26
Giu
2011

intorno all’ultimo giorno

Piantato lì dalla zia ad aspettare che quei dannati stracci fossero puliti. Seduto sul water di un cesso tremendo, di colore del muschio arido, faceva slittare a destra e sinistra la tavoletta rotta facendola schioccare in un motivetto, la testa tra le mani e una lavatrice epilettica davanti, che si percuoteva e si dimenava tra la parete e il marmo scheggiato. “Cristo”, scandì a fior di labbra in un alito di voce. Non era incazzato, era solo stanco. Stanco e avolico come un buco nel muro. Era il giugno del ’94, non faceva neanche tanto caldo e a volte nell’aria si sentiva una strana eccitazione, come l’illuminazione fulminante di un cambiamento o forse solo una zaffata di feromoni. Il cielo sembrava quello della California dipinta dai film – vedeva solo quello, dalla feritoia del bagno. Sospirò. Si sentivano distintamente i colpi contro i sampietrini delle rotelle di una bicicletta per bambini, che continuava a girare ossessivamente in tondo, proprio sotto la finestra. Sempre più veloce, sempre più veloce. Il ticchettio dei raggi come lancette di un orologio suicida.
Un piccione tuba al di là della parete. Merda di piccione sul selciato. Il sole che fa ondeggiare l’aria e distorce nell’afa le grondaie grige.
La lavatrice che salta e strepita e si contorce e sbatte, proprio davanti a lui, e gira, gira, schianta i panni di qua e di là;  e quell’olezzo di candeggina come di piscio di gatto che gli impregna le narici e le labbra, e a tratti gli secca il respiro in gola.  Novanta gradi. Cenci sporchi di tutto lo scarto del mondo, lo stesso che scrosti dai tubi intasati, la stessa melma che ti torce l’intestino evaporando dalle fogne a mezzogiorno in pieno agosto, magari mentre lecchi un ghiacciolo da duecento lire che sa di acqua e poco altro; lo stesso lercio che porti sotto le scarpe tornando da chissà quale bettola, chissà quale strada che dà di orina e piccioni morti, e ti pulisci sul tappeto; quel tappeto là, che gira, e gira, e gira, e sbatte, si torce, e gira, gira, gonfio di acqua bollente, e impregnato di una candeggina senza marca dal sapore dell’asfissia.
Ma la sua faccia sull’oblò non era riflessa nell’ansia del tutto che si muove nel cesto, quanto nel vuoto fermo in cui tutto si dimena. E pensò a quanto gli sarebbe piaciuto, lavarsi la coscienza a 90 gradi nella candeggina, come se fosse sporca di merda di piccone o piscio di vagabondo; e poter star seduto tranquillo, lontano da se stesso, col corpo dentro ad una lavatrice e la testa fuori, e non il contrario.

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26
Giu
2011

i ricordi più belli sono quelli che durano poco

disimpariamo a centellinare le ore

tutte così calde

tutte così uguali

 

costruiamo fortezze calde di sonno e d’intenti

eppure

niente ci aiuta a sopravvivere.

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24
Giu
2011

Vous Avez L’Heure?

<<chi parte cambia  cielo, non animo, infatti costui si trovava poi  a viaggiar con l’unico individuo  da cui fuggiva realmente, se stesso>>, lui gli lancia un’ occhiataccia, poi risponde<< chi parte, parte! Il perché non importa a nessuno, neanche a chi dovrebbe! >>, e così tira fuori del rum dai tasconi del  cappotto,sorseggia, poi aggiunge <<questi treni partono sempre e sembrano  sempre  lasciarsi qualcosa alle spalle, eppure, l’unica cosa che lasciano siam noi qui a guardarli>>. Ora è il tipo col berretto a tirar su il cappello, per grattarsi la testa ossuta. Rimurgina su ciò che è stato detto, muove la mascella masticando qualcosa tra i denti, chissà, forse un paradosso; <<l’unica cosa di concreto che farai oggi è prendere questo treno, e chissà quanto ancora passerà prima che tu possa  farne un’altra. Lo sai, questo!?>>, <<a volte ci penso!>> il ragazzotto s’alza, allarga il torace;  il marciapiede è lì lasciato a se stesso, lo strano ometto lo accompagna ancora nel discorso, <<è questo il punto. Tu non ci pensi al resto, non come si deve!>>, << se non hai capito non capirai!>>,è proprio un paradosso e lui se ne accorge; ecco cosa mastica il triste ometto davanti alla stazione centrale d’un qualunque luogo geografico d’Italia. << vorresti vedermi restare e ti capisco, ma guardami, guardami bene,  vado avanti, lascio al resto il lasciabile, porto poco, l’indispensabile, addosso, sempre più avanti, e  lontano, sempre. Le cose andranno male!? Forse, ma anche cadendo…
faccio più di sei passi quando inciampo, lo sai!? Tu, questo, lo sai!? O sei forse troppo impegnato a pensare!? E  a guardare!? E poi, ancora, a riflettere!? E infine  maledire dio che  son io e non tu a vivere ora, e qui, dentro me!?  Ora salirò su quel treno, il domani lasciamolo al domani, solo per oggi, perché  a viaggiar vi s’affatica facilmente e tu questo lo sai, vero padre!?>>, << so che sei cocciuto! So soltanto questo, d’altronde non mi serve saper la strada per capire che non sarà una passeggiata, almeno non quella che io m’immaginavo !>>, << ma qui ci son io! Tu hai avuto le tue occasioni, le mie le sceglierò da me>>, << spero che tu ne sia in grado davvero e che non sia l’arroganza piuttosto a muoverti la lingua, perché da domani sarai solo, al mondo, solo>>, <<spero di bastarmi allora!>>. Il parlare è interrotto dall’arrivo d’un treno, l’ennesimo, il solito stridulio al binario tre, la macchina rallenta raschiando, poi si ferma, ancora un fischio.
La bestia s’apre piano, la gente scende la gente sale, le valige si confondono, i cappotti si toccano, è tutto un permesso, tutto un mi scusi, e di nuovo buon giorno, poi ancora è libero?  Tutto questo Gianni lo sa e se lo aspetta, quello che non s’aspetta è, di lì a sei anni, finire in Irlanda con un marmocchio masticando un
inglese
stentato!

 

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23
Giu
2011

il destino del sangue

Credete nel destino? nelle catene di eventi che si perfezionano soltanto aspettando il momento esatto che dentro di voi si è palesato per un solo cristallizzato istante? io sì.
sono andato in mensa e oltre al pranzo ho preso tre tovaglioli. Due li ho usati e il terzo me lo sono messo nella tasca destra del calzone. In camera mi sono spogliato e ho avuto l’illuminazione che aspettavo da tanto tempo: I giganti della montagna sono un’opera incompleta. Come tutte le opere incomplete di solito sono le ultime a cui un autore ha lavorato prima di morire. Pirandello mi è sempre piaciuto quindi ho deciso che quest’ultima opera incompleta dovevo averla. Mi sono vestito di nuovo, ho controllato le tasche e mi sono trovato in mano il tovagliolo. Che ci faccio con un tovagliolo se devo andare a comprare un libro? Non lo so, ma ho pensato che l’avrei capito e quindi l’ho rimesso nella tasca destra del calzone. Sono entrato in libreria e ho cercato e ho cercato. Ma Pirandello non ho trovato I giganti della montagna di (sic). Allora ho cercato e ho cercato fino a quando non ho trovato Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Ho capito che dovevo averlo. Ho cercato ancora, ho guardato in giro e ho preso anche Ancient evenings di Norman Mailer, perchè secondo Burroughs è un libro fantastico. A questo punto sono andato alla cassa.
Mentre pagavo dietro di me è passato un ragazzo con due scatoloni.
“Devi vendere dei libri?” gli ha domandato il cassiere.
“No, sono dei volantini che volevo lasciare” gli ha risposto.
“Ok, fai pure” ha detto il cassiere.
“Non è che avresti un cerotto?” ha domandato il ragazzo con i due scatoloni.
Io e il cassiere ci siamo girati a guardarlo e l’abbiamo visto in piedi con gli scatoloni in mano e dal pollice sinistro gli zampillava sangue come da una fontanella.
“Mi dispiace, non ho niente per il prontosoccorso” gli ha risposto il cassiere intascandosi i miei quattrini.
A quel punto io cosa ho fatto? cosa ho fatto? vi do un’altro po’ di tempo. Cosa ho fatto?
Ho preso il tovagliolo dalla tasca destra dei calzoni e l’ho porta al ragazzo sanguinante.
“Grazie, mi hai salvato proprio” ha risposto il ragazzo degli scatoloni.

Lo so che non mi crederete, ma è una storia vera.

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19
Giu
2011

Magma

Sul filo dorato che orla il lungo tappeto cammino, tentando di non calpestare il sacro rosso.
Dio.
Sfreg(i)o le mani per dissanguarle e riempirle d’elisir mistico e sudore.
Le perle scorrono sulla tela lentamente, indulgenti, severe come il trono vuoto che impera, impera davanti ad uno scorcio d’anima.
Armi e bagagli, questo rimane ad adornare il collo.
Perche’ non sia un cappio.
..svolte leggere come nuvole.
Lune che s’incantano ancora per accogliere l’incanto mai vissuto da chi alla luna non cede il sole, e non vede l’oro trasformarsi in fulgore bianco, ne’l’alone che circonda ogni punta di ogni stella.
Eppure e’ un passo lieve, non una favola.
Anzi una piroetta, una danza, un pensiero vile che costringe i muscoli del viso a far scivolare via una lacrima.
Cosi’ stringo al petto un’idea da regalarmi quando corro a draiarmi sulle lune.
Da sola, cosciente del fatto che miriadi di astri appartenuti alla terra, adesso mi appartengono pur essendo composizioni sulle pupille, e nient’altro.
Le amo come si ama la mano eterea che, sotto forma di vento, accarezza i capelli di un bambino.

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16
Giu
2011

Tre monti e una Social Card

Viveva tutto da lì, palazzina numero trentotto, otto piani, ventiquattro appartamenti, dieci famiglie.
Puntava diritto verso chissà qual dove, eppure andava, facendolo quasi in silenzio, da fermo.
Scioglieva il cuore così come un padrone slaccia il proprio cane, staccandogli il guinzaglio a strozzo mentre questi con forza tirava, ad annusare altrove, lasciandolo andare, senza  seguirlo.
<<Che vada! Tanto è inutile stargli appresso, si finisce fiacchi in men che non si dica!>>, questo si diceva, << che giuochi pure, quand’anche  si morda la coda, son fatti suoi, io glie l’ho dico sempre, ma  lui non m’ascolta!>>. Mangiava se stesso ogni notte, da quel balcone, scusandosi puntualmente coi vicini per il baccano. << sai urlare bene tu!? E allora urla! Non dirmi che non sai più come si fa, se vuoi t’insegno, avanti, prova!>>. E questi urlava, ogni volta e alla stessa ora, sempre dal suo piccolo privé, un posto riservato a chi non ha posto, come una donne gravida, come gli anziani, un disabile,  o meglio ancora, un triste subordinato a tempo con data di scadenza al tappo, un emarginato, razzista con sé stesso, pronto a trovarsi sullo scaffale, pronto a comprarsi, finiva in frigo, poi sul tavolo, apparecchiato per esser mangiato di nuovo, ogni notte, dopo il lavoro. Nutriva così le sue speranze, mangiandosi, e lasciandolo fare alla parte più cattiva di sé, quella che il lavoro sporco sa farlo, ed anche molto bene.  Una miscela di magnesio e potassio, il mondo chiama ed egli risponde sfinito ogni notte. Otto ore, sei giorni, un riposo a settimana, ferie da concordare, vacanze, come se fosse facile avere un posto, scegliere una meta, quando non c’è l’hai e a stento riconosci te stesso allo specchio. Rade la barba, poi il balsamo gel, brucia tutto, il suo viso è cotto, vissuto, forse anche troppo.
Conguaglio dell’acqua, conguaglio del gas, luce, internet, e buste che s’ammucchiano sul tavolo.<< pagherò domani, pagherò non appena avrò i soldi, senza debiti non pago, quanto devo!?>>. La vita non ha un prezzo, la vita ha un costo, la vita è un bene senza un valore determinabile <<la Corte la condanna a risarcire il danno subito dalla famiglia per la perdita del proprio caro>>,        ma determinato a volte, come un contratto a tempo. La vita… ad avercela, a sentirla propria, mentre affitta un appartamento, fa confusione, l’avrebbe comprato,<< non versiamo contributi qui>> come la macchina, << mi spiace non è in grado di fornirci le garanzie richieste per avere questa somma a mutuo>>  come la vita, come la casa, come il futuro, avrebbe comprato tutto, come l’anima, il benessere, e poi ancora l’anima, di nuovo, come il ventisette d’ogni mese, come sé stesso,  bollette sul tavolo, avvisi di pagamento a precederle, avvisi di pagamento a succederle,<< s’affidi a noi, siamo una tra le migliori assicurazioni sulla piazza, stipuli con noi la sua polizza, così se dovesse succederle qualcosa i suoi figli sarebbero quantomeno economicamente coperti>>. Viveva tutto da li, ogni singolo istante, giorno dopo giorno, non senso dopo non senso, dall’ottavo piano di via Farini, poi un bel giorno… << quanto avrebbero se mi dovesse succedere qualcosa!?>>… è finita!
Dicono che gli siano entrati i ladri in casa, ma voi
non credeteci!

 

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14
Giu
2011

Frammenti della vita che ho vissuto

(da una pagina buttata del “Onoranze Funebri”)

Le storie possono cominciare in tanti modi, con una nascita, con una morte; nel bel mezzo dell’azione o anche partire da lontano, con un “c’era una volta”.
Le storie possono anche cominciare dalla fine e poi tornare indietro.

Non c’è un modo preciso per iniziare una storia. E’ una libera scelta dell’autore, di quello che scrive, quello che muove la penna o che schiaccia i tasti.
Ma nella maggior parte delle storie si racconta sempre di un amore, o di un odio.

Io, quand’ero vivo, avevo una ragazza. L’ho sempre ricordata con gioia e continuerò a farlo ancora, nei secoli dei secoli, per l’eternità. Era una ragazza mediamente bella, mediamente simpatica, mediamente socievole, mediamente istruita. Era una ragazza come se ne trovano tante in giro.

Ma era la mia ragazza.
O forse, io ero il suo ragazzo.
In ogni caso era la ragazza che mi piaceva, oltre ad essere la ragazza con cui stavo.
Lei mi ha sempre rimproverato questo mio essere sognatore: uno di quelli che usa le belle parole… ma, com’è noto, le parole si spendono, mica pagano.

A quel tempo, devo ammetterlo, non ero un tipo molto convinto, piuttosto ero un tipo d’imbarcazione a vela senza timone nè remi: “si va se c’è il vento”; “si va dove porta il vento”.
E c’è anche da dire che la cosa non mi scuoteva minimamente; neanche mi lamentavo della mia condizione, lo facevo quasi come stile di vita o come ripicca verso qualcuno o qualcosa.

Cose che non possono durare a lungo…

Poi successe tutto all’improvviso, il pub di via Eremo, quella canzone lenta e costante, e Lei.

Lei.

Lei sì che era bella. Quando camminava si portava dietro altre mille parole. Se ti giravi a guardarla non sapevi dove mettere gli occhi, rimanevi intimidito, quasi sopraffatto.
Non come raccontano in giro, la questione del fiato che manca, la storia negli occhi o stronzate del genere… no, lei si portava dietro una musica con cadenza perfetta. E tu che vedevi muoversi questa sintonia era come se avessi già capito senza bisogno di parole, senza bisogno di sguardi, senza bisogno di niente.

Evitò il bancone, evitò il jukebox spento, il telefono; evitò pure tutti gli sguardi che le si paravano davanti (e dietro) e si diresse alla finestra. La aprì e rimase un po’ ad occhi chiusi a sentire il vento che le strisciava addosso.
Dopo un po’ si girò, accese una sigaretta di quelle fini e lunghe, andò verso il palchetto, spinse via il tipo smilzo che suonava e schiacciò quanti più tasti poteva.

Le note del pianoforte si sparsero alla rinfusa nella stanza.
E tutti si fermarono.

 

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11
Giu
2011

Il becco di un quattrino

Ora voi ridete, ma non c’è mica poi tanto da ridere qui.
(“Mica poi tanto” è un rafforzativo che fa un po’ cagare, ma rende bene l’idea del pensiero che mi passa per la testa)

E’ da poco che, per volere del Dio superiore che governa il mondo o del caso (senza nulla togliere al karma), mi trovo emigrato dalla terra che tanto mi è cara; quella terra piena di colline, monti e alberi… molto molto diversa da questa distesa di campi e nient’altro che è la Pianura Padana.

Ma, come con tutte le cose, bisogna prima conoscersi a fondo per esprimere dei giudizi, bisogna imparare a osservarsi con occhi diversi per non cadere in pareri di parte e perdere l’occasione di fare amicizia.
Così mi sono avviato per questa terra piana girando per i campi: ed è finita che la prima cosa che ho incontrato è stata un topo morto al bordo della strada. Stecchito. A pancia in su.
Mi ha fatto anche un po’ impressione il povero topo. Però sono andato avanti… la prima impressione bisogna sempre lasciarla stare, si sa che è fuorviante.

Pochi minuti di cammino più avanti vedo una luce: m’ero già esaltato e pensavo che da lì a poco sarebbe comparso il mio destino. Invece era il tempo che s’era incazzato… se pur non è scesa la Madonna, è sceso un tuono della Madonna.

E ho cominciato ad avere paura, ho cominciato a pensare che questa terra in fondo mi è ostile ma mi son ripetuto che è giusto buttarsi senza paura e con coraggio nelle avventure.
Mentre correvo in preda a questa sensazione di euforia e paura tra due campi di grano è successo qualcosa che non mi sarei mai aspettato.

Il quattrino.
Pensavo fosse tipico solo delle zone povere, invece l’ho trovato qui a nord.
Era nascosto tra le coltivazioni ed ha spiccato il volo facendo quel verso sordo e gracchiante che quasi pareva un corvo, ma era ‘na cosa grossa che pareva un cinghiale.
Io, intanto, m’ero preso un infarto, ed ero cascato a terra.

E’ caduto un altro fulmine e si è portato dietro un altro tuono. Ho riaperto gli occhi e me lo sono trovato davanti: il becco del quattrino. Mi guardava male. Come se avessi usurpato il suo territorio.

Ho chiuso gli occhi pensando che volesse riempirmi di beccate ma quando li ho riaperti non c’era più.
E’ cominciato a piovere.
A dir la verità, non sono più tanto convinto di averlo visto il becco del quattrino. Ma il quattrino sì; vi giuro che m’ha fatto cascare a terra.

Nel campo di grano.

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10
Giu
2011

anafora

mi ricordo degli anni trascorsi a cercare lucciole

eravamo bambini

avevi imparato a chiudere gli insetti nei barattoli di vetro e mi tenevi per mano mentre morivano.

dicevi che un giorno saremmo morti anche noi

senza spettatori

senza lacrime

ma nella stessa, squallida, gabbia di vetro.

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08
Giu
2011

Pegno d’amore

Sperperiamo dolori e gioie adagiandoli come petali sui nostri corpi indifesi, tremanti di fronte a quel che la notte dei tempi tenta di definire.
Non c’e’ definizione alcuna se non la contrazione di due anime che si comprimono nella stessa gabbia nonostante non vogliano altro che ..
l’amore
ci ha scelti per suo convincimento di nostra inconsapevole forza, oh! noi siamo stati e saremo solo folle complicatezza aliena su una terra di false promesse
Per questo non te ne faccio nemmeno una,no.
Di certo sarebbe invidiosa del suo stesso giuramento e ci ferirebbe con le sue unghie affilate da strega che gioca anche sull’altare di due giovani sposi.
No amore mio…
non tentiamo la sorte con le certezze, ma continuiamo a spargere petali e versare sangue l’uno sull’altra per poi curarci a vicenda con l’irruente tenerezza di fragili esseri che
si svegliano
e scoprono il braccio forte che cinge sul suo petto la piccola testa di una piccola donna
e rinnovano la paura
di non poter sopportare una vita senza l’altro.
Non sono piu’ forte di te, sono la piu’ vile.
Sei tu quello che ha il coraggio di Uomo
e lotta senza ritegno ogni volta che tento di scappare da questo amore, cosi’ grande da illudermi di poterlo nascondere in uno scrigno e serbarlo per la notte dei ricordi
Sei l’angelo custode della mia follìa che non diverra’ la tua
Oh no! non saro’ la tua follìa
questa e’ l’unica promessa che ti faccio.
Ti amo adesso, così,semplicemente.
Domani non so, lo sa chi ci ha reso vittime dei nostri sguardi,quel giorno
che due strane creature si sono intuite mentre il destino giocava a far il padrone di due schiavi.
Nonostante noi.

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