Il giorno aveva sollevato una coltre brumosa di polvere, sospesa sui tetti delle case lontane nell’orizzonte. L’azzurro del mattino era gelido. Veronica respirava l’aria fredda lentamente, nella penombra di una panchina, attraverso la sciarpa di lana grigia; osservando a occhi stretti quella lontana foschia. Spostò lo sguardo sul rosso inglese delle sue unghie smaltate di fresco. Il sole cominciava a scintillare sulle grondaie e a colorare il vialetto col giallo acido delle prime foglie morte, e sotto gli aceri si frammentava in mille scheggie di un verde pungente.
Veronica fece scorrere piano la cerniera della borsa, quasi incantata dal meccanismo, che strappava il silenzio dell’alba. Indagò i pacchetti di sigarette scorrendoli con due dita, indugiò sulle Diana, accarezzandone il coperchio; poi si spostò decisa sulle Winston Blu, sollevò la scatolina, tirò fuori una sigaretta e la portò alle labbra. Richiuse la confezione e ripose la borsa sulla panchina con un’accuratezza nervosamente morbosa.
La sigaretta rimase incollata alla sua bocca, mentre cercava l’accendino nella tasca dei jeans. Lo sollevò e lo accostò al viso, piegandosi leggermente in avanti, e raccogliendo i lineamenti in un’espressione un pò corrucciata, che ispirava allo stesso tempo tenerezza e gelo.
Veronica aveva un pacco di sigarette per ogni stato d’animo. Quindici pacchetti da 10 sigarette ciascuno. Perchè il numero di occasioni e stati d’animo è di gran lunga maggiore del numero di volte che se ne ha uno. Era molto matematica, Veronica. Amava le dimostrazioni logiche e la fisica quantistica, quasi quanto amava le sei del mattino.
E le sei di quel mattino avevano portato una strana occasione e uno strano stato d’animo, così che il sapore di quella sigaretta, la sua lunghezza, il suo spessore tra i denti, erano tutti leggermente ed irrimediabilmente stonati; e questo la infastidiva in maniera particolare, come un prurito dell’anima che risveglia un masochismo sopito. Così, l’ansia indefinita che le formicolava nello stomaco dalla sera prima, quando aveva fatto quella scoperta, era sfumata ora in una leggera inebriante eccitazione, che piantava le sue infide radici nel terreno fertile della repressione colpevole.
Veronica aveva ancora il sentore del caffè amaro sulle labbra. Scostò la sigaretta e lo assaporò ad occhi chiusi, espirando il fumo dalle narici. Un passerotto fece crepitare delle foglie con pochi saltelli, riportandola in stato d’allerta; quindi la fissò chinando la testolina, con i suoi piccoli occhi vuoti, e volò via. Veronica portò una mano sulla borsa. Proprio in quel momento sentì il ruggito di tosse rauca di un uomo anziano. Fu un attimo. Veronica, con una velocità ed una precisione meccaniche, tirò fuori la pistola ed esplose due colpi che si piantarono nella fronte e nel torace del vecchio.
Veronica era stata una ragazzina come tante altre, con dei lunghi capelli raccolti in elastici colorati, e un sacco di interessi troppo grandi o troppo piccoli per lei. Certi giorni si sedeva tra il muro e la cassettiera della camera di sua madre, al buio, e pensava a cose tristi, come la morte o l’impossibile. Uno di questi giorni ebbe l’ironia crudele di coincidere con uno di quei giorni in cui lo strozzino con cui si era infognato il suo defunto padre faceva visita alla sua vivente madre.
Nei tempi migliori che a stento seguirono, i ricordi di Veronica furono progressivamente ammortati in un sonno sintetico, le sue sensazioni scambiate con pillole dai colori vivaci.
Ma l’uomo non dimentica. L’uomo archivia. Dimenticare è solo un chiudere la chiave nel cassetto. Ma se è vero che esiste l’incoscienza, è vero anche che possiamo nascondere a noi stessi molte cose. A maggior ragione, una chiave immaginaria.
Veronica si alzò con calma e gli si avvicinò, fino a sfiorare la sua giacca con la punta delle scarpe. Il sangue iniziava a rigare le giunture dei mattoncini. Lei lo guardò senza espressione. Lasciò cadere la pistola, che con un tonfo gli si posò accanto al gomito, rimasto flesso. Si voltò, ripiegando con attenzione il fazzoletto di stoffa azzurra che aveva avvolto l’impugnatura; lo infilò nella borsa facendo spazio tra i libri e richiuse la cerniera con un gesto secco, mentre già si allontanava. Veronica non era nè triste nè felice. Magari avrebbe anche aborrato la violenza, in un’altra vita. In questa, le era stata imposta.
L’arpa era enorme e arrivava fino cielo. La voce mi chiese a cosa avrebbe potuto servirmi e aggiunse che avrei dovuto scegliere un’altra carta che regalava qualcosa di meglio.
“No, voglio questa..cosi’ sono sicura che nessun essere umano potra’ mai suonarla”.
E’ strano giorovagare tra le corde che sembrano immensi tronchi senza rami ma che parlano ad ogni passo e ad ogni passo pare di calpestare l’infinito.
Sono stronzate…e’ una stronzata la vita,la morte,la poesia,le mani che applaudono, stringono, pregano, una scopata, un atto dovuto, una concessione, un privilegio raro, un sogno realizzato.
I sogni realizzati sono come quei film’s visti dopo aver letto il romanzo, deludono quasi sempre..i sogni non pretendono niente e bisognerebbe rispettare la loro indole libera.
Ma no, non hai voluto.
Hai voluto trasformarmi in limitatezza dimenticando che io sono astratta..
Adesso mi guardi come se fossi una bugia. Hanno le gambe corte le bugìe,dicono.Per questo ancora una volta ti sbagli…io non ho gambe e nemmeno ali,non sono angelo nè sequoia,ne’tutto quello che credi di sapere di me ,sono la derisione che sfotte il mondo amandolo come nessuna serieta’ sa fare , ecco cosa sono;Ed ancora una volta tu sei qualcuno che impazzisce nel tentativo di capirmi..ed io lascio cadere una lacrima nella terra di nessuno.. perche’ tu non possa raccoglierla.
Mai.
Quella che avevo scritto era un’altra storia ma a rileggerla, ora, non mi pare poi così interessante. (Per farvela leggere, è chiaro).
Quella che avevo scritto era una storia che parlava di me, o di qualcuno che gli somigliava. Forse più di qualcuno che gli somigliava che di me.
Ma questo non ha importanza.
Stasera ho visto un gatto ciccione. Se ne stava su un muretto con la solita aria che c’hanno i gatti che si danno le arie. Cioè tutti. Sto gatto c’aveva un collare e sto collare c’aveva i campanellini. Secondo me i campanellini l’hanno inventati per rovinare la fama a li gatti loro. Per rovinargli la fama di felini, di cacciatori silenziosi.
Comunque, il gatto non c’entra niente… E’ che io credo che oltre a rovinargli la fama a loro rovinano pure la vita a me, che mi devo sentire sti campanellini di sto gatto ciccione che cammina.
Quindi il gatto forse c’entra.
Stasera ho pensato che è un po’ troppo tempo che volevo scrivere una storia. Così l’ho scritta. Ma non è venuta per niente bene. Per questo non ve la leggo, anzi, non ve la faccio leggere.
Stasera ho pensato che vorrei essere silenzioso come un gatto… un gatto col collare coi campanellini. Che c’ha la fama di essere silenzioso ma che ogni passo che fa tutti s’accorgono che c’è.
Stasera ho pensato che forse i campanellini ce li abbiamo tutti e che tutti facciamo rumore, ci incazziamo con chi non sa fare il lavoro suo, con chi si fotte li soldi, con chi c’ammazza la famiglia e pure con chi si fa ammazzare soldato, co’ quello che fa il ministro e co’ tutti l’artri che capitano.
Ma poi alla fine siamo silenziosi. Perchè c’abbiamo solo la fama di fare rumore.
Ma non facciamo mai un cazzo.
Una mosca ronzava a intervalli di qualche secondo impedendo di concentrarmi. Pensavo che rimanendo seduto e facendo conto delle mie grandi doti di concentrazione avrei ridotto il ronzare della mosca ad un infinitesimo di nulla. Non ho grandi doti di concentrazione. Anche se impaurito dalla possibilità di perdere il filo dei miei pensieri mi sono alzato e mi sono piazzato davanti alla finestra. Ho guardato la mosca. Silenzio. Ho aperto la finestra e ho aspettato qualche secondo. La mosca è uscita ronzando. Vedi le mosche, ho pensato, non sono mica sceme come pensano tutti. Quando mi sono seduto mi mancava quel ronzio intervallato che mi intralciava la concentrazione. Ma ho scritto lo stesso. Vedi lo scrittore, ho pensato, non sono mica così intelligente come pensano tutti.
“Non ditemi che non contemplate il tradimento in amore perché non ci credo”
“E’ un argomento da evitare in coppia, ma da consumare fuori”
“E’ una regola del gioco, un non-detto che si discute tra i giudici di gara, ma che i giocatori fanno finta di non conoscere”
sono alcuni degli aforismi che abbiamo consumato e riconsumato in automobile prima che…
…finita la benzina in piena discesa la strada pianeggiante ci facesse fermare. Eravamo in cinque. Tre da buttare di sotto due da salvare: io e la tipa, entrambi volevamo salvarci, ma non a vicenda. Lei mi avrebbe salvato tra i file mostri & affini, io tra bellezze & di più, ma la macchina era a secco. Eravamo tutti nella merda, metaforicamente.
Una mosca stava invece saggiando uno stronzo di cane sul marciapiede. Sembrava dicesse: Ah, questo mondo è tutto una merda e a voi non piace.
Era lo spiazzo di una chiesa, domenica dopo pranzo e non c’era nessuno. Uno dei tre che non mi interessano entrò nella chiesa, si fece il segno della croce dopo aver intinto il dito nell’acquasantiera e si bagnò la fronte. Sentì uno strano odore (in realtà assaggiò, amici beoni sapete bene di cosa parlo). Strano per quel luogo. Uscì dalla chiesa. “E’ wodka” disse. “Dove” domandò qualcun altro, ma senza il punto interrogativo, solo così.
“Nell’acqua santa hanno messo la wodka”
“In che misura?” chiese il barman del gruppo, ma gli altri erano già entrati. L’assaggiarono tutti. La finirono tutta.
Io intanto cercavo di insegnare alla mosca un ronzio tibetano, giusto per provare una mezza meditazione in quel luogo disanimato. Gli altri, tipa compresa, uscirono un po’ brilli, contenti.
Dopo mezz’ora i quattro si erano completamente intrecciati in un sontuoso dialogo sul tradimento: come ragni sputavano fili di seta resistenti a seconda della forza dell’argomentazione, riuscendo ad avvolgere il dialettico che si aveva di fronte e tenerlo imprigionato fino a quando la sua tesi era distrutta da un’argomentazione migliore. Un giorno solo era bastato per ereggere il muro di Berlino, dividere famiglie, scandire il tempo di una macabra danza col men che meno strumento mortale di una cazzuola. E quelli, ormai avvinghiati nei loro sputi, nei loro dissensi, nel loro egoismo e nel loro tentativo di avere a tutti i costi ragione, con un semplice filo sottile divedevano il mondo in due parti. Non est & ovest, ma in amanti & cornuti.
La mosca, ormai sazia della merda appena intaccata, sontuosa come una montagna sacra, li canzonava col suo ronzio privo di significato e faceva attenzione a non avvicinarsi per non rimanere intrappolata in quella rete di insulti. Si era ormai passati a mere questioni di lavoro e a più incosistenti (e per questo più interessanti) questioni private, tra occhietti dolci, parole gentili e pesanti apprezzamenti.
Fossero tornati dentro nell’acquasantiera avrebbero magari trovato un po’ di benzina, bastava chiedere. La scoprii io. infatti. Per fortuna armi nei paraggi non ce n’erano per cui potei lasciarli soli e dopo essere riuscito a staccare tutta l’acquasantiera dalla colonna della chiesa, aver trovato un carrellino in sagrestia e averci caricato il carico, mi sono presentato davanti alla macchina. Ho detto: smettetela di rompere che devo concentrarmi. Anche la mosca si è arronzata, ha tirato fuori uno stuzzicadenti alla fibra di vetro e si è goduta lo spettacolo. Col foglio di una rivista patinata, scelto a caso tra culi tette e muscoli, feci un imbuto, inclinai il carrello e riuscii a versare la benzina nel serbatoio.
“Possiamo andare” dissi. Gli avvinghiati si disavvinghiarono e tornammo in città nel crepuscolo che sorseggiava orizzonte da un sole al succo d’arancia. Che eravamo usciti a fare nessuno se lo ricorda.
La mosca si è sposata. Al matrimonio il prete, una mantide religiosa maschio a cui una grossa femmina della sua specie faceva l’occhiolino mentre affilava la zampe, pensando al suo destino di nascita-copula-morte ha ripetuto varie volte:
avrà una vita felice, avrà una vita felice perché avrà una vita piena di merda.
Cenere nel lavandino..
una volta era bianco,
ora vi poso la cenere,
mentre fumo…
e lo faccio in bagno.
Ogni tanto ho bisogno anch’io di un posto
appartato dove chiudermi per un po’…
e questo è l’unico che conosco…
qui so che nessuno entrerà mai senza aver prima bussato.
Appendi un cartello con scritto occupato, giri la chiave
e nessuno entra…facile in fondo!
Tutti ti danno il tempo di riflettere un po’,
di pensare, di pulirti il culo, o,
magari, di giocare con lo specchio.
Il lavandino si sporca ad ogni mio respiro,
sempre più sporco,
sempre più sporco,
un po’ come l’anima del resto…
la vostra…
e la mia … l’ho venduta tempo fa, ad un pensiero che non paga,
ma infondo non mi è mai servita a molto.
Basta poco a sporcarsi…
a trovarsi color cancro dentro,
per sentirsi brutali, privi di tatto…
indurirsi… mentre trema il mondo.
Fatto sta, che il cuore, per un motivo o per un’altro,
smette di stupirsi, di fremere…
la mente smette di lasciarsi ingannare dalle parole…
e tu, Idiozia, ti ritrovi nella condizione di non aver più voglia di comunicare.
La voce è uno strumento inutile…
rapporti umani, ecco cosa penso mentre mi guardo allo specchio,
ai rapporti umani…
alla loro natura, alla loro stranezza…
a quanto siano terribilmente stressanti…
eppure a come ci si abitui facilmente,
ti ci abitui così bene che alla fine non sai più se odiarli
o amarli…
amare…
già..
che parola priva di senso…
eppure così pulita…
ci si sente sporchi con poco quando c’è lei a girati in torno.
e allora basta, sbuffo, giro la manopola,
ho finito di fumare…
pulisco il lavandino. La cenere si scioglie a contatto con l’acqua.
si crea un liquido nero….
è strano come a quello scolo risucchiato dallo scarico,
che crea un mulinello nel lavello…
sia, per me, così simile all’amore.
mentre osservo amareggiato,
il cesso continua ad essere occupato.