19
Dic
2010

around you

Una frenata secca. L’auto che fa un mezzo testacoda, imperniata sul freno a mano; lo stridore delle ruote scuoiate dall’asfalto, l’odore leggero e pungente di gomma bruciata. Il rimbombo nelle orecchie di un clacson premuto con forza qualche istante prima. Il tempo si sfasa, rallenta, frena: lascia cadere in avanti il suono, con lo stesso aggetto dell’autista che viene spinto verso lo sterzo ,come un manichino; e strattonato contro il sedile dalla cintura.
La scena poco oltre la macchina non è così d’impatto, ma si dilata a fisarmonica l’istante prima dell’urto: una serie cinematografica di immagini scatta a fatica una storia senza soluzione di continuità, dal suo voltarsi al suo repentino cambiamento d’espressione, il modo in cui le sue pupille si restringono, gli angoli della sua bocca che si abbassano lasciandola semiaperta in un urlo vuoto; i capelli le sbattono sulla schiena per la sua frenata istintiva, i tendini sul collo si delineano, come se il suo corpo stesse faticando a voltarsi in avanti; ma lei non riesce a distogliere lo sguardo, e il blocco del tempo si incanala nei suoi occhi fissi e si proietta sulla macchina, che viene allontanata di mille frazioni di secondo, e riavvicinata in una sequenza strozzata in attimi infinitesimamente brevi fino all’impatto imminente NO! pensa lei, NO! grida lui, nello stesso preciso momento in cui la frattura del tempo si ricompone, e le due metà combaciano perfettamente in un colpo sordo che chiude la scena.

Aldo è un ragazzo strano, uno di quei ragazzi per cui si preferisce utilizzare il termine speciale, o quantomeno particolare; pronunciato così, a fior di labbra, con quell’accento iniziale che in un qualche modo sembra inclinare la parola, quasi fosse infetta. Non è chiaro se sia muto dalla nascita o vagamente autistico; in ogni caso, ha il 100% di invalidità civile, così che a nessun familiare balena la speranza che un giorno Aldo lo delucidi in proposito.
E Aldo dà questo tipo di soddisfazioni, piccole abitudinarie soddisfazioni.
Oggi Aldo assiste a qualcosa di incredibile. La figlia del fornaio viene investita davanti ai suoi occhi da un’auto, mentre attraversa la strada in bicicletta.
Aldo aveva  passato sempre molto tempo ad osservare quasi maniacalmente alcune persone che lo colpivano. Tra queste figurava appunto Francesca, una sedicenne dai capelli mori e lo sguardo intenso.  La guardava davvero a lungo, e dava l’idea di pensare molte cose; impossibile capire se con malizia o meno, impossibile capire cosa.
Aldo non parla con gli occhi, nè con un block notes, nè con un ridicolo computer dalla voce artificiale e gli accenti improbabili. Aldo non parla e basta. Per lui comunque non è mai sembrato essere un problema. Sicuramente tanti, in un afflato poetico, avranno supposto che Aldo non parla perchè c’è più da apprendere che da dire, perchè tutto ciò che si può dire esiste già, e basta guardarlo; perchè non c’è bisogno di dare una forma ambigua e approssimata a qualcosa che già è, perfettamente, incomunicabilmente, sè stessa.
Probabilmente questa gente ha letto troppa critica artistica e letteraria per poter capire la vita fuori di metafora.
Ad ogni modo, Aldo resta folgorato da quello che vede, per caso, attraversando una qualsiasi via della periferia. Vede Francesca scomparire sotto una grossa auto nero corvino, lucida ed elegante. Vede la borsa plastificata di Francesca liberarsi dalla tracolla e schizzare sull’asfalto, rotolare, punteggiata di sangue, aprirsi; dentro un grosso libro fotocopiato si sposta di poco, e due quaderni strisciano per qualche decina di centimetri, stropicciandosi. Un quaderno con la copertina di cartone grezzo si ferma poco lontano dai piedi di Aldo.
Ma Aldo non riesce a distogliere lo sguardo dal punto preciso in cui tutto si è concentrato in un solo istante. Continua a guardare come se anzichè conoscere l’epilogo della faccenda volesse rivederne l’inizio. Non c’è curiosità o ansia nel suo sguardo, soltanto una strana sbigottita meraviglia, che gli illumina gli occhi in un’impressione inquietante.
Vede un rigagnolo di sangue uscire da sotto le ruote, dove Francesca è sparita. I passanti hanno dei gesti molto torbidi e incerti, immediatamente prima del panico: poi urla, corse, il conducente è nell’auto: è in stato di choc: guarda fisso avanti, le mani ancora sul volante; e trema. Una donna scomposta sul balcone ha le mani tra i capelli sciatti e lancia un grido da soprano; ma Aldo non sa nemmeno chi lei sia, e probabilmente non lo sapeva nemmeno Francesca.
Passa un tempo che Aldo non saprebbe quantificare, oltre il quale si sentono delle sirene in lontananza e il conducente comincia lentamente a muoversi, ma attanagliato ora dal dubbio se a prevalere tra la folla sarà la rabbia o l’umantarismo.
In quel momento Aldo capisce che deve sbrigarsi, perchè si piega rapido a prendere il quaderno, gira i tacchi e va via a passo svelto: nessuno ha fatto caso a lui, o nessuno lo consiglierebbe come testimone: e comunque davanti all’insolito e al tragico senza colpa, tutti sono pronti a testimoniare, anche solo testimoniare che non c’erano, o tutt’al più che avrebbero potuto esserci.
Arrivato a casa, si chiude in camera, spegne la luce, accende l’abat-jour sul capezzale del letto, poggia il viso sul quaderno. Odora di paglia.
Inizia a leggerlo.

La noia seppellisce in un velo di vecchiaia ogni gesto, meccanico, di mia madre; mentre per l’ennesima volta apparecchia una tavola, nella tacita indifferenza di una casa ingrata, mentre la tv ronza qualche sonnolenta notizia di calciomercato, e suo marito progetta lavorazioni immaginarie di terreni con il genero; le pance che strabordano dalla cintura. Continuo a fissare mia madre, non le chiedo se ha bisogno di aiuto perchè trovo poetica la sua fatica sprecata e invisibile, i suoi sacrifici no profit. Lei nemmeno lo nota. Va avanti e indietro come un robottino, se morisse la scavalcheremmo per andare a prenderci da soli gli stuzzicadenti. Senza nessuna attenzione poggia al volo tre bicchieri sulla tavola, questi si piantano in verticale, col loro fondo pesante e tondo, e una goccia superstite di acqua di lavaggio inizia a scivolare verso il basso, come un’onta di vergogna per l’impeccabilità del quotidiano, e io la guardo scendere, indecisa e serpentina, cercare la tovaglia, col sottofondo vago di discorsi inutili, di gesti inutili, di inutili attenzioni.

Passa un mese. Aldo è nel cimitero di campagna della sua città, ha ancora in mano il quaderno di cartone.
Aldo prende questo foglio dalla sua tasca, lo poggia accanto alla foto di Francesca, incassata nel marmo; e dice: ” Sei stata bellissima.“.

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17
Dic
2010

Enter

Apparentemente fermo
a meno di una mano
la sinistra
vorticosamente vibrano
le dita
tutte
al netto del mio mignolo
tendini tesi
in contrasto
completamente rilassato
il mio volto è sacro
sguardo
in terra
scruto il mio scroto
involucro di noia
la forma è duplice
fastidio
ispirazione
intercalare del dolore
interlacciare gioie altrui
in tempi morti
la soluzione
cerume, miopia, priapismo del prossimo
il calore
quando mi esterno in prospettive particolari
dettagli
insoliti dettagli
l’ignoranza
contro il tedio dei media
realizzo
l’ergonomicità della mia nuca
quando una cassiera
ignara mi maneggia
l’assenza di memoria non giustifica
la sonante
inebriante
pronta cassa meccanica.

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14
Dic
2010

è andata proprio così

Una sedia nello spazio e lui, su quella sedia, a dimenarsi. Le sue mani tremano, i suoi polsi cercano con ostinazione la fuga, il suo torace si espande, come gas. Si chiamava Libero, e qualcuno continuava ancora a chiamarlo così, ma la sedia lo stringeva e costringeva in quell’ossida ferraglia, insieme al suo nome. Il pazzo rideva, al solo pensarci, rideva. Il destino gioca, ma solo l’uomo vince e lui aveva perso, perso contro  tutti, anche con se stesso. Di li a poco sarebbe stato pervaso dalla corrente, carbonizzato come suo padre, dalla stessa sedia, ma più di suo padre, lo spazio, e la sua ammirevole solitudine ne avrebbero celebrato il passaggio. Requiem degl’astri dunque, la luce viaggia al buio. Intorno il nulla, intorno tanti piccoli sistemi, ne ricordava qualcuno visto su qualche vecchio libro di scuola, solo, adesso, niente immagini. Il tempo si perde, lui volteggia, strizza gli occhi, si dimena. Libero, che nome ironico; voleva guardare il sole da vicino e a modo suo c’è riuscito, senza immagini.
Tirato su da un razzo, spedito ben oltre la magnetosfera, avvolto in una bandiera dal tricolore opaco, nel sonno, ora viaggia in orbita.
Non sente nulla.
Privato dell’ossigeno si afferra alla vita, tenta la sorte, il suo moto continua, si scuote, forza i legacci, libero vaga nello spazio in compagnia di una sedia. Non cerca aiuto, non ha tempo per le domande, il timer segna tre minuti, ancora tre minuti. . .
e allora inarca la schiena, morde il paradenti, serra la mascella, e vorrebbe disfarsi degli elettrodi impiantati sul suo ossuto cranio rapato, ma c’è il casco a tenerli ben saldi, Libero ha bisogno delle sue mani. Marte e le sue due guardie sono ormai lontane, Venere invece, sembra essere così vicina, quasi imminente, la guarda intimidito, si sofferma, non ha satelliti, venere è sola, senza ricordi. Il timer continua a rubargli secondi, mancano poco più di due minuti e il nostro vecchio si incanta, e come dargli torto, non capita a tutti, ne tutti i giorni, di avere occhi pieni come i suoi, ingordi, si cibano, lui prova, con eccelsa tenacia a indirizzarli sui suoi legacci, cerca, tenta, ma nulla.  Libero non ha tempo, dovrà fare a meno degli occhi. Due minuti ancora,  forse non basteranno, inizia a soffrire il freddo, inizia a sentirlo scavare, dentro, penetrare la pelle per attanagliargli le ossa, le strozza fino a spezzarle.
Fa male, diavolo se fa male. Il dolore lo accende,  come  fuoco  brucia, Libero scalda lo spazio, e, a poco a poco, si consuma. Sua madre lo picchiava spesso, suo padre, quando non si rivaleva su di lui, puniva sua madre, il nostro affezionatissimo non ha mai bruciato una lucertola, il nostro vecchio non le ha mai suonate a nessuno. Il timer spacca il minuto, lui continua a ruotare, descrive un orbita nell’orbita, si avvicina  a Mercurio, adesso il flusso di plasma lo travolge, libero arde, e perde il senno, nel dirocco di Nettuno tende al sole, così ostico, intrattabile, così sporco. La  sedia non da cenni di cedimento, se non lo ammazzerà la corrente lo farà il sole; trenta secondi, lui desiste, si ferma, s’arrende, mentre Venere si allontana. Punta al sole ora, mancano dieci secondi, in un modo o nell’atro dovrà morire, questo la sa, ma ora in testa gli  guizza come una carpa un pensiero, non sarà una sedia elettrica ad abbrustolirlo, libero punta al sole. Otto secondi per essere travolti da un masso roccioso, due secondi per forzare la struttura, scioglie i polsi, un secondo, gli elettrodi sono ancora in testa, time-out. La corrente parte, gli elettroni attraversano quell’intreccio insolito di mogano e rame, per un attimo ne viene raggiunto, quand’ecco che s’affranca. La sedia esplode, libero ha smesso di ruotare.
Fuori pericolo, adesso nuota. Fa rotta verso il sole.

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14
Dic
2010

Un chissa’ qualunque.

Chissa’.
Un chissa’ perfetto ,rotondo,corposo come un bicchiere di vino buono.
Seguendo i chissa’ mi ritrovo su strani temi filtrati dalla percezione ambigua, come tutti i forse.
Strano mondo dalle pupille al di sopra dei colori, al di sotto delle dita abbagliate dal neon, acquistato senza sconti come tutte le follìe.
Odio chi non conosce nemmeno un briciolo di sofferta follìa, eppure la declama come se la conoscesse.
Conosci tu Dio? e’ Lui che mi sta stretto nella scatola cranica fino a farla scoppiare nonostante la Bonta’.
E conosci la stranezza? quella vera intendo. Quella che si spinge sino ad oltrepassare limiti di cartapesta con punteruoli di diamante, quella che assume il volto di un’aquila che dispiega le ali come fendenti, per colpire l’estremo e tornare sotto le mentite spoglie di una donnina qualunque.
Spalancava gli occhi da bambina,vedendo cio’ che credeva vedessero tutti ed era giallina o viola, verdastra o bianco sublime.
Eppure non era così tachicardica la realta’, nonostante fosse fatta di milioni di altrove.
Chissa’.
Volevo essere un albero di piume azzurre che trasalivano d’emozione ad ogni bacio di vento e invece no, sono un torrente che trascina sassi e favole assieme i detriti buoni, annaspando ferocemente per non farsi seppellire da quelli nocivi, se cosi’ si puo’ dire.
C’eri tu comunque, al di sopra delle parti squartate e ingoiate dalle pupille, prima del digiuno.
Per questo ti decifro ad ogni luccichìo che invade i tuoi occhi, sia esso attinto da fonte di luce o tenebra.
I nostri insiemi sono costellati da laghi oscuri che esaltano il biancore assunto da un cielo annusato lievemente, per non morirne .
E che noia sorridere ad un mondo che attende un sorriso qualunque, fingendosi parte dell’universo ma che stringe sul petto un recinto d’acciaio, come fosse un mazzo di fiori di campo. Che si fottano.
Noi non ne saremo mai capaci, la tua corda sara’ la mia e la mia sara’ tua, da equilibristi che improvvisano i loro numeri da sempre, sciogliendo quei nodi che la volevano cappio.
Amore.
Se cosi’ si puo’ dire.

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04
Dic
2010

La casa accanto

L’impiegato, con un sorriso infastidito, allunga il braccio fuori dal gabbiotto, a chiudere il cancelletto smaltato di nero, modellato a steli e fiori dal decadente sapore liberty. Preme il tasto 4, e la porta dell’ascensore si chiude a fatica con un paio di singhiozzi; lui intanto congiunge le mani e guarda verso l’alto, come nei migliori clichè degli impiegati immobiliari. Gli osservo il collo per un pò, poi lascio cadere lo sguardo sulla moquette formica, fingendo anch’io di concentrarmi sul cigolìo cronico dell’apparecchio.
La vecchia occupa metà dello spazio. Il suo alito pesante è un’agonia.
Continuo ad ascoltare il rumore dell’ascensore, fin quando, con un sobbalzo, ci lascia sul quarto piano.
L’impiegato si affretta a sporgersi in avanti per aprirmi il cancello. Sento la vecchia sgomitare dietro di me, vorrebbe divincolarsi per precederci e fare gli onori di casa. Il ragazzo non le rivolge neppure lo sguardo, è disgustato da quest’accoglienza campagnola. Più sono trascurati, più deve faticare e fingere. “Eccoci qua”, esordisce in un tono allegro platealmente smentito dal suo colorito di cera e dalle sue palpebre pesanti che cercano le occhiaie scure. Si ferma compostamente alla destra di un portone anonimo, facendo un cenno elegante ma scocciato alla donna, affinchè ci faccia entrare. A piccoli passi affannati e zoppi la vecchia si porta a ridosso della porta e cerca le chiavi in un mazzo pesante e disordinato, ansiosa. Apre, spinge la porta, mi sorride a stento, tra le rughe sudate del faccione appassito. Di riflesso, accenno ad una smorfia impercettibile di fredda cortesia. La porta si apre con un colpo dall’altra parte, un guaìto e delle unghie che picchiettano rapide sulle mattonelle, scandendo una fulminea ritirata.
Sul volto della donna balena un attimo di dispiacere, che dissimula subito, indicandoci con una mano il corridoio, stretto e affollato di mobilia – specchi, attaccapanni, vecchi bauli, tappeti -. Seguo i due nella penombra di quel budello; una tristezza singolare, tra il nostalgico e il rassegnato, trasuda dal leggero velo di polvere che riveste l’arredamento, da quelle fessure tra cassapanche e mobili votate all’abbandono e alla negligenza. Sul fondo del corridoio si affacciano due porte, una marrone ocra e una dipinta di un bianco opaco, sgualcito e ripassato. Il ragazzo apre la porta bianca e, e io lo vedo. Il balcone. Entro velocemente, a passo sicuro. Annuisco a ciò che dice. Non rispondo mai. Mi credono muta. Non parlo mai. Non ne ho voglia. Guardo attraverso il vetro. Vedo ciò che speravo di vedere. Non ascolto più ciò che si dice. Un omaccione si affaccia sulla soglia della camera, in canottiera di lana, e fa un cenno di saluto. Poi sparisce verso lo stesso angolo che aveva ingoiato il cane.

Un mese dopo sono lì. Dei vecchi proprietari è rimasta solo la polvere negli angoli e una paralitica tristezza che impregna i muri, assieme all’umidità e a un odore pregnante di frittura.
Sistemo i miei due scatoloni e la mia valigia nella stanza con la porta ocra. Poi entro nell’altra. E’ vuota. E’ grande. La attraverso scalza, tra sbuffi di polvere che si sollevano sotto i miei calzini. Raggiungo il balcone. Sposto la tenda. Lo osservo. Lui è lì, dietro il suo balcone. Mi ha vista. Mi aspettava. Resta in silenzio. Io resto in silenzio. Entrambi immobili. Ci osserviamo.
La sera ci sorprende lì, incorniciati da due patetiche pareti scrostate in un vicolo marcio.
Mai visto quadro più bello. Inspiro forte, tutta l’aria che posso, fino a sentirmi svenire.
Poi, più niente. Cala il buio.
E domani è un altro giorno. Un altro ancora.

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04
Dic
2010

metronotte

“che cosa vuoi che scriva? di che cosa vuoi che parli?”  toccavo dalla plastica trasparente le piccole palline bianche. Il piccolo pacchettino veniva rigirato nelle mie mani come una reliqua. Ogni pallina un desiderio, un sogno, una speranza, una preghiera…ma sono solo palline di plastica che amplificano il vuoto anche di un piccolo gesto. O mettono in discussione tutte le idee già discusse. Crollano e si costruiscono certezze. Ma sono solo piccole palline bianche di plastica, chiuse in una piccola bustina con una puntina.

Il tassametro intanto andava, mentre si pensava a riempire il silenzio. Il ricordo andava lontano, ad un altro taxi, ad una altra sbornia. Il tassista l’aveva capito. Che cosa vuoi che dica? Dove la porto? Vai tassista e portami a casa, per me il silenzio va bene. Cosa vuoi conoscere della mia solitudine.  Ma  il silenzio si riempie di domande, con voca rotta e rauca di risposte. L’alcool si combina con il dolore. Per lo meno il vuoto non sembra poi così vuoto.

Il tassametro intanto andava. Il tassista riempiva il silenzio e mi domandava cosa era successo. Belle parole . Come può essere la speranza o l’illusione.  Ma io non ci credevo più. Ci avevo creduto però. In qualche sera a letto guardando la luce dalla finestra, ci avevo creduto con tutta la calma del mondo. Quando non ti perdevi in letti  sempre più impossibili da rintracciare. Il tassista sembrava dispiaciuto e ci fu del silenzio, finalmente. Non riusciva a capirmi, lo sguardo potrei giurarlo, era quello di un padre. Le persone non cambiano, mi spiace.  Sono otto euro e cinquantaquattro centesimi. Mi diede il resto ed un rosario.  Torna a riempire il tuo vuoto. Io non ci credevo, ma in fondo non gli avevo mai chiesto nulla. Solo di portarmi a casa.

Arrivata all’uscio mi rigirai verso la strada. L’umido negli angoli del marciapede diventava ghiaccio. Forse domani nevica. Il taxi non c’era più.  L’alcool si combinava al dolore e allo stupore. Forse tutto questo non era mai successo. Forse era stata solo una visione. Il pacchettino di palline bianche infilate una dopo l’altra però era nelle mie mani.

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