29
Gen
2011

questo momento

questo momento è il più fatidico della storia italiana. si può dire “più fatidico”? questa è una domanda posta soltanto per non farvi notare che se non specifico in alcuna maniera quale è «questo momento» nessuno tra voi potrebbe capire il resto di questo articolo, ma è anche vero che non voglio parlare soltanto a voi. Voglio rivolgermi anche ai vostri figli, ai vostri nipoti, ma non soltanto a quelli che avete già, ma a tutti i vostri discendenti, per i quali «questo momento» potrebbe essere anche noioso e non il più fatidico (se si può dire). Ma voi lo sapete meglio di me come è «questo momento» per voi e siccome lo avrete raccontato in qualche occasione a qualsivoglia dei vostri discendenti (ancora non lo avete fatto, ma lo farete) allora anche quelli che non stanno leggendo «adesso» sono a conoscenza di come è «questo momento» per voi. D’altra parte rivolgersi a dei futuri lettori è anche doveroso per chi si ritiene degno di scrivere qualcosa e potrebbe darsi il caso che il «questo momento» dei vostri discendenti a partire dall’«adesso» in cui scrivo abbia visto anche altri momenti molto più fatidici di quello che designo come quello di «questo momento». Ma come fare a non sottolineare, proprio a favore di questi scettici discendenti che non può essere affatto così come loro credono: «adesso» in «questo momento» è davvero il momento più fatidico della storia italiana, anche se non posso immaginare quello che potrebbe succedere persino tra qualche momento, anche se la mia immaginazione fosse la più formidabile e la più fervida, qualsiasi cosa capiti, ve lo assicuro, «questo momento» è davvero insuperabile. E in fondo anche voi che leggete «adesso» avrete sicuramente insistito con i vostri discendenti sui fatti davvero incontrovertibilmente più fatidici che in «questo momento» stiamo vivendo. E se non lo avete fatto o non ci aveste pensato vi esorto fin da ora a credere di doverlo fare, a ricordarvi di farlo. Se voi discendenti, tuttavia, dovreste pensare, proprio nel vostro  «adesso» di stare vivendo voi nel momento più fatidico della storia italiana, avrete capito anche il perché della vostra credenza e avrete capito anche perché lo credete, perché coloro i quali sono la causa diretta della vostra comparsa su questa terra non vi hanno veramente raccontato, come io avevo esortato proprio «adesso» a farlo, quello che «questo momento» significa per la storia italiana. E se non ve lo hanno raccontato è perché non lo hanno capito «adesso» «questo momento», dunque non l’hanno capito nemmeno quando era oramai un evento del  passato, nemmeno quando vi hanno guardato negli occhi e doveva balenare loro il pensiero che avrebbero dovuto rendervene partecipi, segnare la vostra mente con un «questo momento» come questo. Se non l’hanno fatto i vostri ascendenti, cari discendenti, ai quali sto «adesso» parlando, capirete bene – da grande bastardo quale sono – che non vale la pena nemmeno a me di raccontarvelo, perché credo che se non ve ne hanno parlato significa che non hanno capito, probabilmente che non mi hanno nemmeno letto, dovrete fidarvi proprio di un pagliaccio come me che «questo momento» è il momento più fatidico della storia italiana e tutto il resto, quello che verrà dopo e che per voi sarà un altro «adesso» sarà tutta un’altra storia e non un inarrivabile «questo momento» come questo.

«adesso»
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25
Gen
2011

Niente

“Non so”, disse Alice guardando l’orizzonte spigoloso della città. Espirò piano, con i suoi occhi di ghiaccio stretti tra le palpebre, come se cercasse di mettere a fuoco qualcosa di lontanissimo.
Il fumo della sigaretta si fondeva al caldo del suo respiro nell’aria dell’inverno.
Il freddo sulla pelle era coperto dalla stretta allo stomaco che le dava quella vista, dal terrazzo in cima al sesto piano del suo palazzo quadrato color palazzo.
Il suo vicino di casa, un ragazzo sulla trentina dallo sguardo profondo e i capelli ricci, di cui non conosceva il nome, l’aveva presa per mano e l’aveva accompagnata per cinque piani di scale senza dire una parola, finché non le aveva aperto con una spinta la porta a vetri del terrazzo, coperta da due lenzuola color ciclamino stese ad asciugare.

Alice quel pomeriggio era triste, si sentiva sola. Cercava di comunicare con gli altri, ma finiva per ripetere sempre le stesse quattro paranoie, snervarsi e aggredire loro; sentendosi poi in colpa, e cercando di scusarsi nell’unico modo che conosceva: nessuno, uscendo dalla discussione con frasi del tipo “Se tu non facessi la vittima io non ti aggredirei”; e poi si chiudeva in bagno e si tagliava sulle caviglie, con le forbici per i capelli, disinfettate. E si sentiva ancora più sola.

Quel pomeriggio Alice aveva le guance arrossate dalla rabbia che le grattava il cuore; e dallo spioncino del portone aveva visto il vicino, che le era sembrato tanto carino il giorno prima, quando per pessime circostanze si era trovata a conversare sul suo divano con quella cara signora malata di cancro che era sua madre, riguardo al gatto che gli era appena morto, e che Alice non aveva potuto salvare.
Alice amava guardare dallo spioncino, era un po’ come essere dio, si diceva; il dio di un pianerottolo, va bene, ma da qualche parte si dovrà pure cominciare; si diceva.
Allora appena il vicino aveva tirato fuori le chiavi di casa dalla tasca del cappotto, lei aveva aperto la porta d’un colpo e aveva detto un “Ciao.” che suonava “Fermati.”. Lui sentì ciao e capì fermati. E si fermò. Alice sorrise appena, e lui vide le sue lacrime. Alice non disse nulla, e lui sentì il suo silenzio. Lui sorrise, e Alice capì seguimi.
Alice gli tese la mano, e lo seguì.

Forse il bello di quel terrazzo non era ciò che si vedeva dal terrazzo, ma ciò che non si vedeva. Quanto erano piccole le cose, quanto tutto era così poco importante; o forse quanto il poco fosse importante.
Alice adorava quel terrazzo. La prima volta che era salita in quelle soffitte da container, si era meravigliata di un posto così grande, e… aperto; alla fine di un cunicolo così anonimo, e segregato. Dopo due trafile di porte di alluminio serrate a doppia mandata, c’era una porta di vetro socchiusa, e una città nascosta da due lenzuola bagnate, color ciclamino.
Lui le aveva offerto una sigaretta solo avvicinandole il pacchetto, e lasciandole la mano. Lei aveva acceso la sigaretta ed era andata verso il parapetto. Dove il poco è ancora più importante.
Lui trasmetteva calma, e odorava di buono, di caldo. Alice poteva vedere il suo sorriso.
Ma non lo guardava; guardava quella città, quella città falsa amica, che pare che ti accolga e invece ti ingoia, che pare ti consigli e invece ti annienta. Le sembrava l’oceano più freddo e grigio del mondo.

“Non so”, disse Alice guardando l’orizzonte spigoloso della città.
Lui rimaneva indietro, fumava piano, e guardava avanti, Alice e oltre Alice, la città e oltre la città, il cielo, e oltre il cielo.
Alice continuò. “Una volta un mio…” . Silenzio. “Ho conosciuto…” . Silenzio.
“Evald. Si chiamava Evald. Semplicemente, a un certo punto c’era. E mi ha trovata.”
Lui abbozzò un sorriso quasi dispiaciuto, come quello che si farebbe guardando la fine del mondo dal terrazzo di un palazzo quadrato color palazzo.
“Una volta mi ha detto: “Immagina di essere sul fondo del mare. Non devi trattenere il respiro, non ci sono pesci, non c’è niente. Cosa senti? Dimmi una sola parola.”. Lui mi conosceva, sai. Mi vedeva dentro, limpido e chiaro, senza nemmeno avermi mai vista fuori. Io no. Io avevo troppa fretta di dimostrare di sapere, per fermarmi ad imparare.”.
“Cosa gli hai detto?”, soffiò in un bisbiglio di fumo.
“Cazzate. Un mare di parole sbagliate.”.
Lui rise come si ride per qualcosa che ti aspetti, qualcosa di una banalità quasi tenera.
Alice sollevò un angolo della bocca in una specie di scanzonatura. Senza mai voltarsi. Senza mai muoversi. Quasi senza far battere il cuore. Era quasi l’aria, e la città. Era quasi parte del davanti, e del piccolo.
“Cosa senti?”, gli domandò, con voce quasi preoccupata.
“Niente.”, scandì lui piano.
“E come ti senti?”, gli chiese con calma, voltandosi verso di lui, col tono di chi sa già la risposta.
“Niente.”, disse ancora più piano, gli occhi socchiusi sul vuoto.
“E com’è?”
“E’… troppo”.
Alice sorrise di un sorriso dolce.
“Io gli ho detto: “L’immenso”. E lui mi ha detto: “No, ma quasi.”.”
Anche lui sorrise.  Adesso avevano lo stesso sorriso.  Non c’era più bisogno di dire o non dire.
Erano sul fondo del mare.

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23
Gen
2011

A ritmo alternato

Biller è un paesino del nord-ovest dove l’inverno fa freddo e l’estate pure ma dove il Sole non manca mai.
Sta aggrappato al monte Esio e pare, ad uno che viene da fuori, sia lì lì per rovinare a valle a seguito del fiume Lao.
E invece no. Saran più di cent’anni ormai che se ne sta lì aggrappato al suo unico appiglio senza batter ciglio. Umile e composto come sempre.

A Biller viveva un vecchio. La gente del posto lo chiamava Jack Pancetta. ‘Sto Vecchio c’aveva sei figli: Olivander il fattore, Bri il boscaiolo, Bernard il droghiere, Gino il fruttivendolo e gli altri due non li ricordo.
Li aveva avuti da tre donne diverse, donne bellissime secondo quanto si racconta ma che sono tutte morte giovani per il carattere di lui, scontroso e taciturno.

Si dice.

Jack Pancetta faceva il falegname come Giuseppe, quello della Bibbia, ma a differenza di quest’ultimo non era mai riuscito a farne una dritta. Egli, infatti, aveva il dono o la maledizione di non arrivare mai a inquadrare in una figura geometrica regolare le sue creazioni; motivo per cui porte e finestre di casa sua sembravano bozze di progetti irrealizzabili, buttati giù da un giovanotto svogliato e sognatore. In un momento di noia.
Ma lui no. Lui era costanza e impegno, lacrime e sudore… lui era l’accanimento nel cercare la regolarità che si risolveva sempre in un cadere continuo nella linea lieve, al di fuori delle regole, distante dai canoni. Così ogni giorno della sua vita non faceva altro che aggiungere prove, prove che entravano a far parte di questo singolare quadro che era la sua casa.
E la sua vita.

Lui era un vecchio di quelli che avevano un autentico e sincero attaccamento alla proprio casa, alla propria terra, ai propri cari. Era uno di quei vecchi che non riesci a portar via dalle proprie abitudini. La gente, quando ne parla, ricorda di come storpiava il proverbio “lontano dagli occhi lontano dal cuore” in “lontano da casa lontano dal cuore”. E infatti quando lo accompagnarono all’ospedale giù a valle, per fargli vedere l’ultima delle mogli sue, ormai morente, si chiuse in un silenzio triste che mai aveva avuto e da cui mai si liberò.

Ma non smise mai di tagliare, livellare, curare le sue creazioni, la sua casa e le sue poche abitudini. Continuava ostinato a dare forma alle sue idee, a incastrarle nel legno che si trasformava in opere amorfe lasciate ai bordi della strada.
Con gli anni quel dono che egli aveva tanto odiato era diventato più marcato, più frenetico. Jack Pancetta si era accorto che gli angoli nella sua testa non c’erano più. Cominciò a toglierli da tutto quello che era fatto di legno prima nella sua casa, poi nel suo paese.
Quel dono diventò la sua follia. La gente non sapeva come fermarlo, non riusciva a dissuaderlo.
Le staccionate, i segnali, le panchine, perfino i tetti. Tutti, tutti gli angoli dovevano essere eliminati, questo Jack Pancetta lo sapeva bene. E sapeva anche che gli restava poco tempo. Doveva essere più veloce, più bravo, più deciso. Doveva finire il suo grande quadro prima di andarsene via.

Successe ad agosto, all’alba di un giorno ben preciso. Egli si svegliò come al solito. Prese gli attrezzi e scese la strada che lo separava dalla piazza. Si fermò. Guardò in alto e vide la luna che ancora non era tramontata. Poi due giovani si diressero verso di lui. Erano quei due suoi figli di cui neanche lui ricordava il nome. Gli sussurrarono qualcosa nell’orecchio.

Chiuse gli occhi. E morì.

E anche quello non fu di certo un angolo, ma solo un cerchio che si chiuse.

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19
Gen
2011

Everyday is exactly the same

M’impressiono tutte le volte. Tutte le volte che ci passo, dico.

Dall’incrocio.

E io neanche l’ho visto com’è successo. Non ho visto l’ambulanza; nè il dottore che si è fermato nè il sangue. Non ho nemmeno visto lui a onor del vero. Non so chi era, com’era fatto.

Ma me lo immagino.
In un certo senso lo vedo.

Tutte le volte. Tutte le volte che ci passo. E sta sempre lì. E mi guarda. Mi dice che non l’ha scelto mica lui di finire a quel modo: “manifestazione improbabile del posto sbagliato nel momento sbagliato.” Ma io non ci credo al posto sbagliato. Credo solo al momento. E’ sempre una questione di tempistica dopo tutto.

Il tempo è padrone dello spazio. Riesce a estenderlo, a tirarlo, a strapparlo.
E quella volta ha strappato lui.

Lui mi dice che è brutto… il fatto che la maggiorparte  di quelli che passano da lì non sanno nemmeno perché la barriera non sta al suo posto. Allora gli dico che è normale, che a certe cose uno non ci pensa mentre insegue la vita attraverso il tempo. Uno pensa a quello che deve fare, ai suoi amici, alla sua ragazza… uno pensa che bisogna andare avanti, perché se no il tempo si spreca e il tempo è sempre poco, troppo poco. Non è come lo spazio che è infinito… no. Di tempo non sai nemmeno quanto ne hai.

Allora mi risponde che ho ragione. Neanche lui ci pensava quella volta lì. Ma poi inizia a raccontarmi dell’eco. Mi dice che è un tipo di proroga, di prolungamento. Una sorta di tempo in più che puoi avere. Solo che funziona solo in certi posti. E in quel posto lì non funzionava. Per questo dice che era il posto sbagliato.

Allora ho pensato che lo spazio non è uno schiavo stupido. Ogni tanto lo prende pure in giro il tempo. Per distendersi. Per distendere.

Questo è il mio pensiero per te.
Addio. Sconosciuto.

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16
Gen
2011

Amò, ci sei?

Ricordo come mi guardavi

quando ogni mio pensiero era il riflesso di ogni tua azione

come i tuoi occhi grandi

disegnati sui vetri a parete quando guardavamo il sole.

Ed ogni mia azione

come appesa a un filo

sottile e mal teso agli angoli delle nostre labbra

che continuamente strattonavi con ogni tua fredda espressione

scagliandomi contro un’armonica instabilità

che mi raggiungeva

e mi attraversava

lasciandone sospesa ogni risoluzione

come per affidarla al silenzioso essere noi

o all’imbarazzante immaginazione di terzi.

[…]

La mia persona
dominio del tuo disappunto
immagine di ogni tua emozione
decisa a non sorridere
per essere felice
ora eccola
nel passo sospeso oltre il ciglio della tua ombra.

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14
Gen
2011

la vie, ici, nous écrase

Aspettando il giorno più freddo dell’anno per poi cedere alla Primavera, l’Estate arriva dopo, preferisco l’Autunno, più fraterno che amico, meglio l’Autunno. Che  le foglie cadano, che il vento le soffi pur via, che importa, con generosa impazienza, non aspettano che quello, i motivi vengono poi, per quelli c’è sempre tempo, per quelli, il tempo, non basta mai. Preferisco l’Autunno, l’Inverno è così freddo, l’Estate troppo calda, con le sue ambizioni, e la sua grinta, quando tutto finisce la nostalgia regna sovrana,e si avvinghia, e ci costringe in una morsa stretta, serrata c’attanaglia, per seguirci ovunque, cornuta e coccolona, come le gran donne di una volta, dalle quali i mariti fuggono, con le quali i figli invecchiano, per poi riscoprirsi giovani in un’età dove le articolazioni si fanno fragili, e il cuore debole. Quanto è triste tornare giovani senza essere mai stati adulti, trapassando la vecchiaia per tornare all’amore, o alla morte.
Non è del tempo che temo la stretta, come potrei!? Puoi forse tu toccarlo il tempo!? Puoi forse fabbricarlo!? O compatirlo!? Puoi tu dominarlo!? No, il tempo non è mio affare, del tempo non ho mai percepito la presenza, sono i ricordi quelli che fuggo, e il loro accatastarsi, come legna, a costruire una struttura piramidale, per poi generare fuoco, e fumo, in un euforico falò che nulla ha di felice. Quelle che vedi non sono lacrime, quello che senti non è il mio cuore, ne il suo battito, troppo debole per spegnerne l’incendio. E allora brucio, e che dunque bruci. Lontani i passanti ne vedranno le fiamme, nel dubbio tra lo scottarsi e il passar oltre, leveranno gli occhi, per un momento, alla fiamma, ma sarà il fumo a prenderli, passeranno oltre, come tutti del resto, tranne noi. Perché legarsi ai ricordi è come perdersi in mare aperto, nella nebbia, su di una zattera, senza remi o con che importa!? Cosa cambia!? Puoi tu sapere dove andrai!? Puoi tu puntare all’obbiettivo!? no, non è una storia quella che mi appresto a narrare, ma una ricca concatenazione di eventi nei quali il caos regna sovrano. Non c’è un lui, una lei, o un noi, ma solo foglie che cadono senza troppa resistenza e vento che va a spazzarle via. Adesso, potrete sentirvi foglie o vento, cosa cambia!? Per chi la differenza!? Di chi la vittoria!? Siete solo un flusso caotico nella testa di un folle, forzate pure la vista, inquadrate pure la scena, immortalatela se più v’aggrada, ma non vi troverete, ne troverete l’io narrante, perché a nessuno appartiene, di nessuno fa parte, eppure abbraccia tutti, e lo fa con sfigurato e smisurato amore, tanto da morire, per trovare in voi l’inizio, ed in lui …
la fine.
Avrei potuto amarvi, fermarvi, pilotarvi in un vicolo cieco, parcheggiarvi in un passo carraio ed aspettare, che qualcuno vi portasse via, e facesse pulizia nella mia sconclusionata strada; sarà il tempo si dirà un giorno, sarà stato lui, ma mi lascio al caos, mi butto dentro, in un pensiero, e resto li, senza neanche più il dolore o la tristezza, forse melanconia, forse le sue braccia al collo,o i suoi baci in fronte, ma non fatevi trarre in inganno, non scambiatelo per amore, è solo compensazione, affinità dell’io, che quel peso non a tutti abbraccia, a qualcuno stringe, ad altri stritola, e quelle labbra così tenere ed inoffensive, di quanti ne hanno morso il collo, per affondarne i denti nella giugulare.
Esangue, estenuato, come la prima volta che scioccamente feci per gioco all’amore, eppur mi illudevo che di quel respiro ne percepissi l’animo, o l’essenza. Mai ferito, eppure già ero li pronto a sanguinare, e a fingermi leso, come tutti del resto, e forse più.
Si torna vecchi ogni giorno per poi riscoprirsi coglioni, ma continuo a dirmi,
<<Preferisco l’autunno>>, che l’Estate troppo da, e troppo chiede, meglio l’autunno, pacato e quieto, più fragile dell’Inverno, più dolce della frizzantina e vivace primavera. Nell’inamovibilità di un caos mite, che del quieto fa aggettivo, che dell’estate sparge le ceneri, quasi a celebrare il ricordo ormai tardivo di un sole che troppo a fatto per non essere paragonato ad un solitario e malpagato Dio. Non ci son più, eppur ricordo, ed in quegli attimi seppur mi vedo con personalissimo tratto,  ormai constato la mia distanza da quelle notti, e forse più che un sono mi stimola un ero, ma anche di quest’ultimo inganno sento la paura. Possiamo andare o fuggire, ma ricordate, ovunque siate,piaccia o meno, la vita è li a schiacciarci.

Ed è così che si finisce col terminare un racconto senz’averlo mai iniziato, che sia vita anche questa !? per la risposta non val la pena perdere il sonno. Dormite lieti ! il Domani v’attende con splendido giorno, il domani…
verrà anche quello, senz’altro verrà.

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10
Gen
2011

flash forward

E quando credevo di aver visto tutto e che la mia vita, sul tramontare di 50 faticosi anni, si fosse risolta in un sospiro; il male suonò alla mia porta, e mi chiese di adottarlo.
Non avevo mai visto degli occhi così grandi. Immaginai di guardare con i suoi occhi e il cielo mi sembrò più largo.
Non mi sono mai chiesto con cosa si faccia la mayonnaise o da dove vengano le cipolle; e nè lì mi chiesi niente. Ma sapevo già la risposta, e questo mi dava una certa amarezza, essendo stato così accorto, in tutta la mia esistenza, a evitare le domande.
Così lo lasciai entrare, che facesse ciò che voleva. Andai nello studio, presi tutti i soldi dalla cassaforte e la riempii di libri. Libri vecchi con la copertina scura e rovinata, rilegati in quella pesantezza caratteristica della cultura presuntuosa. Chiusi la cassaforte, mi feci coraggio e ingoiai la chiave. La sentii graffiare fin dove ancora sentivo. Poi sparì dentro di me. Buttai tutti i documenti che erano sulla scrivania e nell’archivio dentro il tritacarte. Poi tornai nella sala e gli dissi: “Eccomi, possiamo andare.”. Lui era acquattato vicino all’acquario e guardava i pesci con sguardo felino. “Ci penserà la domestica, ha le chiavi. Lascerò un biglietto. “. Stavo in piedi in un’attesa vuota e silenziosa, in tutta la mia immobile stazza imponente. A lui sembrava non importare molto della faccenda, e neanche a me. Indugiò un pò, come se volesse prendere qualcosa; poi scosse la testa, recuperò la sua grossa macchina fotografica dal divano e disse: “Sì, possiamo andare.”. Fece dei lunghissimi passi silenziosi verso il portone e concluse: “Sì, andremo da Carmen.”.
Lo seguii.
Dopo venti minuti di passi muti in strade di pietra, raggiungemmo una porta rossa di legno vecchio e intaccato. Accanto, di spalle a un vicolo in cui scendeva il sole, una donna stagliava la sua figura in controluce, con le mani dietro la schiena, e la lunga gonna al vento.

Carmen mi invitò nella sua miseria.
Nella casa non c’era quasi nulla, oltre a poche carcasse di mobili antichi e un odore pesante di umido, chiuso e pane raffermo. Lui mi guardò e io, d’istinto, mi misi a sedere. Carmen occupò l’altra sedia, di fronte, dietro il tavolo sbilenco. Lui continuava a fissarci. Sentivo quasi il suo respiro leggero addosso. Respirava?
Carmen poggiò una mano sul tavolo. Amo le mani delle donne, dove un velo di pelle raggrinzita sa rendere eleganti tendini e ossa.
Lui fece un passo verso di noi. Io sentii il sangue gelare, come se l’aria intorno a lui fosse fredda. In quell’istante Carmen alzò lo sguardo. Aveva le iridi viola. Le sue pupille si fermarono nelle mie e, prima che tutte le domande del mio castigo potessero piovermi addosso, il tempo si fermò, le sue pupille si piantarono nelle mie; e io La vidi.

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06
Gen
2011

Incipit

Greg socchiuse gli occhi e fissò la luce del tramonto filtrare fra i grattacieli della fiera. Rise. “Strizzare l’occhio al levante di Kenzo Tange dando un’occhiata fugace a occidente” – asserì. Poi serrò completamente gli occhi e iniziò a girare su se stesso, fino a perdere l’equilibrio, fino ad accasciarsi a terra sull’erba. Fra i lampi giallognoli e violacei nell’oscurità delle sue palpebre, provò a concentrarsi sul rumore del traffico in lontananza, cercando di capire da quale direzione provenisse. Era un gioco che improvvisava spesso, che lo divertiva.
Ma ancor di più Greg amava far correre lo sguardo sulla strada ferrata, attraverso la rete di protezione in prossimità del grande ponte, costeggiandola a passo svelto per renderla invisibile. Ci passava i pomeriggi. Oppure sbattere le ciglia e scattare decine di immagini mentali al vecchio serbatoio dell’Hera, fra i cavi a 3KV, e aspettare che facesse buio per cercare una siepe o un lampioncino rotto dove accendersi uno spliff. Conosceva il quartiere in ogni suo angolo, o meglio, da ogni angolatura, e quel che gli piaceva di più era il costante mutamento di quegli spazi. Le bici rubate, i negozi sfittati, i cellulari delle puttane nelle jeep ferme ai lati dello stradone. Per qualcun’altro solo dettagli. Capitava anche che smadonnasse sul fatto di non avere una macchina fotografica; come quando rimaneva fleshato dal crossarsi perpetuo dei pezzi sotto i cavalcavia. “Figate inafferrabili” – sospirava. Ma i writers migliori non amano far rumore, si nascondono da tutto ciò che non sono e creano per essere. Greg in un certo senso era come loro, non aveva nessuna cura nel far capire agli altri che pensava ad altro. Ma non era necessario chissà cosa per intuirlo. Greg parlava poco, e non intendo dire che era di poche parole, semplicemente non amava tirare alla lunga un discorso. Dopo un paio di minuti ti ammutoliva freddando l’accozzaglia di banalità ammucchiate in quel centinaio di secondi e partiva. Il suo passo era almeno il doppio più svelto di quello delle persone che in media puoi incontrare per strada. A vederlo, inizialmente, faceva quasi ridere: un marciatore mancato in infrazione continua. Eppure, Greg non amava correre. L’importante era andare. E una volta chiarita la meta, stabilire il percorso passava in secondo piano.

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