scarlattina blu

capitata qui per caso. come in ogni posto e in ogni situazione. ma la scarlattina è una malattia un pò così... dicono che sia infantile.


05
Nov
2011

Scirocco

Rosa, rosae, rosarum, rosis, rosari di rose nelle mani.

Il silenzio dimenticato e la bellezza della facciata barocca nella piazzetta nascosta dalla piazza. Le pareti bianche, le pareti bianche. Pagine da scrivere. I miei passi da bambina nel cimitero monumentale senza le lapidi familiari. La terra brucia anche in inverno.

Inaspettato arriva alle soglie della notte, lo scirocco.

Ballo un valzer anche con lei e fra le rughe noto gli anni passati. Ma io non so come si fa. A ballare il valzer.

Rosa rosae rosarum rosis, avevo scordato lo scirocco.

Pizzica sul viso come le mani dolce e nodose sulle corde di una chitarra. Ti trascina con quel suo odore familiare verso le terre calde e primigenie. Mi trascina con calore e silenzio verso due occhi grandi e neri.

Si alza la polvere e copre tutto. Si insinua nei capelli. Nell’umore. Copre tutto. La pazienza, i ricordi e il sole. Odore di morte, odore di mare.

Rosa rosae rosarum rosis, litanie nel mio silenzio che ricordo come preghiere.

Sulla soglia le donne hanno uno sguardo severo.  Le loro trame sono lavori pazienti. Le loro mani come pietra negli uliveti.

Tra un istante arriva lo scirocco.  Rosae, rosarum, rosis,  rosari di rose nelle mani e sulle labbra.  L’avevo scordato.

Balliamo ancora una volta il valzer. Se ti va, possiamo anche tornare.

 

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01
Feb
2011

Green Grass

Mi portavi nella tua mano.

Ero piccola, così piccola, che nessuno poteva vedermi.

Quando ero così piccola,  non esistevano le profezie.  Non esisteva il caffè lungo. Non esistevano le pandemie o la paura di volare.

Mi tenevi stretta tra un dito ed un altro ed io guardavo da una fessura, le porte,  le case,  le strade della città. E il cielo,  a volte livido di paura,  a volte azzurro come il mare.

Quand’ero così piccola,  per tenermi al caldo ti coprivi le mani di bosco marrone. Non esisteva lo sciopero generale. Non esisteva l’infinito.

Nel mare mi facevi roteare e soffiavi leggermente il tuo ossigeno per farmi respirare, per paura che potessi annegare. In una grotta lontana un filo di luce mi inondava di calore. Aprivi la mano ed io mi lasciavo asciugare.

Mi portavi nella tua mano. Ero così piccola,  così piccola, non sentivo dolore e non esisteva l’apparenza del reale o la tribuna elettorale.

Mi stendevo sopra il tuo dito e lo abbracciavo sorridendo, creavo delle forme strane con il corpo, come una pietra preziosa. Ero piccola e nella mano mi stringevi, mi nascondevi, dal vento, dalla pioggia, da altre mani.

Quando ero così piccola, gli acari della polvere non esistevano. Neanche le febbri suine. Neanche le amicizie lontane o quelle che non esistevano più.

Quando ero così piccola, non esisteva l’addio, o che non mi sapessi leggere i pensieri, le porte d’estate non si chiudevano, e il mondo si reggeva e basta, non esisteva l’ Alabama e neanche i canali satellitari.

Quando ero piccola, così piccola, mi portavi nella mano.  E quando la notte chiudevo gli occhi sognavo di un mondo meraviglioso che viveva fuori.

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04
Dic
2010

metronotte

“che cosa vuoi che scriva? di che cosa vuoi che parli?”  toccavo dalla plastica trasparente le piccole palline bianche. Il piccolo pacchettino veniva rigirato nelle mie mani come una reliqua. Ogni pallina un desiderio, un sogno, una speranza, una preghiera…ma sono solo palline di plastica che amplificano il vuoto anche di un piccolo gesto. O mettono in discussione tutte le idee già discusse. Crollano e si costruiscono certezze. Ma sono solo piccole palline bianche di plastica, chiuse in una piccola bustina con una puntina.

Il tassametro intanto andava, mentre si pensava a riempire il silenzio. Il ricordo andava lontano, ad un altro taxi, ad una altra sbornia. Il tassista l’aveva capito. Che cosa vuoi che dica? Dove la porto? Vai tassista e portami a casa, per me il silenzio va bene. Cosa vuoi conoscere della mia solitudine.  Ma  il silenzio si riempie di domande, con voca rotta e rauca di risposte. L’alcool si combina con il dolore. Per lo meno il vuoto non sembra poi così vuoto.

Il tassametro intanto andava. Il tassista riempiva il silenzio e mi domandava cosa era successo. Belle parole . Come può essere la speranza o l’illusione.  Ma io non ci credevo più. Ci avevo creduto però. In qualche sera a letto guardando la luce dalla finestra, ci avevo creduto con tutta la calma del mondo. Quando non ti perdevi in letti  sempre più impossibili da rintracciare. Il tassista sembrava dispiaciuto e ci fu del silenzio, finalmente. Non riusciva a capirmi, lo sguardo potrei giurarlo, era quello di un padre. Le persone non cambiano, mi spiace.  Sono otto euro e cinquantaquattro centesimi. Mi diede il resto ed un rosario.  Torna a riempire il tuo vuoto. Io non ci credevo, ma in fondo non gli avevo mai chiesto nulla. Solo di portarmi a casa.

Arrivata all’uscio mi rigirai verso la strada. L’umido negli angoli del marciapede diventava ghiaccio. Forse domani nevica. Il taxi non c’era più.  L’alcool si combinava al dolore e allo stupore. Forse tutto questo non era mai successo. Forse era stata solo una visione. Il pacchettino di palline bianche infilate una dopo l’altra però era nelle mie mani.

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22
Nov
2010

“ma che ne sapete voi dell’amore…”

Non mi spiegavo cosa mi spingesse così lontano dal mondo.  Quando la guardavo,  la terra, mi sembrava piccola e brulicante di vita. Vita si,  ma densa e costellata di azioni inutili. Tutte quelle persone, vecchi, donne, bambini, giovani, sprecavano il loro tempo, lo lasciavano fluire e io con loro, per poi chiedersi dove fosse finito tutto quel tempo. Adesso la mia attività preferita, scrutare le onde, mi sembra di gran lunga più edificante. Il tempo si ferma quando sei in mare e l’acqua ti domina, ti scuote, ti solleva. In quest’acqua, a tratti cristallina, a tratti oscura, che si muove e si increspa o diviene un letto, quest’acqua la nasconde. Lei così grande, così bianca. Gioca con me, con la mia pazienza e l’impazienza, con la mia vita. Cosa mi spinge a cercarla. Lei è la mia vita.

Nuovi mondi affiorano il lei. Sono impalpabili come il fumo di una gustosa. Il tavolo  sporco di polvere bianca e sottile e cerchi concentrici rossi. Lei ci dorme sopra. Sogni meravigliosi. Poi suona la sveglia e lei deve uscire. Scosta con indolenza un tizio che dorme sul suo divano ma soprattutto sulla sua maglietta di Sid Vicious. Indossa calze pesanti, gialle, fluo. Stasera incontra l’amore. Quella di una notte, profondo, intenso ricco e fraterno amore frugale.

Agnes prega. Ricorda subito dopo, guardando la sua lapide immaginaria, che non crede. Nel silenzio e nelle urla dei detenuti accanto a lei spera che un altro giorno passi, ma effettivamente non riesce a tener conto dei giorni. Le mani, gli occhi, i piedi non hanno più forma. Il lavoro sta distruggendo il suo fisico. Il suo spirito è ancora forte. Questo i tedeschi non sono riusciti ancora del tutto a sconfiggerlo. Sa che gli alleati stanno per sbarcare nell’Italia del Sud e conoscendo le doti dei soldati italiani a breve saranno nel nord europa. Queste informazioni di solito costano un mese, due, di lavori forzati o nel peggio l’isolamento e la privazione dell’acqua. Agnes lo sa, ne è sicura. La guerra finirà presto. Adesso preferisce immaginare  il futuro guardando nei ricordi tutti i volti della redazione clandestina “Resistance”. Alcuni di questi volti pensa che non li rivedrà.

Emma sorride. Perchè la campagna si accende di luci e colori. Una passeggiata, lunga e con poche parole è ciò che questa giornata merita. Mentre  sulla via del ritorno pensa a cosa scrivere alla sorella lontana una volta a casa, sulla sua scrivania, stringe nella tasca dell’ampio vestito una lettera. E’ una sua lettera. Lasciata scivolare con uno sguardo silente ma trepidante di attesa. Le mani di lui sono grandi e nodose mentre invece la lettera sembra così fragile. La stringe in quella tasca da una settimana, ma non ha avuto ancora il coraggio di aprirla.

Mentre a pomeriggio correvo verso la presentazione di un libro, mi sono ricordata che oggi c’è lo sciopero della cultura. L’unica cosa che pensavo ascoltando lo scrittore che incantava e commuoveva con semplici storie, con parole lievi e pesanti di una verità sconvolgente, è che chi taglia la cultura, forse non si è mai chiesto quanto un libro a volte può cambiare una vita. Mille vite.  Mille libri che un post non può contenere. E che questo con l’economia non ha nulla a che fare.  Ma forse, mi viene da pensare, cosa ne sanno loro dell’amore.

Titolo tratto da “La cotogna di Istanbul”.

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18
Nov
2010

Dio esiste e vive in Svizzera*

Il colpo perfetto.  Tutti i più grandi ladri della storia hanno una teoria personale sul colpo perfetto. La teoria più bella e  sincera per Nicole è sempre stata quella del suo maestro. Per il maestro, detto “il fischio”, un colpo riesce pienamente quando semplicemente non ti arrestano. Per non farti arrestare devi riuscire al cento per cento in tutto quello che precisamente hai progettato nei minimi particolari. Ovviamente, alla base, ci deve essere un buon piano. Un colpo perfetto è, a detta del fischio, come una macchina che funziona. Dato il via, girata la chiave, schiacciato un bottone, ogni meccanismo al suo posto si muove all’unisono, creando un movimento che crea altro movimento, energia che si propaga e si trasforma. Un colpo perfetto è come l’amore. Non esiste. Se ti riesce è solo perchè hai avuto culo. Nicole ricorda bene il suo maestro. In un momento come questo, invece di liberare la mente e agire, Nicole si mette a pensare al fischio e all’ultima volta che hanno parlato. Attraverso una grata di vetro e due occhi rossi e stanchi. Ogni ruga del fischio conteneva un segreto inconfessabile.  ” Tesoro bello, tu devi lasciare questo lavoro. Non è per te. Sei venuta qui per salutarmi e per sapere cosa ho sbagliato, cosa è successo, o magari il segreto del colpo perfetto. Ma come faccio a dirtelo. Io so solo quello che un colpo perfetto non è.  Puoi scegliere le persone giuste, fidatissime, anche tuo fratello se vuoi. Puoi costruire un architettura infallibile e che solo tu conosci. Ma solo un piccolo, insignificante, contrattempo può generare la fine e la disfatta più completa. Quello che ti dico è che solo di una cosa sono sicuro. Quando da piccolo ho passato il confine dall’Italia alla Svizzera, nascosto sul seno di mia madre che fuggiva dai fascisti, ho guardato per un attimo il cielo. E io ne sono sicuro, Dio esiste l’ho visto e vive a Ginevra.”

Un colpo perfetto. Nicole, chiamata anche Eva, Corinne, Andrea, Mya, a seconda del colpo, si trova sul confine a due passi. Ha la valigetta. Il colpo è riuscito, in pieno. Peccato solo per un piccolo e insignificante particolare. Nicole ha sbagliato strada. I suoi compagni adesso la aspettano in quel punto preciso, studiato da giorni, dove una siepe di more rosse segna un confine immaginario.  Accanto una stradina che porta ad un casolare. In quel casolare vi è una macchina con cassa da morto già pronta per il trasloco del materiale. Tutto perfetto, tutto preciso, una macchina. Peccato solo che Nicole ha sbagliato strada e ora non vede nessun cespuglio di more. Per di più ha anche forato. Ferma al bordo di una strada deserta di montagna Nicole inizia a preoccuparsi che il colpo stia saltando. Una sfortuna sfacciata. Una macchina si avvicina. Nicole sente il suo cuore pulsare velocemente e adesso deve pensare, deve pensare, deve agire. Ma un groppo allo stomaco blocca qualsiasi cosa. E’ una macchina della polizia. La macchina si ferma dietro di lei,  i due agenti scendono lentamente e le vanno incontro. Nicole spera di trovarsi in un incubo, le divise che gli agenti indossano la mettono in agitazione, avverte un prurito immaginario.  Ma si pizzica e non si sveglia.  I due agenti le chiedono se ha bisogno di aiuto. Nicole sfodera un agiatezza e una sicurezza che spera nasconda la sua ansia. Ma le mani tremano e la voce è fioca, intermittente.  I due agenti sembrano insospettirsi e le chiedono da dove viene, dove sta andando,  soprattutto alle sei di mattina.  Nicole abbozza qualche scusa con perfetto accento italo-francese mentre il cellulare di uno dei due agenti squilla in macchina.  Nicole percepisce qualcosa di fortemente negativo,  si alza un vento gelido e delle nuvole scure iniziano a coprire il cielo. Il confine è lì a due passi. Uno degli agenti si dirige verso la macchina e risponde al telefono, l’altro più giovane, le sorride malizioso. Nicole con lentezza si avvicina alla portiera posteriore e la apre prendendo la borsa e la valigetta, cercando di intrattenere il giovane e ingenuo agente che non sembra ascoltare la telefonata all’interno della macchina molto più interessante.  ” Ho capito, la fermo subito e la porto in questura.”  Nicole ha la valigetta in mano e pensa solo ad una cosa.  Al colpo perfetto.  Alla sfortuna. Al piccolo particolare che le è sfuggito per la riuscita del piano.  Il nome della strada sbagliata, ora ricorda. Mentre Rico, dispiegando le cartine sul tavolo, le spiegava la strada giusta nel bivio tra via del terrapieno e via Vittorio Emanuele,  lei pensò che Vittorio Emanuele era il nome di un ex che l’aveva fregata di brutto.

Così Nicole corre, con quel pensiero, un errore imperdonabile. Il confine è lì a due passi e Nicole ora corre e non pensa più a niente, neanche alle grida dell’agente che la insegue.  L’altro, quello giovane è a terra, colpito in pieno dalla valigetta in metallo.  Il confine è lì.  Non pensa e non sente.  Corre solamente. Gli spari la sfiorano.  Ciò che vede a ridosso del confine è una nuvola in cielo. Ha le sembianze di un vecchio signore che si appoggia ad un bambino dal volto sorridente.  Si, pensa, Dio esiste e vive in Svizzera.

*Il titolo è veramente apparso su un articolo del City.

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06
Nov
2010

“Com’è felice il destino dell’incolpevole vestale!”

“Da dove partiamo? Cancelliamo Roma?”
Dentro il lungo camice bianco c’era un uomo. Si direbbe sulla quarantina portati male, alto, calvo,  con occhiali spessi, di una magrezza spettrale. La barba bianca e ispida era presa di mira da mani rugose, si direbbe di un agricoltore,  un tic nervoso e fastidioso. Un piccolo fazzoletto bianco ricamato veniva portato ripetutamente ai lati della bocca.

July non sapeva bene quello che stava succedendo. Il lettino era freddo, scomodo e il tremolio ansiogeno rendeva tutto inappropriato. Il dottor Michel Mierzwiak le reggeva il braccio,  guardandola senza espressione mentre cercava di tranquillizzarla con una dose di valium direttamente in vena.

“ Lei intende dire, iniziamo a cancellare proprio dal principio…”

“ Possiamo partire dalla fine e andare a ritroso,  ma la avverto è più doloroso e pericoloso.”

Ci penso un attimo. Intanto le immagini delle città, dei volti, iniziavano a svanire e a confondersi in vortici d’aria che partivano da nuvole scure e diventavano onde trasparenti che coprivano la luce. Doveva cancellare tutto. Necessario.

July era all’angolo delle due torri. Al semaforo, dalla parte dell’edicola. Aspettava il momento in cui ognuno di solito cerca una traiettoria diversa per evitare uno scontro frontale. Persone varie, bionde alte e nordiche, ragazzi con il sudore da palestra come soprabito, studenti con occhiali e cappottino a coste, straniere con la jota, mamme con ricrescita visibile e vecchina con deambulatore. Un gruppo di ragazzi distribuiva informazioni sull’ultima frontiera della neuro-scienza. Era troppo caldo per essere un weekend di dicembre.

Mentre le serviva una birra, lui notò la scollatura della cameriera. Le passò un fazzoletto con qualcosa di scritto e lei sorrise. Si, lei sorrise, ma non di un sorriso normale, o di circostanza, neanche uno di quelli da sfoderare amabilmente dopo una battuta infelice. Era un sorriso malizioso. Da intendere come, ci vediamo dopo se vuoi, abito non lontano da qui. Poi, un sorriso normale, non significa niente.

Lei lo vide dalla vetrata. Pensò che i primi mesi invernali non sono mai positivi per un segno come il suo. Forse in quel preciso momento iniziò a dubitare di lui.

Lui telefonava a lei dicendogli che poteva andare a trovarlo se voleva. “Però ti prego, non usciamo fa troppo freddo fuori.” Così tutti i lunedì e i giovedì.

Per questo motivo July, il martedì e il venerdì piangeva e si lasciava toccare dalle mani scure di nonmiricordoilnomemacredosiastraniero. Il motel puzzava terribilmente di stanza ad ore, ma lei vibrava di piacere tra quelle lenzuola sfatte e non lavate.

Lui era di spalle.
Non c’è molto da fare quando si aspetta. Si può passeggiare, su e giù, avanti e indietro. Intrattenere passanti o discorsi filosofici con i piccioni. Quelli di Piazza San Francesco. Si possono creare dei mondi dove arrampicarsi sul cielo e iniziare a correre sulla nebbia, dove le case sono appese ad un filo sottile trasparente. Si possono creare castelli di sabbia e di rabbia. Si possono srotolare e arrotolare km di strade di lana.

C’è chi ha iniziato a fumare e ha anche smesso. Tutto nell’attimo infinito dell’attesa.

Lui sembrava aspettarla. Sorrideva ma non parlava.
”Il silenzio e’ ciò che più ci unisce. Nella distanza, anche se tu urlassi crederei nella distorsione delle onde, piuttosto. Quando fai sentire la tua assenza credo che la stanza sia comunque piena di persone.  E tutte parlano una lingua che non conosco.”

July era appoggiata al muro con un bicchiere in mano, la musica alta rimbombava di bassi nel petto. Non sentiva più le sue amiche parlare e la fila al bancone era di nuovo troppo affollata. La voce di Nada si appoggiava bene alla coppia di bei ragazzi di fronte a lei. Si incrociarono. “Vieni a salutarmi e hai un mantello e un cilindro”.

Vorrei portarti a casa con me. Dopo la musica, dopo il bicchiere. Sarebbe splendido.

July era appoggiata al muro con un bicchiere in mano, la musica alta rimbombava di bassi nel petto. Non sentiva più le sue amiche parlare e la fila al bancone era di nuovo troppo affollata. La voce di Nada si appoggiava bene alla coppia di bei ragazzi di fronte a lei. Stasera sembra non esserci nessuno di interessante.

“Tutto bene?” le disse il dottore.

“si certo, ma lei chi è?”

July non sapeva dove, ma soprattutto come, era finita in una stanza probabilmente di ospedale. Tra lo sconcerto e la confusione aveva però una gran leggerezza addosso e un motivetto allegro per la testa.

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26
Ott
2010

Fattore Delta

Lino aveva preso il treno in ritardo. Aveva corso come un pazzo e alla fine aveva preso il taxi. Non aveva molti soldi con sé, quindi convinse il tassista napoletano ad uno sconto di cinque euro cantando “femmena”.  Aveva preso quel treno proprio all’ultimo minuto mentre il controllore agitava la fiaccola. La nebbia come un velo gli lanciava un saluto. Il suo paese, nascosto dalla foschia, si faceva sempre più piccolo ai suoi occhi, sembrava un piccolo abbraccio. In quel momento un inaspettato moto di stomaco lo sconvolse.

L’alba di Milano. Aria frizzante sulla pelle. La gente si muoveva con passo veloce. L’architettura possente lo rianimò e si fece forza. Prese le mappe stampate da googlemap dal fodero della sua chitarra. Si schiarì la gola. Prese il tram. Quello retrò, di legno. Telefonò ad un suo amico e si accorse di parlare troppo forte dallo sguardo dei presenti. Rilesse la lettera arrivata due giorni prima a casa. Oramai la conosceva a memoria.

“Gentile sig. Gargiulo, le comunichiamo che dopo la selezione avvenuta in data 23-09-10 lei ha riscontrato, come già sa, un esito negativo.  Ma data la mancanza di alcuni concorrenti per motivi familiari e improvvisi forfait, la produzione del programma ha ritenuto necessaria e auspicabile la sua partecipazione al programma “Fattore Delta”.  La sua entrata non avrà bisogno di un ulteriore selezione, in quanto la scelta è stata unanime da parte degli autori.”

Poi fissando la strada, ripetè ad alta voce  la data e il luogo dove presentarsi. “Allora deve scendere alla prossima fermata” disse una vecchina che sedeva accanto. Il palazzo era alto e ombroso. Le vetrate riflettevano un cielo plumbeo e sconosciuto. Le nuvole si contorcevano in spirali e strane figure sui vetri scuri. Una segretaria gli si piazzò di fronte guardandolo con disprezzo. Lino tolse la sciarpa e le mostrò la lettera. La segretaria sorrise, e lui giurò di aver visto un sorriso malizioso.

Per Lino si aprirono le porte del paradiso. Lo studio televisivo dove la trasmissione veniva girata era enorme e luccicante. Tutti erano gentili con lui. Venne affidato ad un gruppo di musicisti professionisti, e iniziò a fare le prove in delle piccole e attrezzate sale studio, tutte per lui. Doveva prepararsi alla prima esibizione davanti alle telecamere, in diretta. Chissà, pensava, cosa diranno tutti gli amici, la  famiglia, il  paese! Li immaginava davanti agli schermi. Come saranno fieri di me.

Lino in quei giorni di studio, di prove sul palco e convivenza con gli altri concorrenti, legò molto con Sandra, una concorrente. Il loro amore sbocciò pian piano, sotto gli occhi di tutta la nazione. Se la avesse incontrata per caso non l’avrebbe mai considerata, non avevano niente in comune, lui un indierocker convinto lei ascoltava pop italiano. La sua ex, una cantante di hard core, gli disse  “Se lasci il tuo gruppo per andare a umiliarti e a venderti a fattore delta, non vali niente” e si lasciarono. Ma il legame con Sandra si faceva molto forte.

Mancava un giorno all’esibizione. Era elettrico. Sandra invece era molto agitata e sconfortata. Da alcuni giorni non stava molto bene. Si svegliava con continui mal di testa e sentiva un aria strana. Aveva smesso di mangiare. Era diventata paranoica. Non dormiva e indossava sempre gli occhiali neri anche di giorno, parlava del senso della vita e del futuro, faceva discorsi strani, essere qui un giorno e poi, chissà. Poco prima della sua esibizione, Lino le si avvicinò per confortarla. Lei lo guardò con aria assente “Lo show business ti mangia vivo, Lino scappa appena puoi. Ti prego…” e poi salì sul palco. Lino un pò amareggiato, pensò che fosse un modo per dirgli che era meglio chiudere la loro storia, da qualche giorno infatti, l’assistente della sala prova le stava sempre addosso, la cercava ovunque.

Si ritirò mestamente in camerino. Qualcuno bussò alla sua porta. Era Elsa, l’aiuto-aiuto-aiuto alla regia. “cosa ci fai qui? Sandra ha finito. Credo che sarà eliminata, non vuoi andare da lei?”

Lino non disse nulla. “Ti vedo giù. Questo non va bene. Forse ho qualcosa che fa per te.” Elsa, si avvicinò a lui e iniziò ad accarezzarlo e a ripetere di stare tranquillo con voce più calda, le sue dita erano morbide come il velluto. Poi iniziò a spogliarsi. Lino era sorpreso, ma i suoi occhi così intensi avevano qualcosa di ipnotico, velati da una patina trasparente sembravano risplendere e avere vita propria. Elsa non sembrava più la stessa. Sotto i soliti abiti larghi e sciatti si nascondevano curve impensabili. Lino ammaliato,  si lasciò andare e si stesero sul divanetto. Lei lo stringeva, lo graffiava e iniziò a morderlo ovunque. Lino non aveva mai provato delle sensazioni così. Le unghie e i denti che lo trattenevano sembravano allungarsi e penetrare nella carne. Lino sentiva bruciare la sua pelle e un dolore atroce lo paralizzò. Elsa iniziò a succhiare il sangue dal collo e questo colava ovunque, sui vestiti, sul divano.  Avida, strappava la carne del torace con i denti affilati.  Lino era in un turbine di incoscienza, spaventato, non si muoveva, non credeva a ciò che sentiva e vedeva, senza  forze si trasformò in vittima e non riuscì a reagire. Perse i sensi.

Si risvegliò sul divanetto, era ancora vestito.  Si sentiva stanco. Un gran mal di testa lo fece barcollare. Iniziò ad avere  ricordi confusi e oscuri della notte prima. Ricordò alcune scene della notte sul divanetto. Elsa.  Iniziò a guardarsi in giro e a toccare il suo torace, il suo collo. Il divano, il pavimento, i suoi vestiti erano intatti.  Nessun segno sul corpo. Poi pensò a Sandra. Corse in corridoio disgustato. Iniziò a cercarla, disperato. La gente che incontrava nel corridoio lo guardava strano. La loro voce era distorta e ironica. “Lino dove vai? hai un aria cadaverica oggi…” “credo che tu abbia bisogno di un paio di occhiali.” “Questo lavoro ti distrugge, non è vero?” Trovò Elsa. Sistemava con noncuranza la telecamera nello studio. I riflettori erano spenti e sono una luce rossa d’emergenza si diffondeva lieve nella sala. La sala delle riprese con le luci spente e vuota, non sembrava poi così luccicante. Aveva qualcosa di inquietante. I posti vuoti erano occupati da ombre, queste ombre si muovevano.

“Ciao Lino” disse lei sorridendo.

“Dov’è Sandra? l’ho cercata ovunque…”

“Sandra chi, scusa…” Lino iniziò ad agitarsi.

“Lino stai tranquillo. Ma cosa è successo? hai avuto un brutto sogno?”

Lino iniziò a strattonarla “Dimmi dov’è Sandra” urlò.

Elsa lo strattonò via con forzae lo fece cadere a terra, poi la sua figura sembrò mutare. Sembrava più alta e possente. I suoi occhi brillavano dietro i manifesti di fattore delta nel buio.  “Lino, Lino…come sei irruente…lasciati anche tu risucchiare dallo show business, non vedi l’ora, io lo so. Un lavoro del genere, lo sai, richiede fatica, sudore e….sangue”.

Un ombra scese su Lino e in quel momento cadde giù il sipario sotto il rumore di alcuni applausi.

Intanto un altra alba. Un altro treno.

Il palazzo  dai vetri scuri rifletteva un cielo plumbeo,  capeggiava in alto l’insegna FATTORE DELTA, e la gente si accalcava all’entrata in attesa del grande momento.

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23
Ott
2010

“Niente non fa quasi niente”

Incerto, ti spogli di fronte a me.
E la tua voce, profonda, crea vertigini secondarie.
Voglio solo sapere l’origine dei tuoi nei.
Non c’è niente di male a lasciarsi prostituire…almeno un pò…non dico tanto.
Cosa dici?
Mi senti amorale?
Diversa vuoi dire. Non è neanche un’offesa.
Hai una luna che non vedi, che non senti e non vuoi capire.
Non si agisce più per abitudine,
anche la rotazione terrestre crea squilibri necessari,
ciò che rimane di un lungo vagare, a volte, non è che una resa.
Così tu non dici e non cerchi.

Ma dovresti chiedere di più, insultami e basta.
E rivelami i tuoi più profondi.
Per quanto mi riguarda posso anche vestirmi da cameriera.
Cosa dici? Sto giocando?
Non voglio più regali in plexiglass in cui mi costringevi anni fa e neanche cieli virginali o uterini.
Neanche le tue psicomanie che si confondevano con le mie fobie. Basta anche con le code nei cinema nell’attesa di incontrare McLuhan.
Nel silenzio delle crisi si creava una lontananza visibile solo agli altri.
Ma ora che tu,  tu,  si, dico a te, come ti chiami  pure?
Ecco, tu.
Ora che sei qui potresti anche farti conoscere un pò.
Però non parlare a lungo.  Dammi solo l’essenziale e lasciati comprare un pò.
Dici, corromperti.
In questo mondo di transazioni finanziarie non resta che stabilire solo i termini giusti di uno scambio equo e soddifacente per le parti.
Di questi giorni, di queste religioni, di questi governi, di questi effetti collaterali, perchè non facciamo soltanto una piacevole e tranquilla passeggiata sui viali.
Ma tu dici soltanto di lasciarti un altro giorno per pensare.
Sembrava tutto così perfetto. Quando ci siamo incontrati per la prima volta.
Avevamo soltanto il  nome e un ordine tutto nostro delle cose.

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19
Ott
2010

La virgola ha delle ragioni che il punto non conosce.

Ho provato a parlarti, ma tu usi la punteggiatura come una persona normale, per questo, non ci siamo mai capiti.
Io dimenticavo le virgole.
Un giorno mi hai fatto vedere un libro, “Cosa ci vedi?” mi hai detto.
Ti ho risposto solo di aver notato degli errori di battitura tra un capoverso ed un altro.
Tu, con lo sguardo superiore ma infantile, mi hai risposto “ma come? non lo noti? non ci sono le virgole, come piace a te”.

Poi sei andato via. Punto.

Da quel giorno, ho iniziato a odiare tutte le cose che riguardavano te: il calcio, lo sport, il lunedì, le vacanze, il telefono, la mia stanza, i tuoi regali inutili, il calendario, il letto,
l’amore, la fedeltà, i preservativi no, quelli scadono nel 2014, l’allergia ai funghi, e quel libro senza virgole.
Da quel giorno io le virgole, semplicemente le adoro. Ho inizato a riempire liste di cose da fare, quaderni di virgole e cose, virgole e nomi. Liste di cose che ho perso.
Le ho messe ovunque. Al lavoro, a casa, nel risotto, nelle canzoni, nel letto, nel latte, nel lettore mp3, nel bus, nel tuc, nel pus, nel tum pa-pà.
Le ho così idealizzate che sono diventate un ossessione.
Ho iniziato a parlare con loro e alla fine gli ho dato una forma. Un viso, un naso, due occhi e un corpo…e che corpo.
Dopo averla creata e averci parlato, io quella virgola, ne ero così fortemente attratta che me la sono fatta.
Poi siamo andate a prendere un caffè al bar sotto casa. Ha offerto lei.
Gli ho detto che mi spiaceva, che è stato un errore.
In generale, sottovalutavo le virgole. E’stata male un millessimo di secondo, poi come se niente fosse mi ha salutata.

Poi sei andato via. Punto. Anzi, virgola.

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