14
Nov
2010

Come Volevasi Democratizzare

Il presidente degli Stati Unti, mister Cespuglione, lancia una campagna di sensibilizzazione alla bomba atomica. Nei laboratori le cavie vengono sottoposte a lunghe discussioni di bioetica, salvaguardia del territorio, ecologia a lungo e medio termine, rischi dell’inquinamento sulle funzioni cerebrali dell’uomo, effetti delle radiazioni nucleari sulle forme di groviera, problematiche dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi dei reattori; quando le pupille dell’animale sono piuttosto rossastre vengono posti di fronte ad una pulsantiera con 3 bottoni:

1) formaggio
2) copulazione
3) lancio di ordigno nucleare sullo stato maggior produttore di trappole per topi;

ogni essere senziente nei confini americani deve sentire nelle proprie mani le sorti di ogni suo simile, del futuro dell’umanità. Magri, sconvolti, i topini di ogni laboratorio costituiscono una coalizione para-sensitiva, una comunità ascetica basata sul pensiero: ogni discussione viene ridiscussa, ogni informazione passata al setaccio della verità, della formaggiosità, della copulosità: l’astinenza dal formaggio e dall’accoppiamento, porterà inevitabilmente, la prossima volta, a scegliere il 3° bottone?

Anche in italia si partecipa con entusiasmo all’iniziativa, stabilendo nei laboratori turni di lavoro per gli animali vivisezionati ancora vivi: scimmie con lingue artificiali per ringraziarci, cani coi tubi nel cervello perché sono i nostri migliori amici, gatti senza interiora per non sporcare l’asfalto dopo l’investimento, maiali con sonde sotto la cotica per saggiare le soglie del dolore, scimmie divorziate e scandalizzate dalla suocera che se la fa col genero, cercopitechi kantiani behaviouristi sottopongono i bambini iracheni agli esperimenti di Pavlov (giudizi a priori se ne hanno, per la scienza…) tutto nella norma; pinguini di montecitorio e palazzo madama risentono clamorosamente dell’autunno caldo, ma sono lì per lavorare…

L’ecologia, scienza suprema, viene investita da Berlusconi a scienza economica – il tempo è un’assonometria obiettiva che sfrutta l’insensibilità al freddo delle mani per tirare schiaffi alla Borsa di milano – gli indici, successivamente riscaldati, stabiliscono una colonnina di guadagno sull’unghia per ogni distruzione, per ogni desertificazione, intellettuale, ambientale, calcoli laser, colecisti, coliche, filtri per l’aria vengono cambiati da ogni parte, obiettori di coscienza tossicchianti agli angoli delle strade, vittime della mancanza di parcheggi…

Berlusconi insegue l’ideale internazionale della perfezione, dello spergiuro, perché usufruire dei paradisi fiscali quando l’italia può diventarne uno molto più vicino?

Un milione di Koala acquistati tramite cacciatori di frodo e inviati nelle migliori pelletterie sono scuoiati e tenuti vivi in modo da sembrare morti, ci si confezionano speciali portafogli e portamonete senzienti: grazie a degli elettrodi di stimolazione per ogni euro speso, l’animale-portasoldi diffonde un peto d’approvazione al ciclamino – se non si spende almeno un euro al giorno l’animale defeca, piscia o gasa: nelle versioni deluxe il gas agisce sui neuroni del senso di colpa. Per evitare i salti di borsa si pensa di gambizzare i canguri… Aznar ha dichiarato che se non la smettono chiama sua madre: ha baffi più folti dei suoi…

Chirac fonda l’accademia del bacillo, miliardi miliardi di virus e batteri vengono rottamati grazie agli incentivi statali: si può starnutire e tossire senza mano davanti alla bocca: ogni umano è un laboratorio semovente per studi di biologia → comparata con l’economia → comparata con la geologia: fame nel mondo, dice l’OMS, necessaria al senso di colpa della media, piccola e alta borghesia per equilibrare il senso di magnanimità beneficienza e solidarietà che gli ippopotami hanno per gli obesi dell’occidente tutte le mattine specchiandosi nei laghi.

Il disordine dell’umano stato di pace e guerra, amore e odio, tutti viviamo e moriamo…per un fine, c’è chi mangia nel frattempo, chi gode nel contempo, chi sfrutta nel frangente: ingoiate petrolio quando avete sete.

I reali di casa Savoia vanno a farsi le analisi con occhiali dalle lenti al titanio-cobalto: così possono vedere il loro sangue davvero colorato di blu…

I topi americani, prendendo alla sprovvista i ricercatori, istituiscono una libera repubblica e tentano di mandare alcuni esploratori in europa per saggiare i possibili sviluppi di una rivoluzione totale: una scimmia combattente a cavallo di un delfino con segnalatore, teleguidato dai satelliti spia…

In asia e in medio-oriente i cammelli bevono tutta l’acqua potabile esistente in quelle zone, scappano a sud, lasciano le terre desolate, seminano le città con volantini che invitano al consumo consapevole.

L’occhio che ci guarda, lo sguardo di memorie intra-uterine, di recessi anali, sondati da bagliori di fumi sballati emessi dal cervello di dio…

L’apparenza è liscia, solida, scorrevole, piacevole al tatto, alla vista; gustosssa e succosssa; ciccia di macellaio, seta di tappezziere, champagne di ristoratore, ferrari di auto-mobilista; tartufo selvatico di guardone (maialis comunis)…

Cespuglione ricorda il momento del suo concepimento, la corsa, la rincorsa → gode, polluzione notturna intelligente, schizza in un cielo armato di stelle, cade come le piaghe e la discordia, terrore, confitto nella scarnificata terra, griderà per ogni nascita violentata. È dissoluto il pensiero che si riproduce contro la volontà…

Spietata profusione: è impossibile morire giovani, è impossibile che la medicina non sia una scienza esatta, è impossibile che la religione non sia una soluzione, è impossibile che se una cosa fa bene a te fa male a me, è impossibile la stupidità, è impossibile il profumo di canfora dei nostri concetti…

…è imposssibile…

Per ogni nuova creazione il parere biblico è apocalisse, il parere medico è inseminazione d’artificio, il parere bellico è guerra, il parere economico è tangente, il parere collettivo è statistica, il parere artistito è necessario…

Attenzione: Occidente è un medicinale; tenere lontano dai bambini: poche decine di stronzi hanno potere e denaro; eccipienti: Libertà & Coscienza; leggere distrattamente le avvertenze e agitare bene prima dell’abuso;

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12
Nov
2010

A luci spente

Ed è forse un morbo quello che mi prende tra le tue lenzuola, simile all’odio, ma più feroce.
Mi s’avvinghia addosso, m’attanaglia la gola, la testa esplode, perdo il senno, ma non godo.
è come rabbia, solo, più sottile. Attecchisce tra i corpi cavernosi, sale in testa, si ferma.
E avrei voglia di urlare, schiantarmi contro una vetrata, alzare la voce, sbattere i piedi, stupirti con la mia ferocia.
Vomitarti contro tutto il male che mi sento dentro, avvilirti con tutti i miei pensieri …
quello che non dico, quello che non sai.
Mi incidi la pelle con piccoli ematomi sottocutanei, marchiandomi il collo segni la tua proprietà,
ti lascio fare, non importa, in fondo, non sono di nessuno.
Frustrato contengo e contrasto i cattivi pensieri, respingo ogni segno di cedimento, mi calmo ancor prima di esplodere, mi incrino nel mentre, e fa male.
è rabbia. È solo un attimo, poi passa. Non fa danni, non resta dentro.
Rancore, per aver sperato in  qualcosa di diverso, per non essere riuscito a pretenderlo.
Non sono felice, prima forse, ma è stato un momento, un ricordo che non rivive, e  da solo muore.
Non ti sento mentre mi tocchi, non sempre, e ultimamente non sto neanche li a vedere, qualche volta,non sempre.   A volte ho la vaga impressione che  tu voglia solo essere scopata da me, un pensiero in testa, un modo insolito di concepire l’amore. È così che m’ami!?
E allora carico, ti scivolo dentro, mentre gemi, mentre graffi, senza sentirmi a casa.
Ti sento calda, sprofondo, senza perdermi, non mi sento a mio agio, l’atto in se non mi prende, vorrei fermarmi senza troppe discussioni, andar via, scomparire, ma  come si fa!?
E allora continuo,  ti sento ansimare, e mi sento solo.
E allora m’incazzo, e ci metto più forza, continua mi dici, continua, ma non sento nulla.
Vieni, mi dici, vieni.
All’appuntamento non mi trovi e te ne accorgi solo una volta  voltato l’angolo, ma fai finta di nulla, sarà che sei più che soddisfatta.
Sarà che in fondo ti senti sfinita, sarà che è  comodo, o che forse  sono io, e  che per te è solo fatica.
In questi momenti m’accarezzi in genere, e lo fai ancora adesso, mi baci, mi dici cose,  mi chiami amore, ma non  sento, ne  tocco, ne  vedo questo tuo amore. . .
Non mi nutre.
Mentre mi abbracci stordita,
ti vedo,
e non posso fare a meno di odiarti,
ma, tu, chiamalo pure amore, chiamalo pure così.

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11
Nov
2010

la correlazione Q.

Ad un certo punto la luce della mia stanza era visibile dalla cucina e nella cucina c’eravamo Io e Lei, che d’ora in poi chiamerò Io e Lei.
Lei rimprovera Io perché ha lasciato la luce della stanza accesa ed è una cosa da non fare visto che la luce accesa inquina e spreca corrente, ma visto che si trova in cucina a maggior ragione avrebbe dovuto spegnerla. Allora Io dice a Lei che forse non è del tutto vero che egli non è nella stanza con la luce accesa. Lei lo guarda come se fosse impazzito, lo manda affanculo senza condimenti e gli suggerisce, leggermente incazzata, che se sta dimorando lì davanti a lei in cucina non può essere dimorato anche nella sua stanza. Io le dice che è proprio quello il punto. É proprio perché anche Lei è qui davanti a Io che si pone il problema: come fa Lei a sapere con assoluta certezza che Io non è nella stanza? Lei tira fuori il principio di individuazione: ogni essere è unico nella sua forma e nella sua sostanza, quindi può essere soltanto in un posto e non in due contemporaneamente. Questo è assolutamente vero, dice Io. Ma siccome non c’è apparentemente nessuno nella stanza non si può affermare con certezza che essa non sia dimora di qualcuno e soprattutto di Io; a maggior ragione poiché sei qua e il principio vale lo stesso, non puoi affermare di essere nella stanza e dire che Io non c’è. Dunque Io può essere tranquillamente nella stanza in questo momento e la luce non è inutilmente accesa.
Lei dice allora che Io vuole solo provocarla ad andare nella stanza in cui è improbabile che Io sia dimorato per poi affermare, al ritorno, che Lei ha effettivamente trovato la stanza vuota, ma in quel momento c’era qualcuno quindi la luce aveva un suo perché; inoltre se Lei torna in cucina e la luce è ancora accesa Io può affermare che anche Lei non è molto attenta all’ecologia; quindi conclude Lei, la soluzione sarebbe di andare insieme nella stanza e lì constatare che effettivamente Io è lì dove Lei può vederlo e dunque la luce accesa non perde della sua utilità.

E allora? domanda Io.
Non te la dò, dice Lei.

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10
Nov
2010

L’ultimo desiderio (2/2)

leggi la prima parte

A suggello delle sue parole sul viso del Genio si disegnò un ghigno, più vicino a quello di chi ha evacuato che a quello di chi avesse voluto sentenziare solennemente.
– Maleducato, esclamò Soda voltandogli le spalle.
– Mi perdoni signorina, si scusò il Genio, vispo ma non abbastanza pentito della sua loffetta puzzolente di secoli – alla mia età è difficile trattenersi.
– La verità è che vuoi fregarmi, disse Soda.
– Voglio sbrigarmi, disse il Genio stanco e sfatto – lì dentro devo tornare, aggiunse indicando la lampada arrugginita e macchiata.
– Lo so, disse la bambina guardandosi le scarpine e il vestitino (si rabbuiò sulla macchiolina), poi indugiò sulla faccia imbellettata di quella maschera del fallimento.
Il Genio era commosso da quello sguardo, di solito le persone che lo evocavano mostravano senza ritegno sguardi famelici, erano risoluti in ogni loro richiesta, dalla più vana alla più indegna. Quella bambina aveva qualcosa che gli altri non avevano, pensò, forse il fatto di non aver ancora perduto tutte le occasioni.
Il vecchio Genio, senza rendersene contò, si lasciò andare e aprì il suo cuore:
– Ecco: mi ricordo di quello che desiderò la pace nel mondo, per il quale ho dovuto far sparire tutti gli uomini dalla faccia della terra. E che p0i ci rimase malissimo, come se avessi potuto fare altrimenti. Quello che desiderò essere il padrone del mondo dopo avermi chiesto un membro adeguato al piacere e le duecento donne più belle come mogli: ho dovuto trasformarlo in dolore, in cos’altro mai? Nell’amore forse? Non si era reso conto di aver chiesto troppo. E quell’altro che desiderava l’immortalità? Sai cos’è adesso? – la bambina fece no con la testa, ma si stava domandando cosa fosse un membro adeguato – è pura energia, disse il genio, un atomo d’idrogeno al centro del Sole. Poi ci sono quelli che non capiscono le regole del gioco. Domandano subito altri venti desideri ed io allora devo dire “Mi dispiace, hai diritto a tre desideri e non posso cambiare le regole, ne hai sprecato già uno. Allora si arrabbiano e mi picchiano. Voglio esaudire tre vostri desideri e non vi basta? Incontinenti, ecco cosa sono. Inconcludenti per giunta, gente che non sa cosa vuole e se la prende con chi gli da’ una possibilità. Per tutta la vita ho vissuto i desideri degli altri, ho vissuto dietro a persone che chiedevano, pretendevano e ottenevano per giunta: ho conosciuto molti malvagi di cui il mondo ancora si ricorda. Assurde richieste, sgangherate idiozie e geniali mortalità. Non vorrei deluderti, piccola. Non voglio deluderti, concluse il vecchio con gravità.
– E’ impossibile, disse la bambina.
– Cosa? – domandò il vecchio.
– Deludermi. Genio della lampada, affermò con decisione la bambina, voglio che tu esaudisca un tuo desiderio.
Il genio dapprima strizzò gli occhi, le sue rughe da decine divennero centinaia e migliaia, poi il suo corpo scricchiolò come una sedia che avesse visto troppi culi e stesse per sopportare proprio l’ultimo. Infine si rianimò. Calò il turbante apparendo quasi umano, meno conturbante di prima.
Soda si aspettava che dicesse qualcosa, era veramente curiosa di sapere cosa desiderava colui che per chissà quanti secoli aveva ascoltato i desideri di chissà quante persone.
– Sono turbato, disse il Genio, sono stupito e sorpreso, credo di essere felice. La bambina, che il Genio non avrebbe mai chiamato Soda, sorrise. Svirgolava un piedino nella polvere e sentiva dentro di sé uno strano prurito, un’anomala carezza per non dover vergognarsi di quello che aveva fatto.
– Sai consigliarmi quale mio desiderio devo esaudire?
– Si, rispose la piccola Soda. Basta che tu ti chieda cosa ti piace e ti dia una risposta sincera.
– Giusto, disse il vecchio – oppure – aggiunse – farti un regalo perché sei stata così gentile.
– Allora? – domandò la bambina.
– Esaudirò il desiderio di non poter più esaudire.
– Hai fatto?
– Ecco: puoi svegliarti, disse il Genio schioccando le dita.

Soda aprì gli occhi. Si era addormentata su una vecchia sedia nella cantina della casa della sua vecchia nonna che non moriva mai. Ricordava di aver sognato uno dei tanti oggetti impolverati e incrostati, macchiati e macilenti che si trovavano tra quelle cianfrusaglie accatastate… A casa non rifiutò di lavarsi le mani, non tirò un calcio al vecchio cane nero che viveva con loro, ma questa volta gli fece una carezza. Diede un bacio alla nonna, sollevata di non doverla sgridare e stupita nel vederla così allegra. Siccome era vicina l’ora di cena domandò alla nipote se avesse fame. Soda rispose con gentilezza e non si stupì affatto della risposta:
– Ho già mangiato.
Né lei, né nessun altro, avrebbe mai potuto spiegare che cosa.

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09
Nov
2010

L’ultimo desiderio (1/2)

Ecco: una bambina dolce come la stretta di un pitone, bionda come la cometa dell’apocalisse e gentile come un proiettile al cuore, nella cantina della vecchia nonna che non moriva mai si entusiasmò per una lampada ad olio incrostata e zozza. La bambina, che chiamavano Soda per l’acredine delle sue parole e l’impulsività selvaggia delle sue azioni, lasciò subito cadere la lampada dopo averne constatate le miserrime condizioni. Pensò troppo tardi che avrebbe potuto macchiare indelebilmente la pelle delle sue nuove scarpette con fibbie d’argento, ma tirò ugualmente un di quei calci da spedire la lampada sulla parete di fronte con rovinoso rimbombo di stoviglie.
– Ahi! – si sentì nel silenzio segreto della cantina.
– Ahi? – Si domandò Soda.
– E’ impossibile! – sentenziò.
– Fatemi uscire! – disse una voce.
Soda si nascose dietro una colonna, il suo respiro si bloccò e credette di provare un sentimento che spessissimo s’impossessa delle persone ma a cui lei non si era mai nemmeno lontanamente arresa: la paura.
– E’ impossibile! – dichiarò.
Decisa si avvicinò alla lampada impolverata e vetusta dandole una bella strofinata con le dita delicate di strega bambina. La lampada balzò dalle sue mani e cadde per terra. Dopo qualche saltello dal cannello si sprigionò un fumo bianco profumato di lavanda. Dalla nuvola creatasi comparve un signore anziano in tenuta da eunuco con turbante, pharde e belletto in quantità così esagerata che le rughe sul viso sembravano autostrade: un’apparizione conturbante per una bambina!
– Eccomi qui. – Esclamò l’essere con dovere, ma senza entusiasmo e con un filo di voce. – Sono il genio della lampada: tu che mi hai liberato hai diritto a tre desideri. Ordina e ti sarà dato, ahi!
– Ti sarà dato ahi? – domandò Soda.
– Prima ho sbattuto la schiena – rispose il genio – Hai pensato ai tre desideri?
– Veramente si, rispose Soda.
– Bene, in genere tra l’uno e l’altro si perde un’eternità. Su, la invitò, sbrighiamoci.
Soda lo guardò attentamente: era così stanco che non si doveva mai essere visto uno stanco come lui; stava in piedi per miracolo, il mento sulla mano, il gomito sul ginocchio e una gamba piegata sull’altra. E non aveva nemmeno aperto gli occhi.
Ma Soda non ci pensò su più di tanto e proferì il suo primo desiderio:
– Voglio bere la bibita più buona del mondo.
– Ecco, disse il genio schioccando le dita.
Sul tavolino comparve un gigantesco bicchiere di vetro, colmo di un liquido viola. Soda si avvicinò e annusò: i suoi occhi vi si sciolsero dentro. Afferrò il bicchiere e d’un solo fiato s’ingollò la bibita.
– Cavolo! Mai bevuto una roba del genere, disse pulendosi il musetto accattivante.
– Eh, sospirò il genio: per lui si era sempre in ritardo pazzesco.
Soda non se lo fece mandare a dire.
– Il mio secondo desiderio è mangiare il dolce più buono del mondo.
– Ecco, disse il genio schioccando le dita.
Su un piatto di maiolica un cucchiaio d’argento era confitto in un indescrivibile sincretismo di grassi, zuccheri, proteine e fibre, quali mai nessun cuoco si sarebbe mai sognato di poter preparare. Prima di attaccare l’incomparabile super-bignè Soda diede un’occhiata al genio: aveva aperto gli occhi, sembrava dilettato da quella creazione, le rughe si erano distese in stradine di campagna, era più rilassato. In effetti aveva creato lo stesso dolce già una volta, più di due secoli prima. Era stato il più grande pasticciere del mondo a desiderarlo: non senza orgoglio e una spruzzatina a neve di vanteria stava ricordando i vanigliati e sperticati elogi per quella meraviglia dell’arte pasticcera.
Soda dovette arrendersi a metà. Ancora non era nato chi o cosa potesse vincerla, ma più mangiava e più aveva sete; vari strati dagli aromi incantevoli e dai colori saporiti erano ancora sconosciuti alle sue fauci. A malincuore pensò che avrebbe potuto chiedere la bibita dopo il dolce. Il terzo desiderio non poteva sprecarlo neanche chiedendo la bibita più buona della più buona. Naturalmente non ammise di aver sbagliato, ma scusò se stessa per l’emozione di quella meravigliosa possibilità. Il genio, invece, approfittò senz’altro di quel momento di debolezza.
– Andiamo col terzo, piccola?
– No, rispose Soda.
– Mi sembra che il dolce non lo finirai.
– Lo finirò, disse la bambina, ingollandosi disperatamente un grosso boccone che le fece rischiare un’occlusione esofagea. Purtroppo una sostanza gialla cadde lasciando le sue graziose impronte sul vestitino. Finito di deglutire con qualche gentile scossone al delicato corpicino, si avvide della macchia.
– E’ impossibile, disse pensando alla sua mise sempre immacolata.
– Smacchiamo? domandò faceto il genio.
– Neanche per idea, rispose Soda, caustica, ne ho altri novantanove. Guardò il vecchio Genio negli occhi trattenendo l’ira.
– Bene, disse il genio sicuro di sé, nella millenaria esperienza che si portano addosso queste spalle esauste, ben pochi sono stati quelli che hanno espresso un degno ultimo desiderio.

continua

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08
Nov
2010

caffè

Due colpi ben assestati. L’acqua corre nella serpentina, affonda un tot di bar, sprofonda e si fa infondere. Anni e anni lo stesso sfrigolio, cento, mille e più volte, ma ancora sorrido. Due dita e mezzo di perfezione. Sarò pignolo. Sono sempre rimasto affascinato da quel rapido movimento, quello di far ruotare la tazzina in maniera tale che il manico risulti rivolto verso la destra del presente. Centottanta gradi e silenzioso l’angolo si chiude, tac. Prego a lei.
Ora lascia che le narici siano i tuoi occhi
Non sbirciare
Allunga due dita e afferra a caso una bustina
Anzi
Prendi proprio quella
Strappane un angolo e vuotala
Manciate di cristalli piovono dall’alto
Si adagiano
Galleggiano
poi tentennano e scompaiono
Agita
Agita ancora
Agita e agitati.
Emozionati e calmati.
Ma in realtà è solo un sfizio, il disgusto lontano, la necessità velata. Filosofeggiare su un gesto quotidiano.. il senso è tutt’altro: cercalo fra me e te e l’uomo di Vitruvio che ci unisce.
Ho bisogno di scrutare i tuoi occhi, inventarmi mille storie. Contrapporre il massimo riserbo alla tua piena fiducia. Fiducia nel mio essere scontroso, o nel mio caffè che sai di essere il migliore.
O magari questo ti irrita, o forse non ci pensi. Mi sento minuscolo, mentre travestito da tazzina, piattino e cucchiaino, gravito fra pensieri e parole preziose, fra accadimenti e persone che nel vorticare collidono senza raggiungere mai la tua attenzione. E non importa quante misure io tracci, o quanta accortezza ci metta nel riempire la doccetta della mia San Marco, nulla annullerà l’ineluttabilità del tuo sguardo, quando il giudizio sul mio essere adatto o meno a questo lavoro così aulico, continuerà ad aleggiare cattivo in questo spazio così stretto. Riconoscilo, senti l’aroma della socialità; per renderlo così invitante seleziono personalmente pregiate miscele popolari, da dosare e poi scomporre in tante nicchie eterogenee.
E mi diverto, ma tu, così insipidamente normale, uguale a tanti altri, continui ad essere la cosa più importante che ho. Forse il vero motivo per cui sono ancora qui dietro.
Ho bisogno di scrutare i tuoi occhi, inventarmi mille storie, tirare ad indovinare. E poi uscire la sera, camminare per ore, oltrepassare la linea di confine che ci divide, per vestire i tuoi panni ed ordinare “Un caffè, per favore”.

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06
Nov
2010

“Com’è felice il destino dell’incolpevole vestale!”

“Da dove partiamo? Cancelliamo Roma?”
Dentro il lungo camice bianco c’era un uomo. Si direbbe sulla quarantina portati male, alto, calvo,  con occhiali spessi, di una magrezza spettrale. La barba bianca e ispida era presa di mira da mani rugose, si direbbe di un agricoltore,  un tic nervoso e fastidioso. Un piccolo fazzoletto bianco ricamato veniva portato ripetutamente ai lati della bocca.

July non sapeva bene quello che stava succedendo. Il lettino era freddo, scomodo e il tremolio ansiogeno rendeva tutto inappropriato. Il dottor Michel Mierzwiak le reggeva il braccio,  guardandola senza espressione mentre cercava di tranquillizzarla con una dose di valium direttamente in vena.

“ Lei intende dire, iniziamo a cancellare proprio dal principio…”

“ Possiamo partire dalla fine e andare a ritroso,  ma la avverto è più doloroso e pericoloso.”

Ci penso un attimo. Intanto le immagini delle città, dei volti, iniziavano a svanire e a confondersi in vortici d’aria che partivano da nuvole scure e diventavano onde trasparenti che coprivano la luce. Doveva cancellare tutto. Necessario.

July era all’angolo delle due torri. Al semaforo, dalla parte dell’edicola. Aspettava il momento in cui ognuno di solito cerca una traiettoria diversa per evitare uno scontro frontale. Persone varie, bionde alte e nordiche, ragazzi con il sudore da palestra come soprabito, studenti con occhiali e cappottino a coste, straniere con la jota, mamme con ricrescita visibile e vecchina con deambulatore. Un gruppo di ragazzi distribuiva informazioni sull’ultima frontiera della neuro-scienza. Era troppo caldo per essere un weekend di dicembre.

Mentre le serviva una birra, lui notò la scollatura della cameriera. Le passò un fazzoletto con qualcosa di scritto e lei sorrise. Si, lei sorrise, ma non di un sorriso normale, o di circostanza, neanche uno di quelli da sfoderare amabilmente dopo una battuta infelice. Era un sorriso malizioso. Da intendere come, ci vediamo dopo se vuoi, abito non lontano da qui. Poi, un sorriso normale, non significa niente.

Lei lo vide dalla vetrata. Pensò che i primi mesi invernali non sono mai positivi per un segno come il suo. Forse in quel preciso momento iniziò a dubitare di lui.

Lui telefonava a lei dicendogli che poteva andare a trovarlo se voleva. “Però ti prego, non usciamo fa troppo freddo fuori.” Così tutti i lunedì e i giovedì.

Per questo motivo July, il martedì e il venerdì piangeva e si lasciava toccare dalle mani scure di nonmiricordoilnomemacredosiastraniero. Il motel puzzava terribilmente di stanza ad ore, ma lei vibrava di piacere tra quelle lenzuola sfatte e non lavate.

Lui era di spalle.
Non c’è molto da fare quando si aspetta. Si può passeggiare, su e giù, avanti e indietro. Intrattenere passanti o discorsi filosofici con i piccioni. Quelli di Piazza San Francesco. Si possono creare dei mondi dove arrampicarsi sul cielo e iniziare a correre sulla nebbia, dove le case sono appese ad un filo sottile trasparente. Si possono creare castelli di sabbia e di rabbia. Si possono srotolare e arrotolare km di strade di lana.

C’è chi ha iniziato a fumare e ha anche smesso. Tutto nell’attimo infinito dell’attesa.

Lui sembrava aspettarla. Sorrideva ma non parlava.
”Il silenzio e’ ciò che più ci unisce. Nella distanza, anche se tu urlassi crederei nella distorsione delle onde, piuttosto. Quando fai sentire la tua assenza credo che la stanza sia comunque piena di persone.  E tutte parlano una lingua che non conosco.”

July era appoggiata al muro con un bicchiere in mano, la musica alta rimbombava di bassi nel petto. Non sentiva più le sue amiche parlare e la fila al bancone era di nuovo troppo affollata. La voce di Nada si appoggiava bene alla coppia di bei ragazzi di fronte a lei. Si incrociarono. “Vieni a salutarmi e hai un mantello e un cilindro”.

Vorrei portarti a casa con me. Dopo la musica, dopo il bicchiere. Sarebbe splendido.

July era appoggiata al muro con un bicchiere in mano, la musica alta rimbombava di bassi nel petto. Non sentiva più le sue amiche parlare e la fila al bancone era di nuovo troppo affollata. La voce di Nada si appoggiava bene alla coppia di bei ragazzi di fronte a lei. Stasera sembra non esserci nessuno di interessante.

“Tutto bene?” le disse il dottore.

“si certo, ma lei chi è?”

July non sapeva dove, ma soprattutto come, era finita in una stanza probabilmente di ospedale. Tra lo sconcerto e la confusione aveva però una gran leggerezza addosso e un motivetto allegro per la testa.

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03
Nov
2010

Ei Fu. All’ombra dei cipressi e dentro l’urne.

Fatto sta che non c’è più. Desaparecidos. Che TU sia un’idea, una cosa, una bestia, con il tuo silenzio mi tradisci. C’eri e non ci sei più. Stavamo insieme, io e TU.
Ma riappari. Anche se non ti voglio. Soprattutto se non ti voglio. Corsi e ricorsi storici. Ma vorrei andare avanti, non ricorrere. O, meglio, riNcorrere. Perchè mi fai sentire deriso da una prepotente impotenza che mi irrita il sistema nervoso. Cioè: o bianco, o nero. Se vuoi scomparire, esci fuori definitivamente anche dalla mia testa.
E invece no, stai lì che zompetti allegramente.
Non sai quanto vorrei ridurti in polvere. E seppellirti.
E se sparissi io? (di una morte artefatta?) Giochiamo un pò a nascondino. So già che finiremo per perderci tutti. Saremo compagni del niente.
Finchè arriverà lui: Limoncè. Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è. Mi pare logico.
Sinceramente? Sprecarlo non mi pare il caso.

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02
Nov
2010

la macchina perfetta

Articolazioni perfette, si mischiano a sangue e  muscoli, in un ingranaggio meraviglioso!
Lo scheletro è la base, ma  il movimento è tutta un’altra cosa!
Una cassa toracica protegge il motore, la respirazione affonda le sue radici nei polmoni…
ma è la trachea il tramite della vita.
I reni filtrano, la milza spreme globuli rossi come un’arancia, il fegato, lo stomaco, assimilano  energia!
Eppure c’è più calcio in un programma tv che nella cura di un malato di osteoporosi!!!!
Parte l’ingranaggio con la sveglia, suona, suona forte, un suono orribile che fa scattare in noi recettori che, a loro volta,
mandano segnali al cervello, gli occhi si aprono, le braccia si muovono, puntano alla sveglia, il pensiero viaggia ancora alla velocità
di 56 k, ma in un tempo più o meno lungo supera in Ram i pc della C.I.A!
Dopo una lavata di faccia, per chi vuole una sigaretta o un caffè, la macchina è in tiro.
La tiroide spara ormoni, come un fuciliere nel tiro al bersaglio.
Le gambe si muovono, la mente pensa, la poesia prende forma!!
Gli obbiettivi cambiano a seconda del software , ma una cosa è certa, la macchina preserva la sua esistenza.
A seconda delle esperienze trascorse, come aggiornamenti automatici direttamente prelevati dalla rete, la macchina si
modifica, articola il suo pensiero.
Seleziona, scompone, enumera ragionamenti, da priorità, impara, insegna…vive,
una macchina geniale!
La sofferenza è contemplata, non è immune ai virus esterni, e più scendono in profondità, più fanno danni, e,
se danneggiano i file di sistema, solo un’antivirus ben fatto può estinguere il dolore.
Tendo a non consigliare mai un Norton, troppo pesante e costoso, ce ne sono tanti altri gratuiti…
è poi l’amore non ha  un prezzo.

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