30
Set
2010

Perseguitate gli illusi

Avvertenza:
questo racconto è destinato ad un pubblico adulto

1. Thriller

Mancano dieci minuti all’inizio della trasmissione. La pubblicità scorre fluida come il sangue nelle vene di un bambino. Dopo aver preso attentamente la mira controlla ancora una volta le informazioni sulla vecchietta.
Non ci possono essere dubbi. È lei. La vecchietta ha subìto da una settimana un’operazione al femore sinistro e il ginocchio dell’altra gamba le fa male. Ha i trigliceridi alti, la pressione alle stelle ed è emozionatissima per lo spettacolo televisivo che sta per iniziare. Non se lo perderebbe per nulla al mondo. Il genero le ha trovato una donna ad ore: una bulgara che l’aiuta ora che non riesce a muoversi.
Tre minuti alla trasmissione. Spara. Il rampino si aggancia perfettamente all’antenna. Tira il laccio. Sente la giusta resistenza. Tira più forte. Con un colpo secco il supporto superiore cede sferragliando, l’antenna si piega come un fuscello. Nel televisore della vecchietta è pieno inverno.
Quando appare il guasto, attraverso il mirino, la vede nel doloroso tentativo di alzarsi e di risolvere faccia a faccia la questione. La bulgara le chiede di rimanere seduta, il problema non è così grave. Si avvicina lei, senza sapere cosa fare, sussurrando dei premurosi “ecco mette a posto, mette a posto subito”. La vecchia allora insiste, si alza a forza, la bulgara accorre a sostenerla, le pesta un piede: bestemmia: segno della croce (della bulgara). Lo schiaffo della vecchia sul televisore si sente per tutto il quartiere. Schiaffeggia altre volte fino al parossismo. La bulgara non sa più chi reggere prima, la vecchia o l’apparecchio, l’apparecchio o la vecchia mentre tenta di farsi il segno della croce per gli smadonnamenti… Vede il viso della vecchia alterarsi, la bulgara tenta di calmarla, cerca le perfette parole tecnico-tranquillizzanti-rassicuranti dal garbuglio di termini che le affollano i pensieri; indecisa cerca il genero, la trasmissione è già iniziata, prende il telefono. La vecchia sente un formicolio al braccio, ha un turbamento allo stomaco, un mancamento…
La vecchietta si accascia, preda di un collasso. La bulgara si piega su di lei strattonandola, cercando di farla rinvenire. Troppo tardi.
L’attentatore di antenne attese sul tetto della casa di fronte fino all’arrivo dell’autombulanza.
La nonna di un partecipante al Grande Fratello è stata stroncata da un infarto.

2. Educational

L’esplosione di un televisore è spettacolare per due ragioni speculari e intrinsecamente distinte: 1) è una figura dell’apocalisse: una scatola-mezzo per trasmettere immagini chiamate spettacoli che diventa spettacolo, però della sua fine, il suo ultimo dare spettacolo. 2) ragione meno teleologica, meno filosofica, è vicina ad un ambito tecnico-scientifico e ai nascosti meandri della materia. Questa ragione, che spiega la spettacolarità, è interessante per la sua possibile natura: cherosene, alta tensione, fulmine, telecomando lanciato dentro lo schermo, autocombustione, bomba a mano, vomito infiammabile, aspersione di acqua santa particolarmente santa, uso sconsiderato della sua superficie liscia (sci d’acqua, da neve), tentativo di decollo, deliberato utilizzo come mezzo di difesa, deliberato utilizzo come mezzo d’offesa, scambio del polo positivo e del polo negativo, attacco da parte della Sfinge del Pixel – nuova specie di farfalla che si nutre di cristalli liquidi – , squilibrio interiore, innesco incazzatore, kamikaze, meteorite e chi più ne ha più ne metta. Un televisore ha la stessa possibilità di morire di un cristiano, di un musulmano, di un ebreo o di un indoista, scintoista o buddista, ed è sottomesso al caos o al destino allo stesso modo di ognuno di noi.

3. Titoli

Le trasmissioni a colori in Italia iniziarono ufficialmente il 24 febbraio del 1977, ma pochi potevano permettersi un televisore che trasmettesse a colori. La mia infanzia, fino al 1984, è stata una carrellata di cartoni animati in scala di grigi.

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30
Set
2010

C’e’.

Riciclo sogni realizzati per farne carta straccia e travestirli da ricordi ma questi ,stanchi di vivere sotto mentite spoglie subiscono una mutazione estetica e si prostituiscono come baldracche d’infimo livello e l’infimo intimo mi sgomenta quanto me.
Non e’ vero che l’abito non fa il monaco.
Così ti guardo come se tu fossi gia’ un ricordo, solo non riesco ancora a osservarti in terza persona..si, insomma, il passato e’ cosi’ comico proprio perche’ ha quell’aria esotica e cioe’ non puoi guardarlo come se fosse roba seria e sopratutto non puoi esserne il padrone, dico io.
Sei  il frutto del tuo passato mi dici, della sferza arrogante chiamata societa’ che un giorno ha deciso di darti un nome: Follìa.
Ti hanno rinchiuso non perchè tu fossi violento o crudele ma perche’ hai reputato crudele un pensiero distorto accompagnato da una visione che invece non hai saputo distorcere abbastanza sì da renderla plausibile per non spaventarli.
Ma non sai che gli umani hanno il terrore dell’oltre? Se gli si para davanti lo esorcizzano  categorizzandolo immediatamente e lo rendono inoffensivo rinchiudendolo o promuovendolo al grado di artista.
Tu sai che sono come te, solo, io tengo per me le mie distorsioni, fanculo gli umani.
Perche’  la vilta’ non e’ sempre sintomo di vigliaccheria, a volte la chiamano saggezza.
Odio il legame che ci sta fracassando le palle, odio ignorare questo legame,odio sentire il tuo rimbombo esattamente quanto lo odi tu, odio il fatto che questo ci rende indivisibili.
Non parlarmi d’amore per favore, sei una frana.
Quanto me.
Così aspetto che tutto sia il ricordo di un passato.
Comico naturalmente, come sempre.

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29
Set
2010

Le nozze termodinamiche di Cana

Joshua e i suoi discepoli partecipavano ad un matrimonio in Cana di Galilea. Venuto a mancare il vino la madre di Joshua, Miriam, gli disse: – Non hanno più vino.
– E’ un matrimonio, non un festival della canzone – rispose Joshua, mentre la madre diceva ai servi: – Fate quello che vi dirà.
In un canto c’erano sei otri di pietra ognuno dei quali poteva contenere anche più di trenta litri. Joshua disse ai servi di riempirli d’acqua, di portarli dal Maestro di tavola e di attingerne. Il Maestro di tavola, che aveva tenuto da parte il suo vino migliore per una festa prevista quella stessa sera con persone molto ricche, si stupì molto della bontà di quel vino e per non mettere zizzania e commettere peccato durante un matrimonio fece buon viso a cattivo gioco chiamando lo sposo e dicendogli: – Ognuno serve prima il vino buono e quando si è bevuto abbondantemente il meno buono; tu, invece, hai tenuto il vino buono fino ad ora.
Lo sposo non sapeva nemmeno di cosa stesse parlando e il Maestro di tavola capì che non c’entrava nulla. I discepoli di Joshua credettero in lui dopo questa trasmutazione e al tramonto andarano via insieme al loro maestro e agli altri ospiti.
Del vino nei sei otri ne rimaneva appena uno a metà. Il Maestro di tavola aspettava di lì a poco che arrivassero i suoi ospiti danarosi. Chiamò i servi e disse loro: – Dove avete preso il vino?
Quelli risposero: – Da nessuna parte. Abbiamo riempieto gli otri d’acqua come ci ha ordinato uno degli ospiti e ve li abbiamo portato per attingerne.
– Voi mentite. Pensate di parlare con un beone che si beve simili frottole?
– Noi sappiamo quello che abbiamo visto – risposero i servi, ma il Maestro di tavola li fece frustare lo stesso.
Con inquietudine e sospetto scese nella cantina, trasse la chiave della nicchia segreta dove teneva il vino buono e saggiò la consistenza della serratura. Nessuno l’aveva forzata, né qualcuno poteva averla aperta poiché nessuno poteva avergli rubato la chiave. Quando assaggiò dai suoi otri il vino aveva lasciato il posto all’acqua. Altro che miracolo, pensò. Qualcuno l’aveva fregato, ma chi era stato? e soprattutto, come aveva fatto?

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29
Set
2010

Tèlos

Lunga da sembrare infinita corre la Via,
lunghi e affrettati scivolano i passi,
nell’ ignoto che si addensa in un futuro incerto.
Simile a fiamma virulenta che brucia ignorata,
arriva a spegnersi senza che si possa apprezzare
l’attimo di Fuoco.
Aspiriamo con forza, succhiando vita,
e il sapore diventa insipido,
gusti e sensazioni sanno di sterile.
Si chiudono gli occhi per il riposo e il sonno,
amato e rimandato momento
di tregua dal tartasso di pensieri e azioni,
dalla vita.
L’inquietudine scivola e si insinua negli ultimi respiri,
lo spirito sospira e l’anima trema
e infine d’improvviso scivola
nella Pace.

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29
Set
2010

Crepa nel muro

All’orizzonte nubi e spasmi muscolari…
il delirio aumenta, l’inganno si fa più duro e forzato!
è dura…
è dura respirare quando i polmoni collassano,
quando non c’è più aria nella stanza…
ma è solo un momento…
un piccolo ritaglio di tempo,
un istante da dimenticare…
focalizzo l’attenzione, mi concentro…
fisso il muro, conto le crepe,
evado.
La mente è oltre quel muro…
la mente è acqua che scorre,
afferra tutto, trascina tutto, non lascia niente…
vorrei che ti lasciasse a riva!
Vorrei non averti intorno,
vorrei non pensarti,
e forse non averti mai incontrato…
è guerra d’invasione, si avanza nel territorio nemico,
si conquistano acri di terra,
pezzi di mente…
non sono libero…ma prigioniero di un pensiero.
un piccolo pensiero infantile che mi lega i polsi…
sei dentro…ma non dovresti…
eppure mi riscaldi…
sei dipendenza…
scorri dentro,
la tua presenza…
ne sento la necessità e ne sono
alquanto infastidito.
Sono fermo, ma dentro tremo come una foglia
sobillata dal vento…
sogno la disintossicazione istantanea.
che sia una crepa!?

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28
Set
2010

Il monaco

Il monaco a caccia di libri in una casa abbandonata dagli infedeli trovava in un baule uno strano cono di cuoio con due lenti di vetro di circonferenze diseguali alle estremità. La luce vi passava attraverso e il monaco puntava istintivamente l’estremità più grande verso un fiume lontano, alle cui sponde si notava del movimento. Altrettanto istintivamente posava l’occhio all’estremità più piccola e dopo aver socchiuso l’altro gli si materializzò davanti una giovane donna senza vestiti nell’acqua fino alle ginocchia. Indulse a guardarla bagnarsi ripetutamente il petto e passarsi l’acqua tra le coscie bianche. Passato un lunghissimo minuto realizzava il suo peccato. Lo strumento dell’infedele era un’arma del demonio. Come tale andava distrutta.
Partiva per un pellegrinaggio con altri monaci. Si festeggiava il ritorno di quelle terre sotto la corona cattolica. Nottetempo il monaco si perdeva volontariamente in una zona desertica, lontana da qualsiasi occhio umano. Tirava fuori dalla bisaccia lo strumento che “vedeva come Dio”, che portava gli occhi più lontano da dove Dio avesse deciso che potessero arrivare. Ne calpestava le lenti e lacerava il cuoio. Scavava numerose buche e vi depositava i pezzi dello strumento. Si inginocchiava a pregare gli venissero perdonati i suoi peccati e stette in quella posizione per sette giorni e sette notti.
All’alba dell’ottavo giorno la vista del sole lo commuoveva, ma non si sentiva ancora contrito. Il suo peccato era stato troppo grande. Capiva che non avrebbe potuto continuare a vivere con quella colpa. Allora si cavava gli occhi per espiare. Stette altri sette giorni e sette notti in ginocchio, in preghiera. All’alba dell’ottavo giorno sentiva il sole sulla pelle e si commomueva nuovamente, ma nessuna lacrima scendeva lungo le sue gote. Singhiozzava e si vergognava della sua puerilità. Si strappava allora la lingua per evitare altri gemiti infantili. Rimaneva altri sette giorni e sette notti a pregare per espiare la sua grandissima colpa.
All’alba dell’ottavo giorno veniva a piovere. L’acqua cadeva fitta e lo purificava della polvere e lo dissetava dall’arsura che aveva consumato la sua bocca muta. Rimaneva a contemplare il suono delle gocce sulle foglie degli alberi intorno a lui, sulle pietre, sulla polvere ormai fango. Intuiva un’armonia segreta di cui mai aveva sentito parlare e di cui mai aveva trovato traccia nei libri, nonostante ne avesse letti quanti ne erano stati scritti. Ne era degno? Per risposta si tagliava le orecchie. Dopo altri sette giorni e sette notti, all’alba dell’ottavo giorno, proprio sotto il suo mento sbocciava un gelsomino, poco più in là riconosceva la malva, dietro di lui una roccia antica ospitava una ginestra. Il ronzare degli impollinatori gli sfiorava il viso e le mani giunte. La vita lo tentava con tutte le sue passioni. Ne era degno? In risposta si tagliava il naso.
Passavano altri sette giorni e sette notti di preghiera per la salvezza della sua anima. All’alba dell’ottavo giorno sentiva delle piccole punture alle piante dei piedi che interrompevano la sua richiesta di grazia. Cercava di alzarsi, ma le poche forze che gli rimanevano glielo impedivano. Tutt’intorno a lui il suo sangue raggrumato aveva attirato un esercito di formiche che espugnavano il suo corpo, come un castello senza difese. Il monaco cercava di strapparsele di dosso, ma non le vedeva. Sentiva ogni piccolo morso e centinaia di morsi tutti insieme, ma non poteva più gridare. Non udiva il grido dell’avvoltoio, né sentiva il profumo della polvere quando stramazzò. Non gli fu di viatico il pensiero terribile dell’inappellabile condanna che il suo Dio dall’occhio onniveggente gli avrebbe comminato dopo la morte per la sua imperfetta condotta.

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27
Set
2010

MiSscazzo

l’inquietudine muove le ombre,
e intanto fuori piove.
figure confuse, angoli buii…
credi di essere solo?
lei ti scruta, ti osserva, ti è in testa…
ti legge dentro.
hai paura, ma lei questo lo sa…
sa tutto di te, o forse non sa niente…
forse ti conosce,
forse…ma…
senti il peso del suo corpo nella mente,
senti il suo odore…
vorresti sapere che sapore ha…dentro,
ma fuori piove,
fuori…
una notte senza stelle,
in un cielo di epitaffi scolpiti nella ghisa.
foglie bagnate…
non è la pioggia…
vorresti sapere che sapore ha vero?
vorresti venire…qui…
vedere il mondo e sentirlo avvinghiarsi alle tue carni?
vorresti provare il piacere?
in strada neanche un’anima, ma lei ti vede…
sicuro di stare bene?
anche la strada è begnata…ma è solo pioggia…
e tu da che parte stai?
fa freddo…lei non da calore…
solo piccoli graffi.
pensieri sempre più altolocati, non ti degnano di uno sguardo…
e intanto sbatti,
sbatti,
piccoli colpi, la stanza è stretta, gli occhi ben chiusi,
non vedi il mondo, lo immagini,
ma funziona, va bene così, infondo…
non c’è un’uscita senza un’entrata…
ma queste pareti, non c’è spazio…
quasi non si respira…
al buio,
senti il suo respiro, lei ti sta osservando,
i tuoi movimenti calcolati la insospettiscono…
non si spiega il motivo…
continui a sbattere.
quegli urti ti fracassano il cuore…
la testa, mentre sbatti, vorresti andare…fuori,
sogni l’evasione violenta,
ma … dov’è l’uscita!?
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26
Set
2010

LA GUARDIA (3/3)

– Io so quello che hai sognato! – gridò Kurtz dall’alto della Torre.
Sotto di lui i suoi compagni saltarono e gridarano, inneggiandolo come il loro condottiero mentre il cielo tuonava insieme a loro.
Qvass sparò in aria per riportare la calma e diede ordine di andarlo a prendere. Kikero era nero di rabbia e blu dall’umiliazione e tutta l’acqua che stava scendendo anche se avesse continuato da lì all’eternità non avrebbe potuto lavarla. Pensò che quel Kurtz fosse un bafometto, un arrivista senza scrupoli. Se quell’idiota non si fosse addormentato durante il suo turno di guardia il nemico, in quel preciso momento, starebbe fuggendo con la coda tra le gambe. E quei codardi dei suoi soldati? Acclamare il gesto frutto di un caso, di un loro commilitone senza meriti, era da femminucce.
Qvass domandò a Kurtz cosa avesse intenzione di fare. L’uomo si inginocchiò.
– Mio capitano, ho messo la macchina di questo Stato al servizio della mia vendetta. Sono nato in uno dei vostri villaggi, venti anni fa vidi uccidere i miei genitori, violentare le mie sorelle, incendiare le case. Da quel momento meditai di vendicarmi e quando fu l’ora mi arruolai tra le fila di questi stranieri. Sapevo che sareste arrivati, prima o poi. Ho drogato le sentinelle e poi mi sono proposto come guardia alla Torre. Quando siete giunti ho lasciato che entraste e conquistaste il forte. Vi ho visto strisciare come ladri nella notte e ho resistito alla tentazione di unirmi a voi perchè mi restava un’ultima cosa da fare.
Qvass era rimasto colpito da queste parole. Ma non gli piaceva aver avuto l’aiuto di un traditore. I traditori non avevano nessun posto tra le sue categorie di prigionieri o di vittime. Quel soldato diceva la verità, oppure si stava inventando tutto per salvarsi la vita? Il modo per saperlo era sottoporlo all’Ordalia a cui finora nessuno era scampato, l’unico tribunale a cui riconosceva autorità.
– Sentiamo, cos’è l’ultima cosa che devi fare?
Kurtz rispose: – I soldati che distrussero il mio villaggio erano comandati da Kikero, questo stupido aguzzino, incapace di difendere l’avanposto che gli hanno assegnato, inetto a riconoscere il valore di un uomo, insignicante verme che trova gusto soltanto nell’uccidere per uccidere.
Kikero trattenne le parole tra i denti. Quando capì che stava piangendo ringraziò la pioggia che nascondeva quell’ultima offesa al suo orgoglio.
– Se è vero tutto quello che tu dici, allora ti concederò di fare l’ultima cosa che devi fare solo se risponderai correttamente alla domanda. – disse Qvass.
– Bene, – rispose Kurtz – la risposta è molto semplice: non hai sognato nulla. Perché questa notte hai vegliato marciando con i tuoi uomini, calando dalla montagna, attraversando la foresta e arrivando fin qui dopo aver attraversato il fiume nel più assoluto silenzio come si confà alla giustizia.
Qvass in persona consegnò a Kurtz una pistola.

leggi la prima parte
leggi la seconda parte
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26
Set
2010

De-essing check

Butta il mestolo e succhia il mio punch, troppe lingue assaporano le mie dita, come su un piano fanno scale, viaggiano in skate oppure in mono e non volano. Da una nuvola all’altra tramite ponte levatoio l’avvoltoio non mi calcola e vola. Di schiena mentre si lava plana verso il castello in aria e si gratta. Non atterra, sospeso pranza e banchetta, alletta la corte da finto menestrello, spiega valori e valute, lui è un buon avvoltoio si dicono in tante, mentre riprendono a mangiare, mentre riprende il volo nella notte. L’avvoltoio sogna biondi ricci, va e viene nel sonno, nel volo, nel cielo aspro del suo regno, finché non è giorno. Il suo regno trae sostegno dal didentro, fermo su estensioni aerobiche in danza; un fiammifero fiero del suo ego non avrebbe tempo di diffondere il suo effetto, brucerebbe troppo presto. Attraccandosi con rabbia a un lembo del suo vedo, il rapace fissa l’estremo del suo centro e vi parla. A cospetto di stupidi cerini, nebulizzando invidia mista a bolo alimenta l’odio mentendo sull’assenza di alcol. Pichi sfasati verso l’alto deglutiscono l’alito del finto falco e riflettono, riaccendono, illuminano nell’attimo il tempo del gran capo.

Seguendo moti parabolici infetti da qualunquismo precoce, lapilli sostituiti a proiettili muoiono impattandosi sulla polvere pirica che sporca il mio dorso. Destandomi attendo che rientri in circolo la riscrivibilità dell’inconscio e pompando disattenzione alla memoria, scarica da ore, dreno la banalità superficiale del distante per incrinare le labbra liete fra le guance inamidate. Altro mi sfugge, l’annuncio della fine è coperto dal rumore dell’acqua che scorre tiepida sulle dita; le mie dita che preferiscono raschiare cibo dai piatti, insaponare forchette, lucidare cristalli.

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25
Set
2010

LA GUARDIA (2/3)

Alle otto in punto del giorno di Natale la cittadella comandata dal capitano Kikero era in mano ai nemici. Inosservati e silenziosi, intabarrati nei loro lunghi cappotti di pelo avevano passato il ponte, divelto le transenne, sfondato l’alto portone e catturato uno a uno tutti i soldati della guarnigione. La legione nemica era comandata dal capitano Qvass, un accorto stratega con il vizio della tortura psicologica. I suoi festeggiamenti durarano poco. Acquavitae e donnine lo stancarono subito. C’era una guerra da combattere. Una città lontana da conquistare e uno stato da invadere.  La facilità con cui erano entrati lo aveva sorpreso. Mantenere in vita quel centinaio di idioti, pensò, era un impensabile spreco di risorse e un oltraggio all’onore militare. Qvass scese in cortile, ordinò di sistemare una specie di scanno e, dopo averli fatti perquisire e spogliare, i prigionieri furono portati al suo cospetto. Infreddoliti e spaventati in quel momento parevano tutti uguali. Ufficiali e soldati semplici avevano la stessa paura, lo stesso freddo, la stessa fame. Qvass ordinò ad una delle guardie di portargli un prigioniero.
– Se mi dirai cosa ho sognato stanotte avrai salva la vita. – disse il capitano.
Il soldato non aveva capito una parola e rispose soltanto: – Ho freddo, vi prego.
Qvass levò una mano e la guardia sparò per uccidere.
Il freddo di quella giornata divenne storia. I prigionieri che stavano tremando si immobilizzarono. Le bocche si seccarono. Qualcuno se la fece addosso, con un leggero inutile sollievo. Qvass diede l’ordine di nuovo. Questa volta la guardia dovette farsi aiutare. Nessuno poteva sapere cosa avesse sognato quel bastardo.
– E’ molto semplice, hai capito benissimo – disse Qvass al secondo prigioniero – se sei in grado di raccontarmi il sogno che ho fatto stanotte avrai salva la vita. Mi vedi? Sono un uomo semplice, non sono capace di grandi sogni.
Il soldato lo guardò come si guarda il proprio boia.
– Hai sognato la tua casa? – domandò.
Qvass lo guardò con stupore, strinse le labbra in segno di ammirazione. – No. – disse. Un altro sparo risuonò terribile nel cortile.
Il terzo prigioniero avanzò con un certo rispettabile decoro. Tradito dal freddo avrebbe voluto gonfiare il petto in segno di sfida, ma non riusciva a staccare le braccia dal corpo. Il portamento fiero tuttavia era palesemente ostentato.
– Sono il capitano Kikero! – disse con voce alta e ferma.
Mentre Qvass piegava di lato la testa come un cane raggiunto da uno strano suono, il soldato semplice Kurtz, ancora libero in cima alla torre, si affacciò dal parapetto e gridò: – Fermi tutti.
Prigionieri e carcerieri alzarono la testa verso la voce e in quel momento prese a piovere. Le gocce erano grosse come sputi.

leggi la prima parte
leggi la terza parte
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