31
Ott
2011

Resti la mia guerra persa

Gentile signora,
le comunico con la presente che il vecchio Andò le ha lasciato un messaggio, accuratamente sigillato, in una busta postale. Nessuno (a parte me) sa’ cosa contenga.
In fronte reca il suo nome, Vittoria.
Martino era allora cieco, dovette dettarmela personalmente quattro anni fa’, fui io stessa a scriverla e a conservarla.
Ora che è morto, seppur convinta non fosse sua ultima intenzione farvela recapitare, eccola qui allegata.
Spero vorrà perdonarmi se m’arrogo un diritto che non mi spetta.
Il suo fu un dolore riservato.
Con affetto
La direttrice

                                                                                                                          Sarah Maria Bronner

 

Malinconia, ecco cosa provo!
Siedo stanco su di una roccia scomoda, il passato, e sono quattro giorni che le nubi coprono il sole. Caduta la pioggia, anche il cortile è diventato impraticabile, costretto al mio respiratore su di una sedia che non smetto d’odiare, tutto ciò che posso fare ora è guardare fuori queste infinite pozze d’acqua mitragliate dall’alto e pensare…
So che sai di cosa sto parlando, quindi frenerò la lingua, e morderò le labbra nel caso il di più dovesse far sue le mie parole.
Una serie di azioni, un insieme di movimenti articolati, asincronici, pur tuttavia interconnessi tra loro. Emozioni e pensieri, desideri e bisogni, consigli, riserbo, e volere, volere a venderne, sappi che in questo teatrino non c’eravamo solo noi. E avrei voluto maledire ogni mia paura, ma c’erano anche le tue, sarebbe quindi stato del tutto inutile.
Andavo via quel giorno, ricordo ancora il giornalaio alla stazione dei tram di Catania, andavo solo, era quel che volevo, niente di personale, colpa di nessuno, ero giovane, e da uomo chiedevo al mondo un’opportunità, dimostrare a me stesso di meritarmi il “lei”, ed oggi, da pessimo matematico, dubito ancora del risultato, senza perdere tempo e forze in inutili riesami.
Ho visto Milano, vissuto a Torino, poi Berlino, per tre anni minatore, finché non conobbi un tale di nome Gruener, che mi introdusse nel giornalismo, dapprima come semplice tutto fare, poi segretario, infine giornalista di inchiesta, una gavetta durata otto anni.
Finivo in Francia in quell’estate dell’ottantadue, mentre tu prendevi marito; quel presuntuoso d’un Rattanzi, uomo la cui spina dorsale non ha eguali, certo in peggio.
Ricordo i nostri carteggi, al come cercai di persuaderti, al come cercavi di convincermi a lasciar tutto e ritornare a casa, la mia, la tua, che sarebbe forse un giorno potuta essere nostra.
Ma tuo padre, i suoi bisogni di tranquillità, il tempo macinato come chicchi di caffè, non era facile, in più diffidavi di me, chiedevi un gesto forte mentre io, sotto assedio, lottavo ferito in quella che sarebbe stata la guerra del secolo, ed il colpo più duro me lo infligesti tu.
Da allora ho venduto cara la pelle, senza troppe voglie, senza quel bisogno, il più delle volte fuori luogo.
Ho preferito a quell’impreciso qualcosa il nulla, una vita all’insegna del lavoro, coltivando il mio giardino, i miei interessi nutriti ogni giorno, viaggiando, mettendomi alla prova con discreto successo.
Sono stato in Ciad dove ho criticato il governo Francese, nell’ottantacinque in Mozambico, una guerra civile da 1,050,000 morti, poi ancora in Sudan nell’ottantanove, ed in fine nel novantadue la Bosnia.
Conobbi un italiano, di nome Almerigo, ammazzato da un “proiettile vagante” a Caia mentre con la cinepresa stava filmando una battaglia fra i miliziani del fronte Renamo e quelli fedeli al governo in carica. Un’amicizia durata cinque anni quella tra me e Grizl. Almerigo moriva ed io ero lì, in Mozambico, lo guardavo boccheggiare come un pesce, soffocato dal suo stesso sangue. Ne rimasi sconvolto. Aveva una foto, come tutti del resto, tutti, tranne me, immeritevole di avere il tuo santino addosso, anche se, mentendo a me stesso, ti portavo nel cuore. Il suo sangue rappreso al ciglio di quella strada polverosa, fu la prima volta per me, così distante da casa e se da un lato la sua morte mi spingeva alla paura, al terrore e a riflessioni varie sulla vita, sul tempo, e sull’onere di questa nostra spesa, dall’altro mi portava a Sarajevo. La Bosnia, ma che dico!! l’adriatico intero! Tutto in tumulto, tutto pazzia, dissoluzione, era l’imbarbarimento di qualunque equilibrio sociale. Sadismo, crimini e tante mani imbrattate. Morivano gli uomini come bestie, morivano per niente, forse un tozzo di pane.
Ormai ero un altro uomo, e me ne rendevo conto quando le bombe ci piovevano in testa, me ne rendevo conto, quando guardando indietro andavo avanti alla cieca, per poi finire col non muovermi più, se per movimento intendiamo uno spostamento direzionale, nessuno spazio, nessun punto “a” a punto “b” ma oltre. Ecco, cara Vittoria, non esistevo più in quel mondo che tu immagini chiudendo gli occhi e che confermi riaprendoli, non era più così che io lo percepivo. Dentro il vuoto, fuori il nulla, mentre intorno solo un’insieme scoordinato di ingranaggi ferrosi, arrugginiti, il caos. Avrei potuto conoscerlo e capirlo, anche prevederlo, se la mia mente avesse potuto comprenderne ed individuarne ogni sua variabile.
Cooperai per un breve periodo con un tizio di nome Guido, Guido Puletti, mio amato amico, che nell’inverno del ‘novantatre intensificava i suoi viaggi in Bosnia finalizzandoli ad un progetto di solidarietà destinato alle città di Vitez e di Zvidovici.
Il suo convoglio fu assalito il 29 maggio di quell’anno, vicino a Gornji Vakuf , dai “Berretti Verdi” del comandante “Paraga”, Hanefija Prijc. Me lo ammazzarono (di nuovo) come un cane…
fucilato in una raduna lì vicino. Tornavo in Germania privo di forze poco dopo lo scoppio della guerra in Kossovo a seguito della morte di Gruener, anche lui freddato insieme al suo fotografo ed al suo interprete da un cecchino a sud di Pristina, lo riportai alla moglie.
Glie lo dovevo…
in fondo era grazie a lui che dalla miniera ero riuscito ad arrivare fino a lì.
Decisi così di smetterla con le inchieste. Era il ‘novantanove, avevo quasi quarant’anni.
Da allora ne sono passati dodici, di cui gli ultimi tre qui, in questo noioso centro di cure.
Mi trattano bene, chiedono un occhio della testa per le loro inutili terapie. La svizzera!!!
Non so quanto mi resti ancora da vivere, pare che i miei arti si siano gravemente indeboliti a causa degli sforzi fatti in passato, i nervi sono andati, e su quella strada marciano anche i polmoni. Non ci vorrà molto. Il dottore crede non sia tutta opera della guerra, sono infatti sintomi molto comuni tra minatori. Ironico, non trovi!? Alla fine mi hanno fermato…

avrei molto ancora da dire, ma quarantanni mi dividono dalle tue labbra.
La mia coscienza, segnata dal nostro incontro, ferita, non ha mai smesso di sanguinare per te.
Ti amo, t’ho sempre amata, ma ora è tardi, non servirebbe, sarebbe inutile e…
Mi dispiace.
Resti la mia guerra persa.
Tuo

Martino Andò

 

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28
Ott
2011

Spesso…

E inizia con un addio, <<ci rivedremo presto>>, così si pensava allora, ma le strade di notte sono buie e poco trafficate, i rumori si confondono, s’assottigliano, le macerie cadono, la città si spoglia e si fa invadente, vanitosa: ci scuote col suo laccio e ci toglie il respiro, lasciandoci spaesati, mentre la terra trema. È così che ci si perde, nelle vie, tra i segnali stradali, lì, su divani scomodi e letti scaldati d’altri corpi, in un giornale, ogni mattino, con qualcosa da fare, oppure nessuna. S’annusa il cambiamento, sempre imminente, sempre a due o tre centimetri da noi, respirando così l’aria che da esso ci divide, separati da metri cubi su metri cubi, e noi a nuotarci dentro, fino ad esserne esausti, perché questo cambiamento non arriva mai, oppure è già arrivato e continua! Il cambiamento ci prende a poco a poco, tutti i giorni, basta non pensarci. E arrivi al punto che non ci pensi più.
Ed ora la tua vita è in un blocco di pagine timide, prive d’inchiostro, imprecise, senza fango, senza troppi sussulti, senza le tue passioni, cancellate come i tanti errori ortografici, da una penna difettosa, incapace. Ricordi ancora come eri bravo nel perderti, annaspando inconsapevolmente nel niente, battuta la strada, facevi sempre ritorno a te, pronto a chiederti scusa. Di quel capitolo hai conservato poco se non nulla, vero!?
Inizia sempre con un addio, non che la gente ci creda sempre, delle volte risultano semplici formalità, e so che non sentivi le sue lacrime bagnarti il corpo quella notte, come del resto non badavi al suo cuore, né davi retta al tuo, troppo debolmente incoraggiato, lasciato esposto al sole, e al sale, si contorce rigido il vigliacco, pur di non essere ferito si ferisce da sé, tu e le tue manie!
Non t’ha cambiato il mito americano, né il Kossovo.
Non è stato un mitra, né il bombardamento alla stazione televisiva, non eri lì sotto, non hai visto cadere quei massi, l’unica pace che hai trovato l’hai alzata da sotto quei corpi, spezzandoti le unghie scavando, ma non è stato neanche questo; ormai la tua storia non la ricorda più nessuno, e chissà che la colpa non sia tua!
Hai semplicemente smesso di cercarti, così risolvi un problema, ti consegni alla stabilità, alla certezza, ma la vita è mutare, “il continuo muoversi”, rinnovandosi resta fedele a sé stessa, diversa ogni giorno, l’anima prende il corpo, gli suda sopra, si ritrae, poi ancora ritorna, imbrattandosi, vivendone il dissidio, lasciandosi toccare, compatendolo, poi accusandolo, ed, infine, scusandolo.
Ed ora hai tutto il tempo di pensare : Inizia sempre con un Addio, mentre chiudi gli occhi.

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19
Ott
2011

Le confessioni

Sono una persona noiosa. Non scopo. Non faccio merenda con il latte, ma con il the. Di notte mi alzo per scrivere stronzate come questa, mi rovino il sonno, ma mi aumenta l’autostima. Non sopporto le persone senza deodorante. Mi dimentico sempre di tirare lo sciacquone. Mi metto sempre due paia di calze. Adoro le date e guardo sempre la luna. Dico a tutti che mi alzo all’alba, ma non mi ricordo l’ultima volta che ne ho vista una. Faccio la raccolta differenziata e sono un sostenitore di Greenpeace, ma sotto sotto sento che l’ecologia è una cazzata. Non credo in Dio. Ho peli nelle orecchie che sembrano capelli. Non mi mangio le unghie, ma qualche volta mi pulisco il naso come se fosse la canna di un fucile. Adoro la tecnologia, ma non impazzisco se non ho l’ultimo modello di… Adoro prendere l’aereo e tutte le volte che decollo penso a Galilei (sì, a lui, non a Leonardo) e piango. Davvero non credo in Dio, e non è la mossa di un ribelle. Mi piace l’architettura, ma non ci capisco un cazzo. Leggo di tutto, dalla Bibbia fino al bugiardino dei farmaci, passando per le etichette dei vestiti, delle bottiglie, delle lattine, delle scatole, ecc. Sono analfabeta in tutte le lingue del mondo tranne l’italiano. Adoro il succo di mirtillo. Mi piace suonare la chitarra, ma a lei non piace essere suonata da me. Ho visto un fenicottero rosa a Punta Aderci e nessuno mi crede. So mentire così bene che non mi ha ancora sgamato nessuno. Amo la letteratura, soprattutto leggerla. Mi piace cucinare. Sono comunista per convenienza perché sono un prodigo. Gioco a scacchi, ma dev’essere un gioco per deficienti perché perdo sempre. Odio la puzza di fumo e il rumore del traffico. Il whisky scozzese è la mia ambrosia. Indosso soltanto biancheria nera. Penso che senza la satira la serietà non servirebbe a niente. Vorrei morire alle sette di sera. Mi diverto con poco non è vero, ma è falso che con tanto è meglio. Mi do la colpa troppo spesso, così per far finta di aver combinato qualcosa. Adoro oziare, ma il mio lavoro mi esalta. Non sopporto le monetine, ma se ci mettessero la mia faccia non mi dispiacerebbe. Mi vesto di canapa. Odio i poveri di spirito e i ricchi: purtroppo spesso coincidono e in questi casi non riesco a odiare il doppio. Non credo in Dio sul serio, perché Dio non esiste e lo so con certezza. Parlare è la cosa che faccio di più dopo respirare e di solito non smetto mai. Scrivo perché non so fare altro. Gli amici sono il modo migliore per sfuggire alla morte e molto spesso alla noia.  Se non ci fossero le donne suppongo che me le inventerei, ma essendo un uomo non mi verrebbero così intelligenti. Non mi annoio mai, soprattutto in compagnia di me stesso. Se dovessi morire mi dispiacerà un bel po’, ma sicuramente dispiacerà più a voi. Non posseggo gioielli. Posseggo un sacco di libri e molto spesso mi posseggono. Mi piace lavarmi. Adoro il mare e non sono mai stato in montagna. Non credo in civiltà extraterrestri, e se anche esistessero noi non saremmo meno delle teste di cazzo. Amo una donna alla volta e quando faccio l’amore cerco di farlo con lei e non con me stesso. Il segreto della vita è guardarsi allo specchio e girarsi di spalle. Adoro l’odore della benzina. Odio l’autobiografia, ma amo altrettanto negarlo.

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17
Ott
2011

Il gioco dell’attesa.

Sono pillole che si urtano e poi, vorrei che esplodessero. Ed invece rimbalzano, come ogni pregiudizio che attiro. Fuggono veloci, quando sospese nel vuoto le contemplo per un attimo infinito, poi le afferro in un colpo e le ingoio.
E intanto, rimango seduto a questo tavolo di caffè.
Vorrei un posto da poter frequentare ogni giorno, senza porte da dover tirare o spingere; da raggiungere attraverso la cucina di un modesto ristorante.
Sarei un cliente abituale, di quelli che amano tacere. Decine e decine di altri clienti abituali. Sempre uguali. Nessuno sconosciuto al quale presentarsi. Nessun conoscente da intrattenere. Nessuna tristezza da ostentare e, nemmanco quella spensieratezza da sottoporre a congetture oscillanti fra lo stupore e la sentenza irremovibile che sia tutta una mia finzione. Nient’altro che lo stereotipo offerto dai miei connotati. Forse qualcuno ricorderebbe davvero il mio nome, altri si riferirebbero a me attraverso sensazioni non descrivibili a parole.
Chiudo gli occhi, sono dove desidero.
Fisso iridi e mi fondo con il riflesso dell’essere me stesso corpo e anima nella mente di un altro. Seleziono personalità con lo sguardo, le dispongo su più livelli, stilo statistiche a riguardo, scambio opinioni con loro, illudendomi, tentando l’inganno, sono il banchetto delle tre carte alla fermata del mio mondo. Linee della metro la collegano a dove il sole è più alto, convogli d’amianto si fermano e poi ripartono, li sento ed ignorarli m’è dovuto, altri si bloccano soltanto nell’istante esatto in cui alzo lo sguardo, li conosco per un attimo, poi dimentico tutto come di ogni mio sogno, come di quella volta che ho pianto.
-Anche questa sera qui?
è l’amica di un amico, le rispondo con un sorriso e raggiungo il posto libero sul divano più vicino.
Incrocio le gambe. Cambio lato. Conto ogni secondo, ogni istante. Non mi sento per nulla a mio agio, mi scompongo. Faccio per alzarmi, vorrei girare in tondo a quel tavolo da biliardo spoglio là in fondo, ma non posso. Non è né fastidio né tensione. E’ dinamismo. E’ il dinamismo che delimita i confini dell’esistenza stessa di noi uomini col cilindro.
E’ vero, mentivo. Voglio la più opprimente staticità per frantumarla con un paradossale equivoco e costruire mattoncino su mattoncino una eccellente presunta socialità e poterla giustificare come vita. Vorrei pianificare ogni aspetto di quest’ultima e poi attendere solo e soltanto la venuta di ciò che mi ostino a chiamare imprevedibilità.
Non ho zucchero, né glitter da spargere sul tutto.
Proporrei una partita di pallavolo. Formerei ogni squadra, ripasserei le regole. Posizionerei ogni singolo habitué del posto di cui sopra in attacco o difesa, indagherei su ogni piccola, minuscola loro potenzialità. Muro, bagher, schiacciata.
Ho sempre odiato tutto questo.
Proporrei una partita di pallavolo, per rompere i lampadari e fare qualcosa d’insolito nel buio.
Apro gli occhi, ancora non ci sei.

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07
Ott
2011

Ballata per prete e bambina

(da una cronaca dei nostri giorni)

“Vuoi la dolce merendina?”
domandò il prete alla bambina.
La piccola rispose avvezza:
“da tanto non penso alla salvezza.”

Le suggerì la clericale bestia:
“Assaggia pure la mia ostia”
e la bambina non disse più niente
ma rimase in ginocchio, penitente.

Quando l’eucarestia fu compiuta
la bambina pensò fosse finita
ma il prelato non la mandò via
poiché mancava ancora l’omelia.

“Quello che hai appena assaggiato
è il corpo di colui senza peccato,
è il senso della nostra santa religione.
Tu hai sperimentato la vera comunione.”

Soltanto venti anni da quel fatto
la bambina ha quasi dato di matto
perché il prete così scrupoloso
a dar la messa era ancora uso

tutti lo sanno nessuno lo dice
ormai la donna si è rivolta al giudice
non aveva capito che la stavano violentando
lo urla, lo grida, lo sta dicendo

e il bianco sommo pastore
che passa a pregare ore e ore
è stato finalmente denunciato
per aver colpevolmente taciuto

ma non sarà una semplice sentenza
ciò che smacchierà la penitenza
che degli innocenti hanno sopportato
per la fede assurda nel celibato

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02
Ott
2011

Dell’uccisione di Eratostene

Teofilo, dove guardi?
Esteta maledetto, volgi al terrore ed, allo stesso tempo, alla compassione.
Come un cane fai della tua cuccia la staticità, come un cane annusi e mordi chiunque infastidisca il tuo dramma.
Compassione perfetta, terrore puro, ecco di cosa hai fame. Rappresenti te stesso,  in te stesso ti perdi, e mi spingi ad una sola domanda, non cercando trovi il tuo; ma come puoi?
Ogni giorno, chino, pronto a sfamarti di nuove tragedie, ogni ora lì alla sbarra del tuo personalissimo dramma.
Avresti potuto forse perderti in qualcosa di più spurio, cedere ad un sentimento dinamico, che  spinge  l’uomo a cercare o ad allontanarsi da qualcuno o qualcosa, come l’amore … o l’odio,
ed allora la tua mente  avrebbe scavalcato il desiderio ed il tuo stesso odio, spingendosi in alto, osando, ma sarebbe stato solo un fenomeno fisico, ed il tuo solo sistema nervoso t’avrebbe governato… sconsacrandoti, gettandoti tra le fauci del più confuso ed incoerente dinamismo… preda ormai anche l’anima tua dei tuoi stessi tarli.
Quanta miseria in quest’arte, c’erto fasulla, volubilmente s’adorna di gioie e dolori, iscrivendo alla storia un nuovo fallimento, quello di chi cede… quello di chi accetta la sua condizione umana…
il destinato alla morte.
Ma, Nostro sublime, io vedo la tua immortalità, quella più umana, quella più pura. Il triste destino sosta alla fine della strada, aspetta tutti, aspetta te, e tu gli vai incontro mostrandogli  spalle e petto con orgoglio.
Cammini eretto in mezzo ai rantolii di chi s’accascia ai muri, di chi sosta, o come te va’, ma a tentoni, cercando con la mano le pareti della vita, sorreggendosi su di essa, inebriandosi, vivendole addosso, stordito dalla disperazione che si fa alcolica, che si fa tutto per finir niente.
Uomini come buchi nell’acqua.
Nell’intellegibile trovi quiete e riparo, protratto e poi dissolto dal ritmo del bello, dal vivere elegante, disciplinando tutto, raffinando tutto, eclissandoti nell’ideale, nutrendoti di idee.
Teofilo, per te l’amore prima che  sentimento è idea, ecco perché muori solo!
Per te la giustizia è  conquista e non legge, ecco perché siedi imputato.
Ed ora uccidi Eratostene dopo esserti procurato tre testimoni, dopo averlo trovato giacere nel tuo letto con tua moglie, così confondendoti; egli infatti è adultero, e più d’un violento che avrebbe potuto possederne il corpo, egli  ruba l’anima sua, lasciandoti dubitar di chi sia moglie, di chi siano i figli e la tua stessa casa!
Così non accetti i suoi averi, così uccidi un nobilitato, né per odio, né per vendetta, stai infatti adempiendo ad un dovere disciplinato dalle leggi: è la tua dignità quella che con forza difendi, il tuo concetto astratto d’amore e di famiglia stuprato nel tuo letto, violentato nell’intimo, ed il suo ripristino
ed ora…
rischi la morte.
La stasi luminosa del piacere estetico, ecco cosa vedo nel difenderti qui, oggi!

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