16
Mag
2012

né prima né dopo del buio

Calma. Calma. Mantieni uno stato di calma.

Poi sfora. Si divincola. Sguizza e squarta come uno squalo. La realtà è il suo banco di sarde.

L’unica possibilità è cancellare tutto, prima che lo distrugga. Chiudo gli occhi. Quale realtà? Non c’è stata nessuna realtà, mai, né prima né dopo del buio. È un attimo. Un solo secondo di perplessità, uno solo; lo squalo si arresta sconvolto: ma si è fermato un secondo di troppo, è morto, affogato da un’acqua traditrice, o forse dal nulla. Il risultato è lo stesso : niente più sardine per lui.

Ho paura a riaprire gli occhi.

Non so se perché temo abbia fatto grossi danni, o perché sospetto che non ne abbia provocati affatto.

Sento una porta che si chiude. È lei. È tornata.

L’angoscia. Sempre nel posto sbagliato al momento giusto, non un secondo prima né uno dopo. Nessuna squama la sventra. Lei agita il mare, e gli squali, e i banchi di sarde. Non ride né soffre, come un pianista che suona.

Forse nemmeno se ne accorge.

È la mia eterna gravidanza, me la porto nel mio marsupio di paranoie, tra le pieghe della corteccia del cervello.

Ogni passo mi pesa di più sullo stomaco, ogni ora mi abbassa di più la testa e mi corrode i nervi.

Non finirà mai.

Non ho trovato la calma. E in più c’è lei, dietro quella porta. E una realtà postapocalittica perfettamente (o quasi) conservata.

Momento peggiore per riaprire gli occhi.

E per questa ragione squilla il telefono. È la realtà che mi sta chiamando. Inutile non rispondere: ci sono già di nuovo dentro.

Rispondo e non mi dice niente di nuovo. Ho aperto gli occhi e il certo è tornato a confortarmi, sotto forma di apparenza e non di apparizione. Nulla si rivela, tutto c’è e giace. Nulla in questa stanza è entrato senza chiedermi il permesso.

Tranne lei.

L’angoscia. L’angoscia è reale, ma è sensazione e non sostanza, usa l’apparenza per l’apparizione, e mi sconvolge i piani. Architettonici, spaziali, temporali, eccetera. I piani. Non è mai stato nelle mie intenzioni filosofare o stupire con sagaci accostamenti di lettere e concetti. È, questo, solo il mio modo per sottintendere connessioni che ogni giorno pontifico e distruggo. Mille connessioni che poco o nulla c’entrano con il vissuto, così che buona parte della giornata sia vissuta nell’elaborazione della giornata, la quale giornata pure non mi abbandona e mi cinge e resta intorno finchè non muore, finchè l’orizzonte non la risucchia e non la ingoia, prima di risputarmene fuori ancora un’altra. Non la disprezzo, ma a volte sì, a volte l’ammiro, ma non sempre; molto spesso ne approfitto per scaricare sul suo vuoto spaziale e temporale il mio vuoto dell’essere, accusare i secondi che passano o che non passano, le azioni con cui la riempio o non la riempio o forse dovrei, e i doveri e le imposizioni che di certo non vengono da lei ma solo da questa mia ragnatela di connessioni, di pensieri che qualche metafora non vi spiegherà di certo ma di sicuro ve li rappresenterà in graziosa piccola scala, così come il passerotto è ciò che resta di un T-Rex.

 

E poi c’è Lei.

Lei non scrive per scrivere bene, ma si sforza di scrivere bene per scrivere, e questo le tronca tutte le vie di comunicazione. Persa in una rete di fili che non portano da nessuna parte, teleferiche che girano intorno al mondo e ritornano a lei. Lei non usa il linguaggio per comunicare ma per esprimere, lei non disegna per raffigurare ma solo per liberarsi di forme e concetti che nulla hanno a che vedere con le forme e i concetti del disegno, ma che a ben vedere trovano loro punti di fuga nelle vaghe aritmetiche infinitesime correlazioni tra spessore delle mine, qualità del foglio, forma, cultura, colore. Spesso musica.

Non ho mai capito se lei sia reale, e se lo è mai stato non so neppure se sia ancora viva, sebbene mi ostini a pensare che è, lì, da qualche parte, e che questo mio pensiero probabilmente sia all’oggi l’unica sua forma di vita.

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16
Mag
2012

Verum Ad Se

Non cambiate per loro.
Hanno sempre da chiedere, sempre da dire, da giustificare.
Devono sempre essere capiti, e allora cercate di capirli e
se non vi trovate, se l’errore non è il vostro, voi…
non cambiate.
Lasciateli all’Io, egotico, fine a sé stesso,
trattenuti da quelle poche, viziate, certezze
a mezzo piede dal tombino.
Non curatevi di loro, ché essi non vi curano, piuttosto…
Andate avanti, fuori da ogni genere di pretesa,
lontani da massacri di, o per, principio.
Chi ha il bisogno di ferire e chi
dell’essere ferito?
Abbandonate il rancore, isolatene il vostro, riduceteli.
Ché il giusto è giusto sempre, mentr’essi solo tra simili.
L’arte del bello è vita.
Pesate al vivere dunque e
se dovete,
cambiate,
ma non per loro!

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07
Mag
2012

Dentro e fuori, come scatole cinesi

La luna buca il cielo squarciandolo col suo bagliore bianco apertosi a Nord-Est della volta celeste.
La terra inumidisce, si bagna lentamente, in quel processo che dura ore, eterno.
Ed è su quel corposo terriccio che l’osservatore si sdraia, stende le mani dietro la nuca, respira, attento come un gatto mentre la sua preda è lì.
Raggiungerla, come trampolino usare la mente, gettandosi in quell’inumano quadro, sua arma l’immaginazione.
La Luna non lo teme, guarda il giovane uomo perdersi nel titanismo del buio, tra i lumini della notte.
È senz’altro la Terra, questo pensa l’essere dietro il vetro della sua cabina, attirato nel gravitare muove verso di lei, porta con sé la sua prima donna: entità, solitudine spartana, priva di regole, ricca d’onori, le tende la mano, contempla il tutto da un girone senza suoni, insieme a Lei
che non ha voce, non tocca, non scalda, nutre e si lascia nutrire.
Il primo osservatore non sa dell’altro, eppure è nella sua direzione che punta quell’indefinibile soffitto, enorme, non si lascia racchiudere. -la mente non lo contiene, non ha spazio per il cielo-, questo si dice il giovanotto, mentre scopre il libero, ed è l’armonia a sciogliergli il guinzaglio.
-Non potrei mai vivere, fuori dal mondo-, continua poi.
Vede solo un cielo e si crede roccia, guarda una luna e si riempie il cuore, al sole, povero ingenuo, si rende conto di non avere gli occhi per vedere, ma è un attimo, basta l’odore dell’immenso, certo è solo un cane che fiuta l’intimo di un’altra bestia, non coglie, non sa.
Sopra il cielo invece la cabina continua a muovere, la cosa là dentro è certo un uomo, solo pensa un po’ più su, costretto in due metri quadri, sua unica feritoia al mondo il vetro, corridoio da cui attinge, osserva: incidenti, traiettorie, punti di contatto, esplodono le stelle, vede luce, muovono i giganti, li rincorre al buio e a tutto quel che non capisce dà amore.
La gravità terrestre cattura la strana ferraglia, attraendola, -se torno sulla Terra sono spacciato ed io non voglio, ho fatto di tutto per lanciarmi, non voglio tornare. Finirei il mio viaggio, ritornerei a guardare il cielo steso su un prato e di questa terrificante bellezza resterebbe solo il ricordo,
ho passato una vita oltre il Cielo. Non posso tornare-
Se è vero che esiste un finale, moriranno entrambi.

Perdetevi senza fretta

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04
Mag
2012

ossa.

Si svegliava presto al mattino. Ascoltava i propri pensieri, li formulava con tale attenzione che dimenticava di mangiare e inciampava spesso, tutto preso com’era a cavarsi fuori risposte. All’inizio qualche amico ci provava ancora a coinvolgerlo un poco. “Mario” gli dicevano “vieni al bar a bere una birra”, ma lui era bravo a tenere il silenzio. Pensava: “Mi pesano gli occhi, mi pesano sugli zigomi con la forza del pianto che non conosce tregua. Prima che fosse dolore, cos’era? Cos’era quel prato? Era forse un bosco, un unicorno, una nuvola. Ricordo ancora la forma delle cose? Ne vedo ancora il senso? Non so più da quanto tempo il mondo non mi tange. Dicevano fosse l’inverno, ma trascorsa che è`la stagione, non passa. Dicevano che parlarne mi avrebbe aiutato a non farne tragedia, ma ogni voce che ho maturato nel cuore, giunta che era alla lingua, tornava giù nel profondo, scivolava sulla saliva e restava nel gorgo del silenzio, dispersa. Allora di cosa si tratta? Cos’è questo vuoto nel petto?”

Pensava così tanto, Mario, dimenticava così tante cose, che un giorno prese a piangere e non smise mai più.

 

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