30
Ott
2010

La testa di Freud

Avevo sempre detto ad Antonio che quel coso cresceva ogni volta.
Naturalmente non ci voleva credere. Posso capirlo quel poveraccio. La prima volta capitò proprio a casa sua. C’era anche Cesare. Antonio era mezzo ubriaco e cominciò a urlare. Eravamo nella sua casa in campagna, non c’era nessun altro. Sembrava che se la fosse fatta nei pantaloni, ma non era piscio, era sangue. Un bel po’ di sangue. Quando si tirò giù i calzoni al posto dell’uccello aveva una specie di testa di serpente che gli aveva morso le gambe, come scoprimmo più tardi a causa della fame e in quel momento ci sembrò a tutti di essere usciti fuori di senno. Erano stati i funghetti, le canne, l’alcool? No, era tutto vero. Antonio stava in poltrona e si teneva il cazzo che voleva andarsene dove pareva, ma non era più il suo cazzo, era un serpente che ci guardava con i suoi occhi rossi e neri. Da quella volta, con una scusa o l’altra, tutte le notti di luna piena ci siamo dati appuntamento in quella casa per dar da mangiare al serpente. I primi mesi bastarono pizze, spaghetti, qualche bistecca. Alla sesta luna il nostro caro amico aveva una verga-serpente che avrebbe fatto invidia a John Holmes. Superava abbondantemente il mezzo metro e non sembrava nemmeno più un serpente. Mi pareva una specie di “drago”. Quello stronzo masticava pure, cazzo.
Quella notte gli abbiamo dovuto dare la cagnetta di Cesare, Pompea. È da pazzi lo so, ma non potevamo più tenerlo e Pompea abbaiava, povera bassottina. Era simpatica, ma se l’è andata a cercare. Il serpente ci sfuggì alla presa e azzannò Pompea alla gola. Fu un attimo e ci fu sangue dappertutto. Non sputò nemmeno le ossa, le sentimmo scricchiolare sotto le mandibole. Cesare non disse nemmeno una parola. Non sapeva cosa raccontare alla sua ragazza. Antonio invece dormì di brutto e il mattino dopo fu come sempre, come se niente fosse successo.
Per un altro anno dovemmo comprare conigli, polli e capretti. Tutto sembrava filare liscio. L’anniversario del secondo anno, però, non me lo dimenticherò mai. Antonio era strano, un atteggiamento da stronzo. Insisteva che stavolta non sarebbe cresciuto, che il serpente non si sarebbe fatto vedere. Ormai avevamo una cultura in fatto di lunazioni. L’abbiamo dovuto spogliare noi e legarlo alla gabbia di plexiglass in cui gli facevamo infilare il cazzo per evitare che la bestia ci mordesse o peggio. Era sconvolto, stravolto esausto. C’è da capirlo. Ma io non credevo che il serpente non sarebbe cresciuto. Quello sembrava non averne mai abbastanza.
Quando il cazzo si trasformò quel bestione sarà stato di due metri abbondanti ed era così grosso che il buco che avevamo fatto non bastava. Antonio soffriva di brutto e quel bastardo  soffiava come una cornamusa. Sbatteva la testa sulle pareti della gabbia trasparente e alla fine la ruppe. Antonio era ormai diventato un’appendice della bestia, una specie di sonaglio, per quanto sbraitava. La bestia non gli badò e si pappò in un boccone il maialino che avevamo apparecchiato. Carne dolce chiama carne dolce. Non ci fu il tempo di rendersene conto. Il serpente azzannò Cesare al collo sbattendogli la testa contro il muro. Ci fu un’esplosione di sangue e materia cerebrale, una macchia gigantesca si allargò sul pavimento. Il serpente si masticò Cesare per bene e poi si leccò anche il sangue per dessert. Antonio era svenuto da un pezzo e sapevo che la prossima volta sarebbero stati casini. Acquistai un bue, squartato naturalmente. Il pasto sarebbe stato più che generoso, ma non avevo calcolato le graziose sorprese della natura.
Quando il cazzo si trasformò il serpente era lungo più di cinque metri. La scatola di plexiglas andava bene, ma notavo nel suo sguardo famelico qualcosa di strano, una punta di coscienza: in fondo era il cazzo di un uomo, cazzo! Si staccò dal corpo di Antonio con un risucchio disumano. La coda si portò via metà degli intestini del mio amico. La bestia si girò nella scatola, disdegnò il bue e dal buco della scatola si fiondò direttamente nello squarcio del mio amico che urlava ancora mentre il serpente se lo pappava a morsi. Per fortuna fu una breve agonia. Dopo esserselo ingoiato non riusciva più a muoversi. Mi guardò dritto negli occhi prima di addormentarsi. Sono stato lì a fissarlo un quarto d’ora. Assomigliava a Freud, quella testa di cazzo!

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26
Ott
2010

Fattore Delta

Lino aveva preso il treno in ritardo. Aveva corso come un pazzo e alla fine aveva preso il taxi. Non aveva molti soldi con sé, quindi convinse il tassista napoletano ad uno sconto di cinque euro cantando “femmena”.  Aveva preso quel treno proprio all’ultimo minuto mentre il controllore agitava la fiaccola. La nebbia come un velo gli lanciava un saluto. Il suo paese, nascosto dalla foschia, si faceva sempre più piccolo ai suoi occhi, sembrava un piccolo abbraccio. In quel momento un inaspettato moto di stomaco lo sconvolse.

L’alba di Milano. Aria frizzante sulla pelle. La gente si muoveva con passo veloce. L’architettura possente lo rianimò e si fece forza. Prese le mappe stampate da googlemap dal fodero della sua chitarra. Si schiarì la gola. Prese il tram. Quello retrò, di legno. Telefonò ad un suo amico e si accorse di parlare troppo forte dallo sguardo dei presenti. Rilesse la lettera arrivata due giorni prima a casa. Oramai la conosceva a memoria.

“Gentile sig. Gargiulo, le comunichiamo che dopo la selezione avvenuta in data 23-09-10 lei ha riscontrato, come già sa, un esito negativo.  Ma data la mancanza di alcuni concorrenti per motivi familiari e improvvisi forfait, la produzione del programma ha ritenuto necessaria e auspicabile la sua partecipazione al programma “Fattore Delta”.  La sua entrata non avrà bisogno di un ulteriore selezione, in quanto la scelta è stata unanime da parte degli autori.”

Poi fissando la strada, ripetè ad alta voce  la data e il luogo dove presentarsi. “Allora deve scendere alla prossima fermata” disse una vecchina che sedeva accanto. Il palazzo era alto e ombroso. Le vetrate riflettevano un cielo plumbeo e sconosciuto. Le nuvole si contorcevano in spirali e strane figure sui vetri scuri. Una segretaria gli si piazzò di fronte guardandolo con disprezzo. Lino tolse la sciarpa e le mostrò la lettera. La segretaria sorrise, e lui giurò di aver visto un sorriso malizioso.

Per Lino si aprirono le porte del paradiso. Lo studio televisivo dove la trasmissione veniva girata era enorme e luccicante. Tutti erano gentili con lui. Venne affidato ad un gruppo di musicisti professionisti, e iniziò a fare le prove in delle piccole e attrezzate sale studio, tutte per lui. Doveva prepararsi alla prima esibizione davanti alle telecamere, in diretta. Chissà, pensava, cosa diranno tutti gli amici, la  famiglia, il  paese! Li immaginava davanti agli schermi. Come saranno fieri di me.

Lino in quei giorni di studio, di prove sul palco e convivenza con gli altri concorrenti, legò molto con Sandra, una concorrente. Il loro amore sbocciò pian piano, sotto gli occhi di tutta la nazione. Se la avesse incontrata per caso non l’avrebbe mai considerata, non avevano niente in comune, lui un indierocker convinto lei ascoltava pop italiano. La sua ex, una cantante di hard core, gli disse  “Se lasci il tuo gruppo per andare a umiliarti e a venderti a fattore delta, non vali niente” e si lasciarono. Ma il legame con Sandra si faceva molto forte.

Mancava un giorno all’esibizione. Era elettrico. Sandra invece era molto agitata e sconfortata. Da alcuni giorni non stava molto bene. Si svegliava con continui mal di testa e sentiva un aria strana. Aveva smesso di mangiare. Era diventata paranoica. Non dormiva e indossava sempre gli occhiali neri anche di giorno, parlava del senso della vita e del futuro, faceva discorsi strani, essere qui un giorno e poi, chissà. Poco prima della sua esibizione, Lino le si avvicinò per confortarla. Lei lo guardò con aria assente “Lo show business ti mangia vivo, Lino scappa appena puoi. Ti prego…” e poi salì sul palco. Lino un pò amareggiato, pensò che fosse un modo per dirgli che era meglio chiudere la loro storia, da qualche giorno infatti, l’assistente della sala prova le stava sempre addosso, la cercava ovunque.

Si ritirò mestamente in camerino. Qualcuno bussò alla sua porta. Era Elsa, l’aiuto-aiuto-aiuto alla regia. “cosa ci fai qui? Sandra ha finito. Credo che sarà eliminata, non vuoi andare da lei?”

Lino non disse nulla. “Ti vedo giù. Questo non va bene. Forse ho qualcosa che fa per te.” Elsa, si avvicinò a lui e iniziò ad accarezzarlo e a ripetere di stare tranquillo con voce più calda, le sue dita erano morbide come il velluto. Poi iniziò a spogliarsi. Lino era sorpreso, ma i suoi occhi così intensi avevano qualcosa di ipnotico, velati da una patina trasparente sembravano risplendere e avere vita propria. Elsa non sembrava più la stessa. Sotto i soliti abiti larghi e sciatti si nascondevano curve impensabili. Lino ammaliato,  si lasciò andare e si stesero sul divanetto. Lei lo stringeva, lo graffiava e iniziò a morderlo ovunque. Lino non aveva mai provato delle sensazioni così. Le unghie e i denti che lo trattenevano sembravano allungarsi e penetrare nella carne. Lino sentiva bruciare la sua pelle e un dolore atroce lo paralizzò. Elsa iniziò a succhiare il sangue dal collo e questo colava ovunque, sui vestiti, sul divano.  Avida, strappava la carne del torace con i denti affilati.  Lino era in un turbine di incoscienza, spaventato, non si muoveva, non credeva a ciò che sentiva e vedeva, senza  forze si trasformò in vittima e non riuscì a reagire. Perse i sensi.

Si risvegliò sul divanetto, era ancora vestito.  Si sentiva stanco. Un gran mal di testa lo fece barcollare. Iniziò ad avere  ricordi confusi e oscuri della notte prima. Ricordò alcune scene della notte sul divanetto. Elsa.  Iniziò a guardarsi in giro e a toccare il suo torace, il suo collo. Il divano, il pavimento, i suoi vestiti erano intatti.  Nessun segno sul corpo. Poi pensò a Sandra. Corse in corridoio disgustato. Iniziò a cercarla, disperato. La gente che incontrava nel corridoio lo guardava strano. La loro voce era distorta e ironica. “Lino dove vai? hai un aria cadaverica oggi…” “credo che tu abbia bisogno di un paio di occhiali.” “Questo lavoro ti distrugge, non è vero?” Trovò Elsa. Sistemava con noncuranza la telecamera nello studio. I riflettori erano spenti e sono una luce rossa d’emergenza si diffondeva lieve nella sala. La sala delle riprese con le luci spente e vuota, non sembrava poi così luccicante. Aveva qualcosa di inquietante. I posti vuoti erano occupati da ombre, queste ombre si muovevano.

“Ciao Lino” disse lei sorridendo.

“Dov’è Sandra? l’ho cercata ovunque…”

“Sandra chi, scusa…” Lino iniziò ad agitarsi.

“Lino stai tranquillo. Ma cosa è successo? hai avuto un brutto sogno?”

Lino iniziò a strattonarla “Dimmi dov’è Sandra” urlò.

Elsa lo strattonò via con forzae lo fece cadere a terra, poi la sua figura sembrò mutare. Sembrava più alta e possente. I suoi occhi brillavano dietro i manifesti di fattore delta nel buio.  “Lino, Lino…come sei irruente…lasciati anche tu risucchiare dallo show business, non vedi l’ora, io lo so. Un lavoro del genere, lo sai, richiede fatica, sudore e….sangue”.

Un ombra scese su Lino e in quel momento cadde giù il sipario sotto il rumore di alcuni applausi.

Intanto un altra alba. Un altro treno.

Il palazzo  dai vetri scuri rifletteva un cielo plumbeo,  capeggiava in alto l’insegna FATTORE DELTA, e la gente si accalcava all’entrata in attesa del grande momento.

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24
Ott
2010

L’ira

Il cane gli si avvicinò superando la tenda mossa dal vento bianca come la luce del primo pomeriggio. Era seduto composto, si girò – la bestia gli era affianco – gli occhi in quelli dell’animale. Il cane si alzò sulle zampe posteriori e divenne una donna, i capelli come il manto fulvo dell’animale che era stata; non aveva peli tranne dove chiunque si aspetterebbe di trovarli e non disse una parola. Egli si alzò, distogliendo lo sguardo da quel desiderio incarnato e in un’altra stanza prese un bicchiere colmo d’acqua. Bevve. Alla sera la donna era ancora lì, egli evitava i suoi occhi e di lì a poco la notte avvolse il tutto, sconoscendo il mondo.
La donna aveva unghie lunghe e nere, ma non erano laccate, forse gocciolavano sangue immaginario; i denti erano scuri, appuntiti come una notte gelida. Pensò che la donna volesse ucciderlo e non si capacitava che un cane fosse riuscito ad entrare da una finestra del terzo piano.
La donna-cane sembrava non respirasse. Era discreta fino alla virtù e avrebbe svolto il suo compito con la dedizione di un boia.
“E’ forse il diavolo?” si chiese mentalmente, rimanendo nell’altra stanza.
Arrivò l’alba e l’uomo si addormentò composto su una sedia nonostante la paura, senza accertarsi se la bestia fosse ancora una donna o se fosse tornata ad essere un cane: era indeciso di chi avere più timore.
Sognò una vicenda del suo passato recente, così come avrebbe voluto che andasse o forse come andò.
Conosceva i capelli e le mani, il viso e le labbra di quella donna che ancora stava nel suo salotto. La conosceva benissimo, ma non l’aveva mai vista nuda; bussò ad una porta con un battaglio con Orfeo scolpito su. Venne ad aprire una vecchia donna, vestita di bianco come la luce del primo pomeriggio. Lo condusse in una sala dove sedette su una poltrona di vimini e rifiutò da bere. Era nervoso e si accese l’ultima sigaretta di un pacchetto che aveva comprato due ore prima. Non si rese conto che era ormai vuoto.
La donna entrò. Era bellissima, con l’aria solenne e stanca di chi conosce già i termini della discussione, il tono di supplica e la dichiarazione finale: ma l’uomo non se ne avvide perché per queste cose era cieco.
Quando uscì dalla casa, mezz’ora dopo, incontrò un vecchio cane bruno, un randagio dal manto fulvo che lo guardò con la pietà del mondo e l’incomprensione del giudice che emetterà sentenza. La sua camicia era insanguinata, la stessa che aveva ancora indosso quando all’oscuro si addormentò composto sulla sedia; tentò di nasconderla chiudendosi la giacca, ma il cane, pensò, lo aveva visto e avrebbe parlato.
Scappò a casa con gli occhi dell’animale nei suoi occhi e si rinchiuse, vicino ad una tenda mossa dal vento, davanti ad un tavolo. Voleva fumare, ma era impossibile. Attendeva la visione della sua colpa.

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23
Ott
2010

“Niente non fa quasi niente”

Incerto, ti spogli di fronte a me.
E la tua voce, profonda, crea vertigini secondarie.
Voglio solo sapere l’origine dei tuoi nei.
Non c’è niente di male a lasciarsi prostituire…almeno un pò…non dico tanto.
Cosa dici?
Mi senti amorale?
Diversa vuoi dire. Non è neanche un’offesa.
Hai una luna che non vedi, che non senti e non vuoi capire.
Non si agisce più per abitudine,
anche la rotazione terrestre crea squilibri necessari,
ciò che rimane di un lungo vagare, a volte, non è che una resa.
Così tu non dici e non cerchi.

Ma dovresti chiedere di più, insultami e basta.
E rivelami i tuoi più profondi.
Per quanto mi riguarda posso anche vestirmi da cameriera.
Cosa dici? Sto giocando?
Non voglio più regali in plexiglass in cui mi costringevi anni fa e neanche cieli virginali o uterini.
Neanche le tue psicomanie che si confondevano con le mie fobie. Basta anche con le code nei cinema nell’attesa di incontrare McLuhan.
Nel silenzio delle crisi si creava una lontananza visibile solo agli altri.
Ma ora che tu,  tu,  si, dico a te, come ti chiami  pure?
Ecco, tu.
Ora che sei qui potresti anche farti conoscere un pò.
Però non parlare a lungo.  Dammi solo l’essenziale e lasciati comprare un pò.
Dici, corromperti.
In questo mondo di transazioni finanziarie non resta che stabilire solo i termini giusti di uno scambio equo e soddifacente per le parti.
Di questi giorni, di queste religioni, di questi governi, di questi effetti collaterali, perchè non facciamo soltanto una piacevole e tranquilla passeggiata sui viali.
Ma tu dici soltanto di lasciarti un altro giorno per pensare.
Sembrava tutto così perfetto. Quando ci siamo incontrati per la prima volta.
Avevamo soltanto il  nome e un ordine tutto nostro delle cose.

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21
Ott
2010

Il potere della regola.

Forse e’ finito il tempo, nobile eccesso dell’anarchia, tutore della mia anima sbattuta al fronte di guerra contro il caos.
Forse la sublimita’ e’ solamente una banale idea innalzata all’infinita potenza e creduta incredibile da chi non aspetta mai niente se non la responsabile dittatura del pensiero unico moltiplicato o clonato, distribuito generosamente da chi ne fa uso proprio per abuso di menti altrui, in pre-com(ic)a.
C’e’ che e’ cosa buona e giusta giustificare l’inappetenza per la  luce propria e la voglia di brillare per merito di un astro asfittico, ah si fa bene al buoncostume prendersi la briga di mandare al diavolo la disobbedienza così… così out.
La mia base riceve impulsi che derivano da note dissonanti, così dissonanti da considerare l’irresponabilita’ delle mie azioni come inoperose visite di cortesia da parte di una coscienza che sballa, sballa e ride e piange guardandosi intorno e dimentica che la via buona e giusta e’ quella del non pensare.
Ibrido.
Brivido.
Ignavia.
Follìa.
..Follìa?

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20
Ott
2010

nella mente di Mimì

Una stanza, un balcone due porte.
Il divano è comodo, è quello che ci vuole.
Ho visto la fine in un giorno qualunque, ecco cosa dovete andare a scrivere sulla mia lapide,
che sono morto in giorno qualunque, di un mese qualunque, e che nessuno mi ha bussato alla
porta prima. Non c’è stato un siediti, mi ha preso alle spalle, mi hanno preso alle spalle.
Che la mia lapide sia anonima,
qui si raduna troppa gente, mi tolgono l’aria, spero capiate, non parlo certo di aria vera …
e che di questi in vita ne conoscevo davvero pochi … alcuni di loro sono giornalisti, ed io,
prima di tirar le cuoia, non è che ci avessi avuto a che fare.
Personalmente li ho sempre ritenuti inutili, i più fuori luogo, completamente inadatti a
raccontare un fatto, no ovvio, non faccio un discorso politico, non ho mai creduto nella censura,
anzi, personalmente l’ho sempre ritenuta un fallimento della democrazia, no, non è che non credo
nel giornalismo, più che altro, non credo nei giornalisti. . .
prendete me, per esempio: mai che mi abbiano cagato di striscio, mai che mi siano venuti a chiedere
niente, poi, appena torno al creatore, puh ! iniziano a tirar fuori tutto. . . meta-anfetamine comprese.
E mandano in onda video che dio solo sa chi gliel’ha messi in mano. Foto come “io col pannolino”, mia madre in diretta che racconta quanto mi abbia fatto male il primo dente del giudizio, la tipa di cui non ricordo il nome, e che crede davvero di essere stata la mia prima scopata, che ne parla davanti ad un bel microfono … e magari ripensa al mio uccello e a come ce l’avevo duro allora.
Tutti si interessano a te quando ti spaccano la testa, soprattutto se è lo stato a farlo.
Come mi chiamo!? Che conta! Vorrei restare anonimo, perché è così che son morto.
Potevo esser un Cucchi, o magari un Aldrovandi o al limite un Giuliani … che importa!?
Ora vendo! Vende la mia vita, vende anche la più piccola indiscrezione, ora ho un valore economico,
da morto faccio più soldi che da vivo, le mie firme si trasformano inspiegabilmente in autografi, persino le cambiali …
Credevo che con la morte almeno la frustrazione sarebbe andata, e invece resta, con lo stesso sapore, a darmi lo stesso disgusto, lo stesso colpo allo stomaco che in vita mi dava, non cambia un cazzo da morto!
Il mondo continua ad andare, il verso è come al solito quello sbagliato, e a vedere tutta sta gente, saper che i più chiedono giustizia, non mi fa sentire meglio. Mi sputtanano in tv, mi danno del tossico! E seppure lo fossi!? Valgo forse di meno!? La mia vita è forse figlia di un dio minore!?
Bruno Vespa ricostruisce la mia vita, per poi percorrere gli ultimi istanti . . . capite!?
Bruno Vespa !!!? prima del mio caso non se ne parlava, ora invece se ne parla troppo e male, sia parla di me senza parlare della mia morte, anzi, tutto si rovescia come non dovrebbe, si finisce a sparlare, facendo salotto.
Qualcuno continua a dire che me la sono cercata, che avrei dovuto tenermi lontano dai guai . . .
che lo dicano anche alle loro figlie tornate a casa dopo uno stupro!?
Ho visto la fine in un giorno qualunque . . . era la mia vita cazzo! Ed è finita in un secchio di sputi.
Mi hanno messo mani al muro e mi hanno spezzato le ginocchia.
Mi hanno chiesto di pregare, ma non ho voluto. Allora mi hanno spezzato le mani.
Mi hanno dato del no global come se fosse un insulto, e mi hanno sprangato, fino a farmi schizzare fuori il cervello.
L’accusa era di istigazione alla violenza, e credo sia un termine giuridico che grosso modo in italiano
dovrebbe essere tradotto con, “ ero lì a manifestare, che mi facevo i cazzi miei seduto a terra quando è partita la carica delle forze dell’ordine, al ché, ho alzato le braccia, continuando a star seduto, e un istante dopo ero nella camionetta col braccio spezzato, il tizio affianco a me credo sia rimasto a terra, visto come l’hanno conciato.”
Sono morto di infarto, il mio cuore non ha retto, e questo in tv non si dice! Il celerino mi ha massacrato, la penitenziaria mi ha torturato ed, in ultimo, ucciso, e lo hanno fatto per mestiere,
badate, non perché mi odiassero poi chissà quanto, ma per mestiere.
Non basta forse questo ad una notizia!?
<< suppongo di si!>> e allora smettetela di parlare della mia vita come se fosse anche la vostra!
Voglio una lapide senza nome, con un epitaffio che per me abbia senso, <<che ne ricordi la vita. . . non la morte>>, così diceva mio padre, quella resti in coscienza, la lascio al mondo, come monito, e che non mi sia dato un volto, e che il mio volto abbia lo stesso volto degli altri, e che la protesta sia forte, e che ancor di più lo sia l’indignazione,
perché la gente deve sapere come si muore in Italia, così come deve sapere che nel 2006 Di Pietro non ha votato in favore della commissione parlamentare per le responsabilità Politiche degli eventi del G8 a Genova, insieme a Mastella! Gridate vergogna!
<< possiamo farle un’altra domanda!?>>
<<no, per oggi ho finito>>.
<< grazie della collaborazione>>
<<si figuri, ero soltanto un amico>>.
<< oh si fidi, lei non è soltanto un amico della vittima! E ammesso pure che lo fosse, lei è comunque molto più>>
<<sarebbe a dire!?>>
<< vede, lei ha un valore, e più informazioni e in grado di fornirci e più il suo valore aumenta>>
<< lei così mi lusinga!>>
<< dico solo la verità>>
<< ed è per questo che mi piacciono tanto i giornalisti, sanno sempre riconoscere il valore potenziale di un uomo
… o di una storia>>
<< giusto! Sappiamo bene anche quanto vale una storia>>
<< e sapete dare un valore alla vita!?>>
<< a dir la verità no, non che nessuno c’abbia mai provato, solo che la vita, in se, non fa notizia, quindi non vale nulla>>
<< che mestiere crudele!>>
<< già! … ma non è mica colpa mia, o nostra, sono le persone a non esserne interessate>>
<< quindi se i lettori si mostrassero interessati …>>
<< ragioni bene figliuolo, anche la vita avrebbe un valore>>
<< sarebbe meraviglioso!!>>
<< si potrebbe vendere, e non solo al Diavolo, al mercato immobiliare, o alle grandi multinazionali>>
<< anche ai giornali>>
<< è davvero uno strano modo di fare affari!>>
o vergognoso!?
<< come le dicevo lei è molto di più di un amico della vittima, di un venditore di notizie, o di un pezzo dell’ingranaggio, o magari, di un lettore!!>>
<< davvero!?>>
<< certo! Se lo ficchi bene in testa, e lo tenga sempre a mente … vede lei è la vittima!!>>
<< davvero!? Sono tutto io !?>>
<< già, ovvio, non fisicamente, ma si, è anche vittima, ed è per questo che non sa di niente,
sarà senz’altro l’uomo ideale!>>
<<per cosa!?>>
<< per tutto!>>
avrei potuto chiamarmi in mille modi, ho scelto di non averne neanche uno.
chiamatemi rabbia, miseria, rancore, dolore, violenza. . .
chiamatemi pure giustizia. . . chiamatemi come vi pare, in fondo, non sono che un pezzo di un
puzzle, da solo non servo a molto, ne rendo il quadro. . . ma provate a svuotarmi, e a riempirmi,
non sarò più io, avvicinatemi ad altri, altri senza un volto, ne un nome, fondetemi a loro. . .
a tutti quelli che soffrono soli in strada, al freddo, a tutti quelli picchiati in casa …
con tutti quelli che muoiono nel dolore, senza saperne il motivo . . .
datemi l’età che volete, e non ne avrò nemmeno una.
Diventerò più antico di mio padre, e griderò più forte.
Morti sul lavoro!? Cosa possono mai centrare con un tossicodipendente!?
ma provate per un attimo a chiamarmi Giustizia!
e ripetetelo forte, in modo ossessivo, ogni giorno, in ogni ora, di fronte ad ogni istituzione,
persino in tribunale.
vittime di mafia!? Cosa centra con uno morto in carcere!?
soltanto il silenzio ha unito il vicinato a Ferrara nel 2005.
<< quella donna era in cinta mentre manifestava a Genova, pare abbia perso il bambino, andiamo ad intervistarla!>>.<< non lo sa!?>>.<< cosa!?>>.<< del g8 non si può parlare>>,<< capisco!>>.
Io no!
provate a giocare con i titoli dei giornali, traduceteli!
barbone muore di freddo su una panchina di Milano, con, essere umano muore assiderato nel comune di Milano. Chiedetevi se è giusto, o vi siete persi anche voi!?
chiedetevi se è giusto. . .
Questa storia non parla solo di me, la mia morte non è solo mia …
perdo di vista il concetto.
mi perdo.
c’è una radio, un pezzo degli Stones, l’ascensore continua a salire.
non sento più nessuno. Sono solo. Attendo la mia fermata.
il tempo passa, l’ascensore finisce i piani, ma continua a salire, attraversa il tetto, la città e li,
sdraiata sotto di me.
Sono sorpreso. Non capita tutti i giorni di attraversare il cielo a bordo di un ascensore.
guardo i pulsanti, li premo tutti, l’apparecchio fa un rumore strano, va in tilt.
Ecco. . . raggiungo i duemila metri e non posso fermarmi, continuo a salire.
<< si paziente!>>
<<tu chi sei!?>>
<< non importa, ora goditi il panorama>>.
<< dove sei!?>>
<< ovunque tu voglia, potrei essere dentro il gabbiotto, ma anche fuori>>
<< … potrei essere sotto di te, o anche sopra>>.
<< …>>
potrei esserti dentro…
<< o anche avanti, o dietro!>>
<< ma che cazzo mi sta succedendo!? Di un po’! son morto!?>>
<< no, caro, non sei morto!>>
<<allora sto dormendo!? Che sia in coma!?>>
<< capisco che tu ti senta spaesato, capita a molti …>>
<< ma da dove mi parli!?>>
<< non sei mai stato così lontano da te stesso!?>>
<< non capisco!>>
<<vuoi che io abbia una forma!?>>
<< puoi averne una!?>>
<<solo se tu lo vuoi!>>
<<lo voglio!>>
qualcosa mi prende da dietro, sento il suo tocco, il suo tatto, si spinge in avanti, vedo il viso.
<< eccomi! Sai dirmi se è cambiato qualcosa!?>>
<< una donna nuda in ascensore a due ore dalla luna, non passa certo inosservata sai!>>
<< ma non sono una donna!>>
<< e cosa sei!?>>
<< è complicato>>
<< dove siamo!?>>
<< in un ascensore!>>
<< lo vedo>>,<< no! ti sbagli, tu credi di vedere ma in realtà, non puoi, non ancora almeno>>
<< se volessi potrei forse riuscire a vedere!?>>
<< ho paura che questa volta solo volerlo non basti>>
<< non capisco, dove sono!? e che ci faccio qui!?>>
<< puoi avermi, se vuoi, e se entrerai in me, vedrai anche tu quello che vedo io, e forse ti sarà più facile capire>>, << mi stai chiedendo di scoparti forse!?>>,<< no, è un modo come un altro, una possibilità, ce ne sono tante>>
<< si ma, così informale, in un posto così innaturale, senza neanche uno stimolo, dà l’idea di una visita medica>>
<< fidati, non lo sarà, ma questo soltanto se lo vorrai, se lo desidererai veramente, entrare in me, sarà una nuova nascita, sarà un compleanno, un venire al mondo, il tuo compleanno, una rivoluzione indispensabile
per procedere oltre, ho il compito di seguirti, ho il compito di mostrarti. Ti aspettavo da una vita, e la vita qui, è lunga e noiosa, ma adesso no, ora è diverso, tu ed io, insieme, tutt’uno, e non avrai un noi, non ci sarà una semplice composizione, un tu ed io, insieme, no, queste sono banalità, si parla di somme, uno più uno fa sempre due>>
<< e allora cosa!? Non ti seguo, non capisco!>>
<< uno più uno, sta notte, e per l’eternità farà uno. Soltanto per te, soltanto con me>
<< mi stai forse dicendo, che dopo, non ci sarà più né un tu né un noi>>
<< si ma non solo>>
<< ed io sarò sempre io!?>>
<< mi dispiace, credo che questo non sia possibile; per quello vanno bene tutte, una donna qualunque potrebbe darti una cosa così, non sarebbe stato allora necessario arrivare quassù e scomodare l’Arte>>.
<< quindi cambierò …>>
<< se questo ti spaventa, perché mi hai cercato!?>>
<< io non ti ho cercato!!!>>
<< e invece lo hai fatto, e ora sei qui, e devi scegliere, di occasioni ne verranno altre, o forse no, non pensarci ora>>
<< …>>
<< chiediti solo se lo vuoi, solo questo, vuoi!? Io sono pronta, non vedi i miei seni, non vedi come sono bagnata!? Non senti i miei umori, sono pronta !!>>
<< li sento eccome, la voglia è tanta>>
<< allora fottimi con amore!>>
<< non so se sono in grado>>
<< prova!! Lo sento duro, lo sento pulsare, é bastato toccarlo, ecco ! vedi!? Così …>>
<< vedo … >>
<< ora lo metto dentro, fai piano, così . . . ecco, mi senti!? Chiudi gli occhi …>>
<< ti sento, qui fa caldo, scivolo … scompaio. . . mi perdo …>>. A queste altezze, nel mezzo della notte ne capitano di cose strane. L’ascensore è andato, le sono dentro, l’ascensore cade, continuo a restarle dentro,
il cielo si apre, le nuvole collassano le une sulle altre, continuo a muovermi, mi stringo forte, continuo a tenere gli occhi chiusi, vedo qualcosa …
una stanza!? Altre porte . . . dove sono!?
<< la stanza dell’inferno è un luogo insolito per fare conoscenza!>>
< chi parla!?>>
<< eppure siamo qui, io e te, e tu hai voglia di provare un nuovo gioco, e partecipare ad un altro massacro>>
<<… >>
<< magari l’ultimo!? Vero!?>>
godo, continuo a godere, che stia ancora nell’ascensore!? Che non me ne renda conto!?
“tranquillo, tieni gli occhi chiusi”.
<< e adesso baciami se vuoi oppure mordimi, stringimi, spingi, e leccami, non avrai che questo! Qui non c’è pace. . . siamo all’inferno, è un luogo insolito per fare conoscenza>>
<< o per cercare amore! Capisco …>>
<<ecco, bravo! Ora vieni! So che lo vuoi, desideralo, vieni!>>.
qualcosa mi tira la pelle, apro gli occhi. Un guanto mi afferra per il collo, una mano di lattice non è il massimo del contatto, ma va bene. Non capisco. Cresco e decresco, chi sono loro!?
li guardo, li fisso, non ne vedo le facce, la donna sdraiata sul lettone dovrebbe essere mia madre, ma non le assomiglia poi molto. Tutto sembra accartocciarsi, come un foglio di carta.
lo spazio il tempo, non hanno poi molto senso, non contano nulla.
reazioni, questione di attimi, pensieri, flussi migratori, si muovono in branco, per poi sfrecciare, dividersi,
scomporsi … sono troppi per poterli contare, come tante biglie, un vaso rotto, uno spazio. . .
è infinito, lo spazio si fa sfera, poi si allunga, cambia è un ellisse, continua la trasformazione, non si ferma,
è inarrestabile, lo spazio … continua a distorcersi, l’ellisse si fa retta. Ecco la mia vita è in quella retta, l’intero universo è in quella retta, ma è anche una sfera.
in ogni tratto, un mio momento, una stanza di vita, in mezzo a tante, tanti momenti, momenti d’altri, momenti che non appartengono a nessuno, li vedo tutti contemporaneamente, stanze sempre più affollate, e tanta gente, non solo volti, né facce, ripercorri tutti loro, e di tutti loro sai tutto, non ci vuole che uno sguardo, e ritorni a te, e ti senti in mezzo a loro e li vivi tutti contemporaneamente.
<<questo è un posto davvero molto strano, sei forse tu!?>>
<< stai venendo!?>>
<< non lo senti>>
<< certo, certo che lo sento, si, sto venendo anch’io>>.
L’ascensore si riapre, un corridoio dannatamente stretto, un Vivaldi accompagna i miei passi, sono vestito da cameriere, la cravatta mi stringe il collo, cammino, muovo i passi, perdo fiato.
lo cerco, e nel farlo inciampo. Cado in terra, mi guardo intorno, non c’è nessuno.
Mi rialzo piano, seguo  l’odore di nafta, è fetido. Una porta, la apro.
la stanza in cui mi trovo da l’idea di un posto dove si gioca forte, tutto chiama soldi.
Dalla stanza si passa ad un salotto, si gioca a poker, la posta è alta.
tanti piccoli tavoli intorno, vado avanti, la stanza è molto profonda, c’è una zona riservata,
in cui non entrano tutti.
<< gradirebbe qualcosa da bere!?>>
<< un whisky grazie>>
<< con permesso>>
<< scusi! Saprebbe dirmi dove mi trovo!?>>
<< non so se potrei, se non lo sa lei …>>
<<è che proprio non mi riesco a raccapezzare, è tutto così strano per me!>>
<< guardi, posso dirle solo questo: qui la posta è alta, se non è convinto è meglio che vada!>>
<< Caterina non fare attendere il cliente, vada su! Si muova!>>
che strano ometto, sembra conti qualcosa qui, mi volto, tutti a capo chino, tutti fermi.
<< se vuole accomodarsi l’accompagno al tavolo>>
<< grazie, ma almeno lei, sa dirmi dove siamo!?>>
<<”qui” è un concetto superato, non c’è un dove, né un quando, e se devo essere sincero, non
ho mai capito il perché dei così pochi ospiti, visto che è luogo facilmente accessibile, pur non trovandosi da nessuna parte!>>
<< ma è per caso l’aldilà>>.<< ah ah ah ah ah, lei è un ospite davvero simpatico!>>
<< non capisco! lei chi è!? È forse dio!? Il diavolo!? Oppure non so . . . >>
<< Dio!? Diavolo, non  ne ho mai sentito parlare>>
<< quindi chi sei!?>>
<< uno dei tanti, ma per te oggi sono il tuo giocatore>>
<< a cosa giochiamo!?>>
<< a poker >>
<< ecco il tavolo, le presento  Cinzia, il nostro croupier, bella donna vero!?>>
<< può dirlo forte …>>
<< allora avanti, glie lo dica!?>>
<< cosa!?>>, <<come cosa! su avanti, non faccia il bambino, che cosa aspetta!?>>
<< Cinzia lei è davvero una splendida donna>>
<< grazie>>
<<si figuri, comunque scusi, ma mi stavo chiedendo, si insomma, non vedo le fiches!?>>
<< non si preoccupi, qui non  si giocano soldi, ma pensieri, al massimo ricordi!>>
<< e a cosa mi servirebbe giocarmi un pensiero, perderlo, acquisirlo, non vedo, non capisco il …>>
<< il perché è molto facile, lei non da il giusto peso ai pensieri, alle esperienze, ai ricordi>>
<<  se vuole giochiamo>>
<<se lei vince, signore, i miei pensieri passeranno a lei come se le fossero sempre appartenuti>>
<< e cosa ci guadagno!?>>
<< c’è forse un prezzo ai pensieri della morte!?>>
<< suppongo di no>>
<< allora avanti, Cinzia, dia carte>>.
la cameriera di prima, Caterina, è in piedi, dietro di me, mi lascia il whisky sul tavolo.
Bevo.
il croupier da cinque carte, si gioca all’italiana, all’apertura ho puntato la mia maturità, l’ometto
dice di mettere sul tavolo l’intero rinascimento .. .che stia volando basso!?
guardo le carte ho una coppia di quattro, potrei tentare il colore di picche, ne ho tre, ne mancano due.
la morte si guarda le carte, poi mi fissa, poi controlla, ne cambia tre, aspetto che le guardi sperando si tradisca in qualche gesto, ma niente, è  impassibile. Ferma.
Ne cambio due. La morte va pesante, punta il primo omicidio della storia umana.
Inizio ad esserne interessato, voglio sapere, mi sento curioso, il primo omicidio, essere li, in quel momento,
cosa darei, voglio sapere, voglio vederlo, viverlo, chissà che faccia aveva il primo uomo.
<< cambio due carte>> , << a lei!>>,<<grazie>>…
niente colore, scopro lentamente, tris di quattro!!! Ma che dico poker!!!
Ci punto la comunione. Mi dicono che non basta. Allora butto nel mucchio anche la terza media. Continua a non bastare. Bene, allora ci butto tutto; l’università, la mia prima sega, il liceo, la mia prima scopata , la rissa alla stazione degli autobus, il terremoto,  si insomma tutti i miei ventisei anni di vita, di merda!
Mi guarda sorridendo.
<< può darsi che io perda>> mi dice. . .
Scopre le carte, sul tavolo, poker di cinque, << ma non oggi, io vinco, lei perde tutto>>
Il whisky sale in testa, cado dalla sedia, svengo, il pavimento a poco a poco, lo sento sempre più fluido,
vengo risucchiato, un tombino aperto, una strada scarsamente illuminata, cado in quel tombino, scivolo nelle fogne.
Lei è accanto a me, mi carezza, mi bacia, sembra ancora più bella di quando eravamo su, in quell’ascensore.
siamo nudi, e sporchi, puzzo di nafta mista a merda, intorno niente, solo la fogna, e qualche residuo di spazzatura, lei apre gli occhi.
<< alla fine sei venuto, come ti senti!?>>,<< non lo so>>.
è un inizio vero!?, suppongo sia così!?<< sai dove siamo!?>>,<< al mondo>>.
<<vuoi andare!?>>, << non ora, restiamo qui, ancora un po’>>.
<<si sta bene vero!?>>
già.
Le fogne sono un luogo come un altro. Poggio la schiena, chiudo gli occhi.
La luce, la luce filtra, la finestra è aperta, ottobre porta il gelo, e te lo porta in casa. Dovrei chiudere quella dannata finestra, dovrei ma non so, adesso.
Apro gli occhi, un divano, ecco dove poggio il culo su di  un divano, il mio.
È casa mia, intorno gente, è la mia festa di laurea, devo aver esagerato di nuovo con i miei vizi.
Riccardo mi guarda, non riesce a parlare, ha gli occhi che parlano per lui, è fuori!
<<Ciccio tutto ok!?>>
<< tutto ok capo! >>, << hai collassato come un idiota sul divano>>, <<già, sono a pezzi!>>,<< hai sentito del tizio che hanno picchiato gli sbirri!? Ne parlavano al telegiornale>>, <<non lo so, ero sfatto, stavo fuori>>,
< ma ora  tutto bene!?>>,<< si, capo, ora tutto bene!>>
<< Da domani si cerca lavoro!>>
<< non mi ci far pensare>>
<< sai, qualcuno dice che è come venire al mondo per la seconda volta>>,
<< non credo sia proprio così>>,
<< e perché!?>>, << perché perderlo vorrebbe dire . . .>>
<< capisco …>>
<< come capisco!? Capo!? Sicuro che … >>
<<siamo in un altro ricordo vero!?>>
<< questo è già avvenuto!!!>>
<< e piantala Ciccio, era solo un lavoro, non senti che dicono in tv? devi reinventarti ! infondo  non sei morto, ed hai ancora cinquant’anni, riuscirai a ricollocarti, troverai la strada, ne sono certo!>> ,<< non ancora vuoi dire>> ,<< Cosa non ancora!?>>, <<non ancora morto volevi dire!>>.<< pensa a come ricollocarti>>,<<…>>

<< allora!?>>,  non so…

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19
Ott
2010

a me di lei

D’accordo. Ci siamo. La penna? Eccola, eccola qua: una bella penna nera: ci sto scrivendo proprio ora, vedi che solchi? La adoro. Il foglio, il foglio sta sotto, perfettamente bianco, una piega là, in fondo, la vedete? Marchio di qualità. Ottimo. Io? Io ci sono, ma eccomi, un bel pezzo di ragazzone di 60 chili per un metro e quasi novanta, se non fosse che sto scrivendo pensereste che sono morto, di fame; che un morto di fame poi in fin dei conti lo sono anche.
Bene. La matita l’ho temperata e sta lì bella appuntita, in riga in alto al foglio, ma non mi serve; comunque mi dà una certa sicurezza.
Mi accendo una paglia e vi spiego tutto.
Ok.
Ci sono.
Allora. Voglio creare l’atmosfera per parlarvi di una certa storia di cui forse poco m’importa, ma chissà, è che mi si sta scrivendo da sè nel cervello e in qualche modo dovrò pur sbarazzarmene; e vado convincendomi che sia proprio lei, una stronza parassita che entra anche nella testa più insensibile, e a maggior ragione nella più insensibile, per costringerla al rigetto, ed all’inevitabile contagio. Racconta la sua storia attraverso di me, quella stronza; la racconta a voi che mai ci parlereste, stupra la mia intelligenza per partorire la sua immagine. Ora, io cercherò di essere il più conciso possibile, evitando tutti i particolari futili e i paroloni ottocenteschi, o le gag da futurismo; per togliermi da quest’impiccio il prima possibile e tornare a crucciarmi dei meritati cazzi miei.

Un giorno che non ricordo, forse oggi, del mese in cui siamo ora che a giudicare dalle foglie direi, ottobre o giù di lì;  a un’ora poco importante del primo pomeriggio lei chiuse lo zainetto con un’aria tra il nervoso e il rassegnato, quella che in gergo è detta aria da sfigata, fissò pensierosa l’orologio a schermo della tv e dopo qualche calcolo paranoico si lasciò la casa alle spalle spingendo sui pedali della bici, che aveva detto che doveva gonfiare la ruota l’ultima volta che ci siamo visti, una settimana fa, e se l’era scritto anche  sul braccio, e ovviamente ora pedalava a stento con questa ruota a terra, direzionata verso il negozio, o il centro, o chissà. Però c’era un bel sole, e allora lei prese un pò d’animo, e pensò che in fondo non sembrava una donna gestante un feto di elio e che magari quei suoi dannati capelli quadrati in testa e del colore sbagliato non erano così quadrati e quella tinta così scura sul suo viso color cadavere non stava poi così male, e magari le sue cosce non erano grosse quanto quelle delle ciccione con la cellulite che vedi in spiaggia e dici, madonna. Lei lo sapeva che non c’ero; sapeva che non c’ero anche quando dovevo esserci, figuriamoci se credeva che ci fossi oggi. In un certo modo, lei riusciva a sentirmi, e io sentivo questa cosa, e facevo finta di niente, perchè io a lei prima e dopo quei 40 minuti in cui la sentivo stare zitta non ci pensavo mai, e quindi anche se avrei potuto saperlo, che c’era, avevo altri cazzi per la testa, io, che essere il suo scrupolo di coscienza. E quindi attraversò tutta la pista ciclabile, tra quegli strani castagni di cui non conosceva il nome, dalle foglie così lunghe color arancio, e giallo, e marrone, e tutti i loro frutti così simili alle castagne, ma più scuri, con quei gusci che le ricordavano un episodio di Dragon Ball, tutti spappolati per terra, mentre cercava di evitarli; come tutti quegli strobili dell’abete vicino alla sua facoltà, che l’altra mattina l’avevano affascinata tanto, uno strano tappeto di piccoli embrioni color senape dorata che impreziosiva l’asfalto alla luce fredda del sole d’autunno, e allora ci aveva camminato sopra, e li aveva sentiti così soffici, e intanto si sentiva così in colpa, ma quando il giorno dopo, che forse era quella mattina stessa, ripassando, aveva trovato solo una grande schiacciatina gialla a sporcare il catrame, si era detta che in fondo lo sapeva, e aveva pensato, chissà se la gente si rende conto di fare manovra sullo sperma. Non aveva la testa troppo a posto, lei.
Comunque sia, parcheggiò la bicicletta vicino a un negozietto inutile in cui doveva effettivamente comprare qualcosa ma non era così urgente, così per tutto il tempo intanto pensò solo ed esclusivamente al pacchetto di sigarette che aveva messo nello zaino quella mattina, e uscita dal negozio, tra l’analisi di una faccia e quella di una scarpa, e quella di una busta fashion, aveva tirato dritto fino alle colonne, il solito stupido porticato, che già sapeva vuoto di gente di passaggio, così come in effetti era, e allora percorrendolo guardò la vetrina come se potesse davvero essere interessante la vetrina di una banca, con quegli enormi cartelloni striati di giallo su cui troneggiavano dei grossi numeri di telefono e tasso d’interesse. Altri giorni si era sistemata i capelli nelle vetrine di Pimkie e della Benetton, e si era sentita anche abbastanza cretina, così si era detta ma smettila, cosa vuoi che gliene importi di come sei, però nel mentre mendicava qualche sguardo di consenso negli ultimi passanti che incrociava prima di vedermi.
Così, questo giorno, cioè forse oggi, trattenne il respiro prima di arrivare al porticato, così da non sentire il colpo quando le sue ineccepibili previsioni non sarebbero state eccepite, e ammirando la convenienza di una banca che ora non saprebbe neanche dire quale fosse, finse di non vedere che quel gradino di marmo era insolitamente vuoto, che non c’era più la cenere di sigaretta che restava lì ogni giorno e che la polvere stava iniziando a riformarsi esattamente euguale a quella che sbiadivia gli altri gradini. Non che lei avesse passato intere ore di attesa ad osservare questa minuzia di dettagli, nei giorni precedenti, nelle precedenti settimane.
Tirò dritto in quest’apnea emotiva fino alla piazzetta solita, dove fu attratta dal miraggio di una bella panchina vuota nella metà civile della piazza, quella con vista edicola e telo che copre la Ghirlandina, così da non doversi arrischiare in quella buia in cui non aveva mai capito perchè si relegavano tutti gli stranieri a sfamare loro stessi o i piccioni o i peggio tamarri a insultare loro stessi o gli altri, attorniati dai piccioni.  Sta di fatto che affrettò il passo prendendo pieno possesso della seduta con un repentino poggiare il culo nel mezzo e tirar su lo zaino accanto a sè, zaino da cui stava prelevando, nel modo più sobrio che la sue disfunzioni psicomotorie le permettevano, una sigaretta: che era già da cinque minuti che aveva smesso di pensarci, e doveva compensare, una volta che ce le aveva, e le poteva pure fumare; e così automaticamente l’estrazione della sigaretta suonò uno “scusami”, e in un attimo si ritrovò davanti il solito tossico, che faceva le medie con me, di cui avevamo anche parlato l’ulitma volta, mi pare, o ne ho parlato con qualcun altro? Bah comunque, il solito tossico che le disse, mi dai una sigaretta? E lei gli rispose con la faccia sfottente, oh ciao, ancora tu! E lui rimase un pò intontito, come se si fosse trovato davanti a un palo parlante e si stesse domandando se era ancora fatto o se doveva ancora farsi. Poi quell’ultima sinapsi riuscì a dare un pizzico al cervello, al che lo sguardo spento fu attraversato da un attimo di coscienza e si ricordò, così lei gli chiese di me mentre gli accendeva la sigaretta, lui ci mise un pò per ricordarsi anche di me, che non si può prentendere tanto da un tossico dipendente cazzo solo in cinque minuti!, e poi gli disse che no, non mi aveva visto, magari ero tornato a casa, ma era la mia ragazza?, ma le piacevo?, vabbè se mi vedeva me lo diceva che mi cercava, non ti disperare le disse, andando via col suo giornalino di Tex sottobraccio, pensando già ad altro, o forse a nulla, mentre lei di spalle gli urlava un non mi dispero mica. Si sedette all’altra estremità della panchina una cinese sulla cinquantina. Vedendo un vecchio ondeggiare incerto alle sue spalle, lei rinunciò al territorio e buttò giù lo zaino, rintanandosi in un angolo e facendo un ampio cenno di accoglienza con la mano libera. L’uomo indugiò, domandò, si sedette, commentò, la cinese si limitò a un sorriso compiacente da non ho palesemente capito nulla e guardare altrove, lei guardava la parte oscura della piazza ma continuava a dargli risposte secche con una certa cortesia, così che lui, invogliato dalla gentilezza e dalla solitudine, ma frenato dalla perduta fantasia, tirava avanti questa improbabile conversazione a singhiozzi.  La cinese rispose al cellulare e poi si allontanò. Man mano che la sigaretta si consumava, il vecchio incalzava, con una leggera ansia, le domande tipiche da vecchio, con una ridondaza di argomenti e di parole che si perdevano le une nelle altre, mentre lei osservava con attenzione il tizzone della sigaretta e stizzava di continuo. Un altro vecchio arrivò già parlando, che non l’aveva mica visto che era qui, si sedette e continuò un discorso mai cominciato. Lei, sollevata, spense con dedizione la sigaretta su un sanpietrino, si alzò col suo bel mozzicone in mano, salutò e iniziò una dignitosa invisibile ritirata che aveva come prima tappa dal sapore ecologistico il bidone della spazzatura, dove si imbattè in un terzo vecchio storpio che, ancora a un buon paio di metri dalla panchina, esordiva in un inascoltato “ma due chiacchiere me le faccio và” claudicando verso i colleghi. Lei si allontanò con le mani in tasca e il vomito in gola, sulle labbra un sorriso leggero e un sapore di tabacco e catrame che continuava ad accarezzare con la lingua, in uno dei tic sobri con cui ultimamente aveva sostituito la sua sindrome di Tourette.
Lei lo sa che io non ci sarò, ma continuerà ad aspettarmi. Non è che sia brutta, o antipatica, o apprensiva. Per carità, tanto buona, tanto carina, tanto cordiale, o magari no, magari il contrario; o magari quello che volete. Non è che mi piaccia farla stare male o non mi piaccia vederla soffrire. Non capisco perchè cercare una soluzione più complicata e profonda del semplice fatto che a me, di lei, non me ne frega niente.

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19
Ott
2010

La virgola ha delle ragioni che il punto non conosce.

Ho provato a parlarti, ma tu usi la punteggiatura come una persona normale, per questo, non ci siamo mai capiti.
Io dimenticavo le virgole.
Un giorno mi hai fatto vedere un libro, “Cosa ci vedi?” mi hai detto.
Ti ho risposto solo di aver notato degli errori di battitura tra un capoverso ed un altro.
Tu, con lo sguardo superiore ma infantile, mi hai risposto “ma come? non lo noti? non ci sono le virgole, come piace a te”.

Poi sei andato via. Punto.

Da quel giorno, ho iniziato a odiare tutte le cose che riguardavano te: il calcio, lo sport, il lunedì, le vacanze, il telefono, la mia stanza, i tuoi regali inutili, il calendario, il letto,
l’amore, la fedeltà, i preservativi no, quelli scadono nel 2014, l’allergia ai funghi, e quel libro senza virgole.
Da quel giorno io le virgole, semplicemente le adoro. Ho inizato a riempire liste di cose da fare, quaderni di virgole e cose, virgole e nomi. Liste di cose che ho perso.
Le ho messe ovunque. Al lavoro, a casa, nel risotto, nelle canzoni, nel letto, nel latte, nel lettore mp3, nel bus, nel tuc, nel pus, nel tum pa-pà.
Le ho così idealizzate che sono diventate un ossessione.
Ho iniziato a parlare con loro e alla fine gli ho dato una forma. Un viso, un naso, due occhi e un corpo…e che corpo.
Dopo averla creata e averci parlato, io quella virgola, ne ero così fortemente attratta che me la sono fatta.
Poi siamo andate a prendere un caffè al bar sotto casa. Ha offerto lei.
Gli ho detto che mi spiaceva, che è stato un errore.
In generale, sottovalutavo le virgole. E’stata male un millessimo di secondo, poi come se niente fosse mi ha salutata.

Poi sei andato via. Punto. Anzi, virgola.

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17
Ott
2010

coodividila

Sono giorni e giorni che lascio ditate sul vetro della bolla che ti ho costruito intorno è un po’ che non ci alito più contro ti mostro il culo ma tu guardi sempre giù da quando ho iniziato a non guardarti.

Sono tutti uguali non tento neanche più di costruirmi una maschera non ne vedo l’utilità a cosa mi servirebbe tanto mi sento davvero io personaggio a colori in un film in bianco e nero come alle feste quando non conosco nessuno mi sembrano quasi tutti un po’ scemi che rido impacciata complimentandomi del buffet ma non mi sento in imbarazzo è inevitabile mi viene spontaneo cavolo è che ormai è automatico però se potessi osservarmi dal soffitto mentre ho quella risatina nervosetta così ridicola direi cioè ma ti sei vista sfigata che idiota penso che se ci fossi tu sarebbe tutto più semplice mi sentirei leggera vezzosa anche forse un po’ invidiata allora si che sarebbe festa ma alla fine non me ne frega niente sono fatta così anche con gli altri ragazzi tipo quella volta che davo la colpa alla vodka ma io non mi sentivo ubriaca dio se stavo bene giuro stavo davvero per farlo ma ero troppo impegnata a ripetermi io queste cose non le faccio e continuavo a vedere tante persone che mi guardavano e mi fissavano li immaginavo seriamente e con calma a dire ad alta voce e senza nessuna espressione in faccia che certe cose non le avrebbero mai fatte è inquietante a pensarci forse non sto troppo bene ultimamente è possibile che a certe cose penso solo io cioè ma se tutto fosse invenzione dell’uomo se fossi nata da sola in preda all’istinto senza nient’altro vaffanculo senza il buoncostume e i preconcetti la religione che ne so senza tutti i ruoli già stabiliti esisterebbero l’affetto, l’amicizia, l’amore che poi qual è la loro definizione non sono tutti sentimenti come si fa a dire che uno è migliore di un altro e tutto quello che c’è in mezzo dove lo metti o chiaro o scuro che odio quelle cretine quando mi chiedono ma siete solo amici o c’è qualcosa di più qualcosa di più solo perché è un maschio ma se si trattasse di una donna quale sarebbe il limite minimo per sospettare che io sia lesbica o qualcos’altro di strano siete stupide meglio chiamarla voglia di scopare a questo punto e pure se fosse vorrei tornare a quando avevo tredici anni per tipo toccarmi e non sentire quel lontano senso di colpa di tristezza sentirmi bene sul serio quando non conoscevo nulla del mondo allora si che avrei potuto amare già innamorarmi forse anche prima di incontrarti tu non immagini quanto mi piaci continuo a ripetermelo e più ci penso più ne ho paura forse significa proprio questo amore oh ma cristo basta mi faccio troppe paranoie.

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15
Ott
2010

le lunghe attese di Anita Grey

Dando un primo sguardo alla sua vita e alla sua casa, di lei si sarebbe potuto dire forse solamente che si trattava di una persona molto sola – volendo essere completamente onesti, di una persona in cui la solitudine aveva scavato la dignità fino a raggiungere il patetico.
Luciana era una donna di mezz’età; se per mezz’età si vuol intendere un’età indefinita in cui non si è più abbastanza giovani da prendere la vita di petto ed aspettarsi qualche opportunità dal cielo, ma nemmeno si è ancora tanto vecchi da potersi lasciar schiacciare dalla vita inveendo contro la novità e pretendendo qualche piccola opportunità di vanagloria dagli altri.
Era una donna bassina, dalle forme un pò piene vanificate sotto vestiti di cotone informi, infeltriti su gomiti e ginocchia; a coronare il ritratto anonimo c’era un caschetto biondo cenere di capelli crespi che, ricadendo anche sulle palpebre, la portavano a stringere e spalancare i suoi piccoli occhi ritmicamente, come se si stesse sforzando di capire qualcosa per cui fingere interesse.
La sua dimora era di un banale color bistro, con dei geranei rugginosi alle finestre nei giorni più caldi; e se ne stava, sola tra mille simili, a scolorire accanto al panificio di quartiere. Le pareti delle stanze erano impregnate dell’odore di fiori appassiti e naftalina, per quanto quel donnino fosse sempre indaffarato a strofinare le mensole con l’ammoniaca e arieggiare le camere due volte al dì. Quella pulizia asettica aveva invece l’effetto di rendere l’ambiente ancora meno ospitale, o per meglio dire più impersonale e “immobile”, come se ogni oggetto e ogni molecola dell’aria fossero congelate nella loro posizione da un tempo indefinibile. Così che, quando qualcuno malauguratamente si trovava ad entrare e accomodarsi in salotto, aveva sempre la sensazione di essere fuori luogo, e continuava a rigirarsi sulla poltroncina di velluto come se fosse fatta di spine, e non vedeva l’ora di infilare l’uscita e andare a far due chiacchiere al bar con chicchessia, per scrollarsi di dosso la pesantezza di quella prigione del tempo, che tanta tristezza pareva piangere da ogni tinta, ogni oggetto, ogni porta di legno pesante.
Luciana teneva le unghie tagliate corte e smaltate di rosso, e da ventitrè anni usava sempre lo stesso profumo dozzinale, dolce fino allo stucchevole. Quel giorno era molto nervosa e si storceva le mani l’una nell’altra, guizzando avanti e indietro ora nel bagno, ora nella camera, ora nel salotto, come per riassettare, o prendere qualcosa, o spazzar via un velo di polvere con la manica; e poi tornava allo specchio, e faceva per prendere la spazzola, o ripassarsi il rimmel, e si guardava con un barlume di speranza che si soffocava all’istante nello sguardo morto dell’impersonalità. Senza un metro di paragone, possiamo veramente dire di essere belli, o di stare bene? Così nella sua solitudine aveva solo il nulla, con cui misurarsi; e con cui trovare impietosamente e docilmente mille punti di incontro. Ma Luciana non era una filosofa; Luciana aveva sì e no la terza media, e di queste cose neppure se ne avvedeva, e l’angoscia che le agitavano dentro nemmeno la sapeva angoscia, e si domandava cosa le prendesse, e tutt’al più come risposta metteva sul fuoco una camomilla.
In quel periodo in realtà Luciana sentiva più che mai il bisogno di scambiare anche solo due parole, di sentirsi parte di un qualche mondo, non tanto per una questione affettiva quanto per un desiderio disperato di normalità che attanagliava la sua piccola persona.
Finalmente si decise a prendere la borsa, quella di pelle marrone, che su quei vestiti faceva l’effetto della madre che corre in fretta e furia al mercato prima di prepararsi per andare a lavoro, e non bada di avere addosso quella che sembrerebbe più una tuta da jogging che una mise da passeggio.
Sta di fatto che era sabato, giorno libero, e lei stava programmando questa uscita da due o tre giorni. Aveva visto, tornando dall’ufficio, dei ragazzini che fermavano la gente per parlare di libri (si era avvicinata per sentire che fosse), ma siccome lei passava sempre di gran corriera dall’altro lato della strada, non l’avevano mai notata, e quindi non le avevano rivolto quelle tanto agognate parole di attenzione, che pure in quei momenti non avrebbe potuto ascoltare. Ma oggi, sarebbe capitata lì con aria sfaccendata, e loro l’avrebbero subito imbeccata, e fatto con lei il loro sfoggio di cordialità e di scadenti battute di comodo.
Quando arrivò sotto il porticato, però, c’era solo un gruppo rado di gente che cincischiava tra le vetrine dei pochi negozi aperti. Si guardò intorno, delusa e preoccupata, fece qualche altro passo, giocherellò con degli spicci che aveva in tasca, fingendo di guardare qualche cosa per terra o vicino alla chiesa, tornò inietro, sollevò gli occhi su un paio di facce dure e qualche espressione briosa da ragazzino o donna sbarazzina; questa indifferenza le riabbassò gli occhi sulle sue vecchie scarpe di cuoio, che torceva come a spegnere una cicca sul marciapiede. Poi prese un pò d’animo e si voltò di scatto, ritornando verso il suo vicolo a passo svelto.
Io, seduta sotto il portico, la osservai per tutto il tempo; e non ci misi molto ad immaginarmi la sua storia.

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