato a trovarla, mi diceva. Indovinava sempre. Io non credo che la mettesse ogni giorno. Mi spiegò che nella sua camera aveva liberato uno scaffale apposta, dove ripiegava la sciarpa ogni pomeriggio, dopo avermi incontrato. Le mattine che non la indossava, le rivolgeva sempre uno sguardo triste, e pensava a me – testuali parole – per 6,3 secondi.

Io non avevo il permesso di entrare negli alloggi, così credevo a tutto ciò che mi raccontava. In realtà, avevo cercato le immagini della struttura su internet: le camere erano scatole sgualcite che non superavano i 10 mq, bagno incluso. Ma lasciavo che lei, almeno in me, trovasse il terreno fertile per impiantare il suo assurdo, fragile universo. Le sue strane compagnie e i suoi antri segreti, il suo balconcino botanico e le sue tende altissime come quelle delle principesse.

Un giorno arrivai al cancello del giardino col freddo dentro e una bambola di pezza dal nome di Tina nello zaino.
Contravvenendo al giuramento di Ippocrate per soccombere alla compassione umana, un’infermiera di mezz’età si concesse in cinque minuti di una spiegazione in cui figuravano una sciarpa al collo, un letto, 42 pillole accumulate di nascosto nella scatola del temperamatite e una rianimazione fallita.
Uscendo buttai via la bambola nel primo cestino.

Era intrappolata in un mondo terribile, Michelle.
Ma finalmente era riuscita a fuggire…

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21
Set
2010

sono albero, sii albero

-Oggi è il mio compleanno!-
-Sai quanto ce ne frega!

-Ma và, che scherzavo, minimbecille! Viè qua!-

Michele era un bambino non troppo sveglio che viveva in una comunità di hippies autoconfinatasi alla periferia di una città di periferia pressochè sconosciuta.

Michele piangeva. Piangeva per qualsiasi cosa. Piangeva così tanto e così facilmente che quando qualcuno prendeva troppo a cuore una questione che in effetti era davvero di minima rilevanza, tanto da non importare nemmeno al diretto interessato, si usava dire “preoccuparsi per Michele”.
Ogni tanto qualcuno di buon cuore (come il tizio con i basettoni grigi e la pipa sempre in bocca ma mai fumante che si faceva chiamare Zio Tauro) intratteneva un pò Michele, così che non rompesse le palle al resto della comunità; dal momento che Michele di genitori non ne aveva. Non si sapeva nemmeno come fosse arrivato lì, nessuno se l’era mai neanche domandato in realtà, per cui anche se qualcuno aveva visto qualcosa sarebbe stato sepolto con questo inutile segreto. Semplicemente, un giorno Michele era lì, dietro il camper di Maria. Che piangeva.
Maria era una donna sulla quarantina, dai capelli di molti grigi, secchi e lunghi; per questo i ragazzini le davano della megera, al che lei rimbeccava con un signorile VAFFANCULO, tirandogli dietro una secchiata di spazzatura.
Come avrete immaginato, Maria non era il tipo che, come si suol dire, “si preoccupava per Michele”; quindi quando lo trovò dietro casa sua si limitò a prenderlo in casa e dargli da mangiare e lasciarlo deambulare in giro come gli pareva quando ne fosse stato capace.

Quel giorno, che Michele sosteneva fosse quello del suo compleanno (sicuramente gliene avevano parlato i ragazzini per farlo imbestialire), Zio Tauro lo chiamò vicino alla sedia disastrata su cui passava i suoi giovedì pomeriggio, e lo fece mettere a sedere con un autoritario ineluttabile cenno della mano. Michele stava sempre col broncio, come se qualunque cosa del mondo fosse fatta per fare un dispetto a lui: con soggetti del genere solo la dittatura non è deleteria.

– Immagina di mandare gli occhi all’indietro. Non in su o in giù, ma dentro, mi capisci? Dietro. Adesso chiudi le palpebre e tira gli occhi più in dietro possibile, trattienili finchè non smettono di farti male, rilassati. Ti senti tranquillo? Va bene. Adesso smetti di essere. Nel senso, non pensare. Non pensare a te o quello che devi fare oggi o cosa c’è per pranzo. Immagina di essere il nero nel nero che vedi.
Ascolta la mia voce come fosse il tuo battito, il battito dell’universo.
Immagina i contorni bianchi di due ovali messi in verticale. Avvicinali fino ad avere due imbuti specchiati che continuano l’uno nell’altro. Quello è un canale in cui può scorrere la tua vita. Creane tanti, uno spazio tridimensionale di piccoli vasi comunicanti. Non c’è bisogno che ne immagini la geometria. L’importante è il concetto. Tubi comunicanti , dall’alto in basso, nel vuoto. Sentiti percorrere all’infinito da questi tubi, dal centro della testa alle punte dei piedi, mille piccoli capillari di luce, li vedi? Li senti? Proteggili, costruisci intorno una parete dura per quei fili così eleganti, così delicati. Immagina che il tuo corpo sia una dura corteccia insensibile che protegge i tuoi fili. Una dura corteccia che attutisce il caldo e il freddo, che isola il tuo interno. Adesso immagina un liquido freddo, come fosse cristallo liquefatto, che parte dal centro della tua testa e attraversa i mille capillari che ti percorrono ogni lembo del corpo, in tutte le ramificazioni, con un accordo di arpa per ogni capillare, dove le note sono i nodi di incontro tra due capillari che si dividono…. una scala di ghiaccio che ti  percorre dall’alto il basso… e… e…. hhhh…h..

Non riuscì a finire il suo delirio, il povero Zio Tauro, che fu stroncato da un attacco di cuore, pace all’anima sua.

Ovviamente quel cazzone di Michele dormiva da dieci minuti.

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