30
Nov
2010

Venite a pisciare nel mio cesso

Vieni a pisciare nel mio cesso
lo dico anche a te coglione di un lesso
invoco il deficiente e l’impenitente
l’importuno e il rivoluzionario

Venite a pisciare nel mio cesso
c’è spazio per tutti: pisciate a più non posso
lo chiedo allo sgarbato al guardone e al maleducato
c’è posto per il matto il seduttore e per l’incantato

Vieni a pisciare nel mio cesso
chiunque tu sia senza distinzioni di razza, religione o sesso
chiamate il bugiardo, il delinquente e pure il ladro
invitate il malato il povero e il diseredato

Vieni a pisciare nel mio cesso
non ti vergognare vieni adesso
che non manchi l’eroe il debole e l’oppresso
venga l’indegno e soprattutto il disonesto

Venite tutti a pisciare nel mio cesso
venite ora, non aspettate vi facciano il processo
aspetto il rinnegato, il disincantato e lo scomunicato
e per favore ricordatevi dello smemorato

Vieni a pisciare nel mio cesso
vieni a renderti conto del tuo contributo all’universo
vieni a mischiarti con i tuoi amici e i tuoi nemici, ai tuoi uguali e a chi ti è diverso
vieni a pisciare nel mio cesso

vieni a renderlo unico e inconfondibile
contribuisci al suo tanfo e alla sua puzza
inondalo del tuo calore e della tua bile
vieni a constatare la sua acerrima bellezza

vieni a pisciare nel mio cesso
corri per confondere le acque
vieni a godere dell’unione non essere perplesso
corri per ciò che mai non tacque

Vieni a pisciare nel mio cesso
non dimenticarti di nessuno, del bastardo o del mai-nato
del figlio di puttana e nemmeno del fesso
c’è posto per tutti in questo universo disordinato

Vieni a pisciare nel mio cesso
faremo festa e non ci pisceremo addosso

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27
Nov
2010

Lievi spostamenti d’aria

Il blu.
Mi stupisce ogni mattina, ogni volta che esco, ogni volta che stropiccio gli occhi assonnata in giardino di notte e mi pare assurdo leggerlo sempre come un cantico.
Poi, quando chiacchiera invadente imponendo la sua presenza tra noi è l’unico amante che condividiamo senza gelosìa alcuna, nonostante s’insinui tra i nostri sonni intrecciati, abbraccio tra gli abbracci, Pensiero divenuto goccioline di pioggia, compagno di nostre scorribande adolescenziali, nonostante noi.
Trattieni il respiro mentre mi assorbi con gli occhi, le frasi comuni appaiono d’autore, lo stesso, che per secoli ha cantato, ucciso, compiuto gesta inverosimili, ha reso i vili eroi e gli eroi dei vili.
Lo stesso che ruba la dignità o la rende a caro prezzo, lo stesso che spacca i cancelli ed entra violento o si apposta furtivo dietro una rosa rossa.
Lo stesso che ha il potere di mandare all’inferno o in paradiso, quello che fa sussurrare ‘ti amo’ a chi credeva di esser nato per urlare la voglia di non essere e crederci sino al punto di puntarsi una pistola alla tempia.
Ecco cosa ci è successo.
E Lui si sfuma nel viola di un’altra alba
rendendoci sacri
rendendoci unici
rendendoci lieve spostamento d’aria
tra le dune di un deserto popolato solamente dalle nostre
dita
sinuosamente
intrecciate.

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26
Nov
2010

Indietro

Siamo il futuro accucciato tra le foglie di un albero che ostenta la saggezza del presente
nascondendoci spiamo il cielo
riflesso del riflesso di un ricordo mai assopito
e nemmeno riaffiorato.
Il cielo sembra l’onnipresente miraggio e aspetta anche lui
sornione
ogni sobbalzo dell’anima trasformandosi ora in un mostro che m’illude di esser finalmente divorata
ora in uno schermo gigante capace di capolavori spettacolari e fantascientifici
ora in santità.
Io, piccolo segno del mio destino
sono terrorizzata dalle catene umane
mentre le catene surreali nutro e di esse
mi nutro e mi avveleno
spalancano le fauci sulla testa coperta dalle mani
e nelle mani
solo un muscolo si muove, quello del guerriero che ha come costante la forza del caos.
Non posso essere una donnina capace di guardare in faccia l’amore io
perché sono troppo fragile per saperlo tenere alle dovute distanze
allora vorrei essere la spugna che cancella ogni istante di felicità
e poi
ridisegnare qualcosa di nuovo che come sempre si ripete
e vorrei scappare via, via
fino a raggiungere la mia foresta
ed io
mio castello incantato
dove vive la bambina che non smette di rendersi schiava dei suoi sogni.
Aiutami a non scappare via ancora una volta.

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22
Nov
2010

“ma che ne sapete voi dell’amore…”

Non mi spiegavo cosa mi spingesse così lontano dal mondo.  Quando la guardavo,  la terra, mi sembrava piccola e brulicante di vita. Vita si,  ma densa e costellata di azioni inutili. Tutte quelle persone, vecchi, donne, bambini, giovani, sprecavano il loro tempo, lo lasciavano fluire e io con loro, per poi chiedersi dove fosse finito tutto quel tempo. Adesso la mia attività preferita, scrutare le onde, mi sembra di gran lunga più edificante. Il tempo si ferma quando sei in mare e l’acqua ti domina, ti scuote, ti solleva. In quest’acqua, a tratti cristallina, a tratti oscura, che si muove e si increspa o diviene un letto, quest’acqua la nasconde. Lei così grande, così bianca. Gioca con me, con la mia pazienza e l’impazienza, con la mia vita. Cosa mi spinge a cercarla. Lei è la mia vita.

Nuovi mondi affiorano il lei. Sono impalpabili come il fumo di una gustosa. Il tavolo  sporco di polvere bianca e sottile e cerchi concentrici rossi. Lei ci dorme sopra. Sogni meravigliosi. Poi suona la sveglia e lei deve uscire. Scosta con indolenza un tizio che dorme sul suo divano ma soprattutto sulla sua maglietta di Sid Vicious. Indossa calze pesanti, gialle, fluo. Stasera incontra l’amore. Quella di una notte, profondo, intenso ricco e fraterno amore frugale.

Agnes prega. Ricorda subito dopo, guardando la sua lapide immaginaria, che non crede. Nel silenzio e nelle urla dei detenuti accanto a lei spera che un altro giorno passi, ma effettivamente non riesce a tener conto dei giorni. Le mani, gli occhi, i piedi non hanno più forma. Il lavoro sta distruggendo il suo fisico. Il suo spirito è ancora forte. Questo i tedeschi non sono riusciti ancora del tutto a sconfiggerlo. Sa che gli alleati stanno per sbarcare nell’Italia del Sud e conoscendo le doti dei soldati italiani a breve saranno nel nord europa. Queste informazioni di solito costano un mese, due, di lavori forzati o nel peggio l’isolamento e la privazione dell’acqua. Agnes lo sa, ne è sicura. La guerra finirà presto. Adesso preferisce immaginare  il futuro guardando nei ricordi tutti i volti della redazione clandestina “Resistance”. Alcuni di questi volti pensa che non li rivedrà.

Emma sorride. Perchè la campagna si accende di luci e colori. Una passeggiata, lunga e con poche parole è ciò che questa giornata merita. Mentre  sulla via del ritorno pensa a cosa scrivere alla sorella lontana una volta a casa, sulla sua scrivania, stringe nella tasca dell’ampio vestito una lettera. E’ una sua lettera. Lasciata scivolare con uno sguardo silente ma trepidante di attesa. Le mani di lui sono grandi e nodose mentre invece la lettera sembra così fragile. La stringe in quella tasca da una settimana, ma non ha avuto ancora il coraggio di aprirla.

Mentre a pomeriggio correvo verso la presentazione di un libro, mi sono ricordata che oggi c’è lo sciopero della cultura. L’unica cosa che pensavo ascoltando lo scrittore che incantava e commuoveva con semplici storie, con parole lievi e pesanti di una verità sconvolgente, è che chi taglia la cultura, forse non si è mai chiesto quanto un libro a volte può cambiare una vita. Mille vite.  Mille libri che un post non può contenere. E che questo con l’economia non ha nulla a che fare.  Ma forse, mi viene da pensare, cosa ne sanno loro dell’amore.

Titolo tratto da “La cotogna di Istanbul”.

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21
Nov
2010

Quasi inverno

-Io non voglio l’esclusiva su di te. – dice secca Scarlet, strappando il silenzio tranquillo della camera in penombra.
-Mi stai facendo perdere di vista i miei obbiettivi. -, aggiunge dopo un attimo di silenzio, quasi soppesando le parole.
La seconda frase non si collega alla prima, ma la completa, pensa Scarlet.
Massimo è nel dormiveglia, non la sta ascoltando. Non è innamorato nè preoccupato, sta solo riposando. Non c’è nulla di cui potrebbe lamentarsi, in fondo; o per meglio dire, non c’è nessuno motivo impellente per lamentarsi, rovinandosi la giornata.
Massimo non le sente, le gocce contro il vetro della finestra; ma Scarlet sì, riesce a separarle e sentirle una ad una picchiare contro il miocardio.
E’ seduta su un letto neanche troppo caldo, abbracciata alle sue ginocchia nude, su cui poggia blanda una copertina di cotone color panna. Con le luci spente quella camera straniera le è meno ostile, quella pregnante sconosciuta familiarità è cancellata dal buio. Forse non è stato il giorno a chiudere gli occhi, forse è stata lei, si dice Scarlet.
Per tutte queste notti a far notte è stata lei… E nessuno al mondo lo sa! Accenna a un sorriso quasi dispiaciuto, che viene subito soffocato dall’insipida stasi del momento, da quella calma di gesso che le impagliava il cuore, in quelle lunghe mattine che seguivano quelle notti sfuggenti; e la vita che era stata spogliata e mostrata per quello che semplicemente era, ora, lontano dalla consolazione di una carezza o di un gesto, restava una statua immobile, banalizzazione di se stessa, fredda nel suo blocco di marmo.
Massimo si gira dall’altro lato, tirando a sè le lenzuola: il suo corpo le dice di non disturbare, di andare via se ormai è sveglia. Scarlet stringe le ginocchia al petto e ci poggia sopra la guancia, guardando la schiena di Massimo disegnata dalle pieghe della stoffa. Vorrebbe disegnarlo ma non ha i colori giusti. Scarlet si volta e poggia la fronte sulle ginocchia. I capelli neri le coprono il viso e cadono sulla coperta. Il suo corpo chiede un abbraccio che non riceverà mai. Ha troppe spine la sua corazza.
La notte è finita e Scarlet va via, come i sogni. Ma non è questa la verità. La verità è che Scarlet va via perchè viene rimpiazzata dai sogni. Non c’è più spazio per lei nel letto. Massimo si riposa, ma non da lei. Si riposa dal giorno.
Lei è il suo palliativo per andare a letto senza pensieri. Non lo calma, lo svuota.
Lui è la sua cura all’autolesionismo, si dice Scarlet. Ma non lo sa se è vero, perchè non gli dà la colpa di niente.
Quale colpa?
Scarlet scivola giù dal letto e indossa i vestiti che aveva piegato in ordine sulla sedia, attraversa scalza la casa addormentata, prende in mano le scarpe sul pianerottolo ed esce. Massimo non le sente, le gocce contro il vetro della finestra. Scarlet invece sì, è uscita nella pioggia, e ora è lei la sua finestra, in quella camera così buia, così familiare; e può separare le gocce di pioggia e sentirle una ad una battere contro i suoi capelli, contro il suo stomaco, contro la sua coscienza.
Scarlet resta lì, ferma, finchè anche lei non inizia gocciolare.

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20
Nov
2010

Marco e le favole (prova #1)

Marco crede alle favole, alle belle storie, ai lieto fine. Marco crede che tutto da una certa particolare prospettiva possa essere ridotto ad una dimensione fantastica, indiscutibilmente e senza ombra di dubbio splendida per tutti.
Marco ne ha ventuno, di anni. Alle favole, alla sua età, non dovrebbe mica crederci. Ma lui è positivo, convinto della sua idea un po’ come lo sono quelle persone che credono in Dio ma solo quelle che riescono a vederlo manifestarsi nelle cose del mondo. Perché Marco le favole le vede dappertutto.

Due mesi fa è morto suo nonno, “il rivoluzionario” come lo chiamavano gli amici. Non per le sue idee politiche che a farla breve si riducevano a “io voto Togliatti” ma Togliatti, c’è da dire, era morto che erano ormai passati un bel po’ di anni.
Non c’è bisogno di dire che era un tipo bizzarro suo nonno. C’è della gente che sorridendo racconta d’averlo visto camminare sotto la pioggia col suo immancabile cappello e un lavandino sulle spalle; uno di quelli per le cucine, di acciaio. Cioè pioveva… e lui si portava ‘sto lavandino sulle spalle fermandosi anche di tanto in tanto a parlare con i soliti amici del bar. “Perché il lavoro fortifica il corpo e gratifica lo spirito” diceva.

Quand’è morto suo nonno Marco non era al paese. Era andato in città per seguire in TV lo sbarco sulla luna. Suo nonno, lui, mica l’ha più visto e quando la madre gli ha detto ch’era “scomparso” Marco, come sempre, s’è fatto la sua favola: s’è immaginato il nonno suo lavorare a quell’impresa tanto ardita perché, secondo lui, “il nonno era pure ingegnoso” oltre che “rivoluzionario”.
Un “rivoluzionario ingegnoso” o un “ingegnoso rivoluzionario”. Su questo era ancora indeciso perché si sa che sono due cose molto diverse.

Così Marco s’è ritrovato senza nonno ch’aveva da poco compiuto ventun anni, l’uomo era appena andato sulla Luna e nonostante la guerra fredda stavano iniziando gli anni settanta. Comparvero le radio libere che trasmettevano sogni, la TV a colori, le droghe sintetiche, le discoteche, le Brigate Rosse che a ritmo di rock cercavano di far valere le proprio idee…Comparvero variabili e alternative che lui non aveva calcolato ma niente riuscì a fargli smettere di credere alle favole.

Perché con le favole è un po’ come con Dio: o ci credi o non ci credi.

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18
Nov
2010

Dio esiste e vive in Svizzera*

Il colpo perfetto.  Tutti i più grandi ladri della storia hanno una teoria personale sul colpo perfetto. La teoria più bella e  sincera per Nicole è sempre stata quella del suo maestro. Per il maestro, detto “il fischio”, un colpo riesce pienamente quando semplicemente non ti arrestano. Per non farti arrestare devi riuscire al cento per cento in tutto quello che precisamente hai progettato nei minimi particolari. Ovviamente, alla base, ci deve essere un buon piano. Un colpo perfetto è, a detta del fischio, come una macchina che funziona. Dato il via, girata la chiave, schiacciato un bottone, ogni meccanismo al suo posto si muove all’unisono, creando un movimento che crea altro movimento, energia che si propaga e si trasforma. Un colpo perfetto è come l’amore. Non esiste. Se ti riesce è solo perchè hai avuto culo. Nicole ricorda bene il suo maestro. In un momento come questo, invece di liberare la mente e agire, Nicole si mette a pensare al fischio e all’ultima volta che hanno parlato. Attraverso una grata di vetro e due occhi rossi e stanchi. Ogni ruga del fischio conteneva un segreto inconfessabile.  ” Tesoro bello, tu devi lasciare questo lavoro. Non è per te. Sei venuta qui per salutarmi e per sapere cosa ho sbagliato, cosa è successo, o magari il segreto del colpo perfetto. Ma come faccio a dirtelo. Io so solo quello che un colpo perfetto non è.  Puoi scegliere le persone giuste, fidatissime, anche tuo fratello se vuoi. Puoi costruire un architettura infallibile e che solo tu conosci. Ma solo un piccolo, insignificante, contrattempo può generare la fine e la disfatta più completa. Quello che ti dico è che solo di una cosa sono sicuro. Quando da piccolo ho passato il confine dall’Italia alla Svizzera, nascosto sul seno di mia madre che fuggiva dai fascisti, ho guardato per un attimo il cielo. E io ne sono sicuro, Dio esiste l’ho visto e vive a Ginevra.”

Un colpo perfetto. Nicole, chiamata anche Eva, Corinne, Andrea, Mya, a seconda del colpo, si trova sul confine a due passi. Ha la valigetta. Il colpo è riuscito, in pieno. Peccato solo per un piccolo e insignificante particolare. Nicole ha sbagliato strada. I suoi compagni adesso la aspettano in quel punto preciso, studiato da giorni, dove una siepe di more rosse segna un confine immaginario.  Accanto una stradina che porta ad un casolare. In quel casolare vi è una macchina con cassa da morto già pronta per il trasloco del materiale. Tutto perfetto, tutto preciso, una macchina. Peccato solo che Nicole ha sbagliato strada e ora non vede nessun cespuglio di more. Per di più ha anche forato. Ferma al bordo di una strada deserta di montagna Nicole inizia a preoccuparsi che il colpo stia saltando. Una sfortuna sfacciata. Una macchina si avvicina. Nicole sente il suo cuore pulsare velocemente e adesso deve pensare, deve pensare, deve agire. Ma un groppo allo stomaco blocca qualsiasi cosa. E’ una macchina della polizia. La macchina si ferma dietro di lei,  i due agenti scendono lentamente e le vanno incontro. Nicole spera di trovarsi in un incubo, le divise che gli agenti indossano la mettono in agitazione, avverte un prurito immaginario.  Ma si pizzica e non si sveglia.  I due agenti le chiedono se ha bisogno di aiuto. Nicole sfodera un agiatezza e una sicurezza che spera nasconda la sua ansia. Ma le mani tremano e la voce è fioca, intermittente.  I due agenti sembrano insospettirsi e le chiedono da dove viene, dove sta andando,  soprattutto alle sei di mattina.  Nicole abbozza qualche scusa con perfetto accento italo-francese mentre il cellulare di uno dei due agenti squilla in macchina.  Nicole percepisce qualcosa di fortemente negativo,  si alza un vento gelido e delle nuvole scure iniziano a coprire il cielo. Il confine è lì a due passi. Uno degli agenti si dirige verso la macchina e risponde al telefono, l’altro più giovane, le sorride malizioso. Nicole con lentezza si avvicina alla portiera posteriore e la apre prendendo la borsa e la valigetta, cercando di intrattenere il giovane e ingenuo agente che non sembra ascoltare la telefonata all’interno della macchina molto più interessante.  ” Ho capito, la fermo subito e la porto in questura.”  Nicole ha la valigetta in mano e pensa solo ad una cosa.  Al colpo perfetto.  Alla sfortuna. Al piccolo particolare che le è sfuggito per la riuscita del piano.  Il nome della strada sbagliata, ora ricorda. Mentre Rico, dispiegando le cartine sul tavolo, le spiegava la strada giusta nel bivio tra via del terrapieno e via Vittorio Emanuele,  lei pensò che Vittorio Emanuele era il nome di un ex che l’aveva fregata di brutto.

Così Nicole corre, con quel pensiero, un errore imperdonabile. Il confine è lì a due passi e Nicole ora corre e non pensa più a niente, neanche alle grida dell’agente che la insegue.  L’altro, quello giovane è a terra, colpito in pieno dalla valigetta in metallo.  Il confine è lì.  Non pensa e non sente.  Corre solamente. Gli spari la sfiorano.  Ciò che vede a ridosso del confine è una nuvola in cielo. Ha le sembianze di un vecchio signore che si appoggia ad un bambino dal volto sorridente.  Si, pensa, Dio esiste e vive in Svizzera.

*Il titolo è veramente apparso su un articolo del City.

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18
Nov
2010

Akrospolis

Ed è forse davvero un cammino dalla testa ai piedi, dall’alto verso il basso.
All’inizio è allo stomaco che prende, come un feroce e ridondante senso di nausea, come un malessere, simile a un rutto, ci strozza la gola, lentamente. Esiste un prima, ed esiste un dopo, ma il dopo sembra così poco chiaro nella sua profondità, così inutile il prima, il durante come una chiave di volta, regge il peso della struttura, mentre il corpo si scioglie.Ed ora inizio a vedere i pensieri, incomincio a distinguerli, e a seguirli, senza sforzi. Mi accorgo di essere finito, mi determino,e a poco a poco mi perdo, in un dove conosciuto, familiare.Il sangue chiama, il cuore esulta, il corpo non esiste, non riesco a ingoiare la saliva, il corpo ne produce troppa, il corpo non esiste, non è un mio problema, non più. E vorrei stendermi un’attimo, vorrei chiudere gli occhi, ma così perderei quasi certamente lo spettacolo creativo. Vorrei parlare, dire qualcosa, ci penso su, metto in fila cinque o sei parole, muovo le labbra, non sento nulla, restano li, ma in fondo va bene.E la tazza di caffè è li a fumare sul tavolino, il mio sangue come quel caffè, il mio corpo come quella ceramica, e si scalda, e fa caldo, e mi sento triste, troppo triste in quei panni. La camera si apre, la camera è un santuario, la camera è il mio corpo, il mio corpo è sacro, il mio corpo è una pianura,il mio corpo è una distesa interminabile, il mio corpo è tutto, afferra mari, si lega al cielo, e sa d’argilla, e odora di vento. Mentre il divano mi risucchia, e con me l’universo.E ascolto suoni descrivere la potenza del vivido. La natura non puo’ tutto, la sua potenza non è divina, ne illimitata, la sua forza non poggia le sue radici nell’immaginazione, magari Dio, ma non lei, lei, che vive di necessità, di condizioni. Il mondo che si dispiega ia miei occhi è infinitamente vario e molteplice, eppure tutte queste cose, innumerevoli, diverse, sono abbracciate dal mio spirito, che diventa il loro, ed il loro che diventa mio. Qui non c’è Dio, ciò che turba il mio occhio, turba anche il sole. Qui non c’è Dio. La dualità è essenza naturale, l’unicità è fallacia interpretativa umana, la dualità non si confonde mai, è l’uomo che si allontana dal suo contesto, quello che gli è proprio, per elevarsi al di sopra delle bestie, oltre le montagne, camminare sulle acque per affermare la sua supremazia, per ricordare a chi non può per natura, di essere lui speciale, lui, volontà. La dualità è completezza, incompleta è solo l’unicità, chi è tutto non è nulla, ma il tutto può essere composto da tanti piccoli contrasti, tante piccole forze, è l’uomo non è che una componente del sistema.Dio non è altro che un bisogno dell’uomo, alla pari di una sega, o di una scopata. Dio è il mio spirito che cade in errore, che pecca di presunzione, che fa di vanità il suo vanto. È la dualità a generare il sistema, é l’opposizione, la contrazione, il riprendere fiato dopo averlo perso a reggermi in piedi. É l’uomo che genera Dio. Qualunque forma di vita nasce e muore, accettare la vita vuol dire accettare la morte. La dualità come motore immobile del mondo. Il cielo è fermo, il cielo è stanco di guardarci, è forse Dio!? Il cielo è forse Dio!? Ovvio che no, è solo un modo per unirmi al cielo, e partecipare alla sua forza, e limitare la mia; sapere quanto è lungo il mio braccio per capire il movimento da far compiere al mio corpo per arrivare alla tazzina, e afferrarla. Contestualizzarmi. Riappropriarmi di ciò che sono, afferrare dio, sottometterlo, sfondargli il culo, fottendomelo nel mio letto, tra le mie lenzuola, nella mia terra, sotto il mio cielo, tra campi e vecchie messaie, senza farlo godere.Ricordare all’uomo che non è nulla senza ossigeno, ma è uomo senza Dio. Venerare mio padre, venerare mia madre, venerare il loro amore, ad essi debbo la vita, e fermarmi a loro, senza arrivare ad Abramo, fermarmi alle cause prossime, fermarmi a loro. Non mi sento, ma vi sento tutti, e in quei tutti ci sono anch’io. E in quei tutti che vedo il mondo, e in quei tutti che poggia il mio sommo rispetto. È così che riscopro l’amore. E intanto la Mescalina si fa più invadente.

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17
Nov
2010

Ark-moe

Pensaci. La dualità se perfettamente calibrata genera incompletezza. Una negra che nel giro di venticinque minuti sfugge lentamente dal finto apprezzamento in cui è avvolta per poter raggiungere un insipido ignoto, sfiorarlo, guardarsi intorno e poi perderlo di vista ne è la prova.
Rapito dall’attenzione. Stroncato dal troppo ascolto, dalle troppe letture, praticamente ammazzato alla milza da melma semantica. Ridotto un rottame. Eppure è lì, col ginocchio leggermente flesso a sostegno del catorcio umano quale è, col naso protratto in avanti, in espressione ineluttabile.
[vibrazioni]
Ritmicamente segue il susseguirsi della ripetitività sonora e visiva con rapporto molti a uno. Potrebbe essere in mezzo a ventimila, quarantamila, con o senza una pista d’atletica, oppure nessuno. E’ buio, nuvole in banchi di glicerina e tetraidrocannabirolo infuso rassicurano l’ambiente occludendone la vista. La pista non è vuota, ma cosa importa? In questo mondo puoi solo muovere i piedi, niente mani in aria o contatti di ogni genere, se vuoi tienile in tasca o chiuse in pugno, ferme dietro la schiena. Il problema è che la notte, sotto l’influsso di numerose sostanze, melatonina compresa, suona tutto meno distante. La sorpresa è che solo le persone non presenti paiono così belle e interessanti, sembri quasi innamorartene. Fortunatamente, esiste un limite a quel mondo, ed è il riguardarti dal pensare. Puoi scegliere di farlo, ma solo plasmando il male, o la solitudine e l’inganno. Tutti contro tutti e l’egoismo è scomparso. Il nuovo Noè è la paura dell’altro: affiora, unisce e colora due di ogni specie; anime gemelle che ne precludono una terza, è la dicotomia perfetta. Chi ne è fuori non merita, stasera si copula, e all’insegna dell’evenienza. I sapori, gli odori, gli umori di squilibri idro-salini, del magreb, dei margarita, di birra e sigaretta. Soli in mezzo a tanti e fuori il flusso degli eventi.

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16
Nov
2010

il mal di stomaco

Veronica non credeva sarebbe potuta essere così felice. All’inizio era la giostra, che aveva cominciato a girare, piano, cigolando; e l’aveva portata sù, un pò più sù, sospesa a mezz’aria mentre lei si domandava se davvero si poteva essere così leggeri, e se non conveniva scendere, e se si potesse volare, volendo, nel mentre, o anche dopo. Poi, da un certo indefinito punto, la giostra con lei dentro si era fermata, e aveva iniziato a girare il mondo. Lei si sentiva come quel ragazzino che aveva visto una volta da più piccola, in un cartone: un ragazzino che aveva deciso di rimanere tale per sempre e poteva stare fermo a galleggiare nell’aria come se nulla fosse; e volava.
Veronica chiudeva gli occhi ritmicamente, come ogni volta che era molto emozionata, e non riusciva a trattenere quel sorriso che non era mai arrivata a completare, e che restava sempre un abozzo di sorriso, che dal di fuori poteva sembrava una smorfia, e poteva mettere paura. Veronica non lo sapeva, fosse stato per lei non avrebbe mai sorriso, ma poi certe volte gli altri le davano retta, le raccontavano belle cose, o cose imbarazzanti per loro o per altri, e lei provava una specie di piacere, una certa soddisfazione, quasi una comunione con gli insuccessi del mondo, e dalla pancia le saliva quel mezzo sorriso d’acciaio, che si allargava sulla bocca senza mai salire troppo, e piegandole all’insù le sopracciglia, nello sforzo di trattenerlo, o di capire.
Se si guardava i piedi, quelli restavano perfettamente fermi, a fuoco, la punta dell’uno contro quella dell’altro, nelle sue piccole vecchie scarpe argentate. Se guardava fuori, tutta la gente era diventata una macchia di colori strascinati in cerchio, come se qualcuno ci avesse passato sopra un pennello bagnato mentre la creazione era ancora fresca: e urlavano, ridevano, chiamavano nomi, coperti dal frastuono di una musica che aveva sentito spesso, una delle poche che conosceva; non che l’ascoltasse, lei non ascoltava musica, però quella la sentivi sempre, anche in macchina quando tuo papà ti accompagna a lezione la mattina; da anni la sentiva. E quindi si sentiva meno a disagio, così, anche se non c’era nessuno che gridasse “Veronica!”, lei non ci faceva nemmeno caso, guardava il vortice con un pò di paura mista a onnipotenza; su quel seggiolino c’era solo lei, e solo lei poteva volare, e nessuno poteva prenderla in giro perchè lei da lì non li avrebbe mai e poi mai sentiti, e i loro vestiti non erano migliori dei suoi, e non importava più che lei non avesse la patente, che fosse sleale, che godesse quando gli altri stavano male perchè soffriva quando gli altri stavano bene.
Poi piano piano il mondo si fermò; lei aveva ancora le gambe che tremavano e lo stomaco in gola. Ringraziò Francesca molte volte, con la sua voce strana, che saltava di tono all’improvviso in gridolini che strozzavano i nervi e ferivano i timpani. Poi arrivarono alla macchina del padre; nel tragitto Francesca si raccomandò molte volte di non raccontargli niente: lei lo avrebbe fatto lo stesso, se non fosse stato che si era divertita, e si sentiva in colpa anche lei, ed era impotentemente eccitata dall’idea del segreto, dell’amicizia, del mal di pancia.
Il viaggio in macchina trascorse tranquillo, l’aria era un pò tesa, lei cercava di smorzare il sorriso e continuava a sbattere le palpebre e modellare la faccia in smorfie più serie che sembravano quasi mostruose. Il padre per fortuna non la guardava nemmeno. Ascoltava l’opera su radio tre, e fissava la strada davanti a lui.
Quella notte dormì felice, con una strana sensazione nello stomaco, e i piedi che le formicolavano da quell’emozione che non riusciva più a contenere in nessun modo. Non capiva.
Erano le sette e diciotto quando prese la tazza di latte caldo dal microonde e fece per portarla nella sala. Di solito era la madre a prepararle la colazione, mentre il fratello si serviva da solo: lei non ci aveva mai fatto caso, aveva fatto sempre quello che le avevano detto di fare: ma oggi si sentiva ok, poteva fare anche lei quello che fanno tutti. Mescolava il latte e andava verso la porta. Allungò il braccio per spegnere la luce, ma, presa dai suoi pensieri, non riuscì a coordinare il movimento, cadde in avanti contro il muro e la tazza volò per aria; il latte schizzò su tutta la parete, su tutta la busta della spazzatura differenziata, sulla porta e sulle casse d’acqua, per poi riversarsi per terra insieme a mille cocci di ceramica bianca.
Veronica rimase lì, poggiata al muro, al buio, paralizzata dalla paura, in mezzo a quel macello.
Avrebbe voluto piangere ma non ne era capace.

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