28
Mag
2011

Dead dog walking on the road

Era uno sporco ed umido lunedì, giorno timido del Maggio che presto si sarebbe piegato all’impavido Giugno lasciando al suo vento iniziale più forti istinti a domandar del corpo l’azione. Un mattino sudaticcio, un pavimento appiccicoso, delle persiane rotte tirate su da un sole lungi dall’esplodere. Il giorno inizia così, cammina col tazzone di caffè ancor caldo riempiendo il soggiorno della sua magra figura coperta solo da degli orribili mutandoni bianchi, la radio è  accesa, annuncia il buon giorno, passa della musica blues.  Ha ancora gli occhi chiusi, poggia la mano a reggergli il mento, sono le otto ed i suoi gomiti puntano al tavolo. Non è  affatto sveglio, ma non ci vorrà molto, accadrà presto, solo ora, dategli il tempo di rifletterci su, cercate di capirlo, da tempo la sua vita a preso questa piega, va’ avanti da un po’  e non è un disturbo, né qualcosa che si cura, non serve medico, solo un motivo, ed egli tarda a trovarne uno, ho forse parlato di donne!? Ecco appunto!
In questa casa c’è solo un tipo in mutande or chino a lavar i denti, e una radio che continua a ronzare blues, e se provassimo ad addentrarci in quel bilocale, noteremmo che è completamente sprovvisto di qualunque strumento utile alla conclusione d’un rapporto, né atmosfera, né ordine, insomma, completamente inadatto ed impreparato. Non che lui ci pensi, ed è infatti questo il punto, visto che qualunque cosa gli stia passando per la mente è modo comune accomodarla all’uscita così, senza un vero è proprio scacciare, solo un leggero accompagnamento, fin quando quel pensiero non c’è più. Certo non roba da lui, così onesto con sé stesso, così razionale, così mansueto, non si può dir che sapesse sempre come comportarsi, certo ad egli era molto chiaro il come non volesse comportarsi, e questo bastava. Andava avanti così, senza tirar giù a picco nessuno, con se, in quel abisso che non aveva ancor saputo riempire, e forse mai avrebbe trovato modo, lui e il suo caos, un rapporto di per sé faticoso, difficile sarebbe stato includere un terzo elemento senza rischiar di saltar tutti all’aria, e poi, in fondo, non aveva mai funzionato. Eccolo, a sciacquarsi la bocca col bicarbonato, roinfrescato avanza verso il balcone attraversando la camera, le tende son ferme, le tende sfibrate dal caldo sembran secche, a piedi scalzi guarda fuori, le antenne ossidate dall’aria, i balconi, i passanti, le immondizie e i topi; siamo a Napoli, in un giorno che di per sé non vuol dir nulla eppure…
<<vince il candidato voluto dal basso, la maggioranza e l’opposizione dovran rivedere le loro politiche, vince la legalità, vincono i giovani, vince Napoli>>. La radio annuncia i risultati elettorali, pochi secondi di silenzio generale,  la città attonita, quasi un mancamento globalizzato, poi vi fu un’esplosione di rumori, clacson, trombette, e tanto fracasso, ad emular per un momento quei piccoli paesini di campagna e il loro clima accogliente, ebbene si, Napoli è in festa, il nuovo arriva anche qui, il nuovo siamo in tanti a volerlo, è ufficiale, ecco cosa festeggia la città; la sua primavera. Una nuova gioia a scaldar i ventri di tutti, dopo anni di rabbia, di dolore, di sangue, di fronte a piccoli sciacalli e iene in ordine sparso, senza Stato.<<Ora il sindaco dovrà vedersela con la munnezza, ma nell’aria c’è fiducia, sotto il nostro studio vediam festeggiare, sembra quasi che dei problemi di ieri l’oggi non voglia farsi perseguitare, felici dunque facciam gli auguri al nuovo sindaco, un imbocca al lupo per il suo mandato, buona fortuna!!!>> .  Ora si siede, anche  lui come molti è commosso, solo che  qualcosa in un lui, a differenza d’altri, sta premendo per venir fuori rinfrancato dal lieto evento pronto per uscire e forte, ma d’una forza a lungo cercata tanto da non esser stata più attesa. Ha bisogno di manifestarsi, ha bisogno di trovar conferma, forse l’ultima, questo non sa, tantomeno so dir io, ma ora, presto, si veste, lo fa in fretta, ha gli occhi che vedon ben oltre il cassetto della biancheria, scava con le mani tra le calze, ne prende paia e paia, poi passa alle mutande, e continua con maglie pantaloni, felpe, sacco a pelo, non è molta roba, riempie uno zaino senza sembrar goffo. I documenti, qualche soldo, lascia il cellulare, scrive un biglietto agli amici, prende un cappello in paglia dura e va’.
Dove nessuno sa’, neanche lui.
30 Maggio 2011 i primi a preoccuparsi saranno i genitori, poi i fratelli, ed infine gli amici, e tutto avverrà in modo così graduale, così perfettamente come pensato, così fedele a quanto la mente proponga da lasciargli in volto uno scavato sorriso, che trattiene con ostinazione nel suo andare, persistente, come la sua gioia, che continua a muovere i suoi passi, procede pensando a come resteran tutti di stucco, divertito da quel suo immaginare continua ad addentrarsi nelle vite che ritiene in comunione con la sua,e già volge al pensar gli amici, già li vede a raccontar di lui alle cene negl’anni che verranno. Sente che è il suo momento, il suo grande giorno, sente che è l’inizio soltanto, fiero marcia in strada senza meta, fiero guarda i cumuli di pattume ragguagliati al ciglio della strada, fiero della sua scelta, quasi a voler urlare ai quattro venti <<finalmente!!>>. Accidenti! Pensar così tanto senza mai agire, ripetersi in quell’eterno parlarsi addosso, ebbene torna alla luce e lo fa il trenta di Maggio alle otto e trentasette minuti, tempo di reazione alla notizia: un minuto e ventidue, sua madre nel partorirlo ci mise di più.

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26
Mag
2011

Terrestri

“È un vero peccato che il caldo bruci la gioia di un cielo così limpido. Lo stavo aspettando da mesi, e mesi; all’ombra di una tenda grigia di freddo pioggia e stoffa acrilica, a coprire un cielo bianco elettrico. Tensione.
Questo cielo mi esalta ma questo caldo mi stronca. Mi fa colare giù per la schiena ogni goccia d’energia. Mi ritrovo schiantata a terra, alla ricerca del sollievo in un giorno che guardato dalla finestra sarebbe invece di per sè così lieve.
La stagione degli amori è passata, e chi non ha avuto fiori non farà frutti. In macchina con Sara insultiamo l’insegnante, deridiamo tutto il suo cipiglio, le sue teorie mistiche che a lezione sembrano così importanti, così pesanti da schiacciarci, sotto l’enormità di qualcosa che è così semplice da essere quasi niente, come la spontaneità; e che poi viene intessuto di mille teorie e proposte e conoscenze e presupposti e apparenze e pratiche e opinioni e impressioni e lucidato d’orgoglio e superbia della macchinazione. Tutto il tendaggio pesante, l’arazzo della sua immagine crolla, sotto il suo stesso onere; lui resta una personcina nuda e ridicola che corre tra i nostri discorsi urlando e saltando a ogni puntura, reso sempre più piccolo da una sincera risata.

 

Gli animali ridono? Il mostrare i denti è simbolo di aggressività. La risata nell’uomo nasce dall’aggressività trasposta in scherno, come un ridere di, un mostrarsi superiore a qualcuno o qualcosa. Prendere il sopravvento.

Poi a lezione l’aria torna piatta e il mio stomaco è più leggero. Svuoto la mente e non ci penso, prendo la mia sedia, è estate ormai e non so come farò a sopravviverle, ma sicuramente i giorni andranno avanti, e di questo sono certa.
Sono la massaia che riempie le ore. La massaia della mia vita, la cameriera del mondo.
Poi arriva la sera e si alza il vento. È calmo, freddo. Adoro la luna di queste sere. Adoro andarci in contro mentre vado verso casa, come se potessi tornare alla luna. Ma la luna piano piano sparisce dietro mille case, mille storie, mille città.

 

Le prime volte che viaggiavo di notte non riuscivo a prendere sonno, guardavo l’infinità di luci blu e bianche che mitragliavano la vallata oltre le barriere, e mi si contorcevano le viscere; vedevo una casa più vicina e smaniavo per poter entrarci dentro, guardare almeno dalla finestra: chi c’era? cosa faceva? Perchè scorreva via da me senza nemmeno aver avuto il tempo di annusare l’aria che ci lasciavamo dietro… E quante persone, quante, mi sarebbero interessate; quante avrei odiato, da quante avrei imparato…. era tutto lì, cavolo, era tutto lì, in quelle enormi vallate di luci!
Poi il tempo è passato, ora delle notti in autobus mi porto dietro solo un gran mal di schiena.

Mi mancano i nostri discorsi, i tuoi sguardi che mi bucavano l’anima. Mi manca quel silenzio che in questo silenzio non troverò mai. Mi manca quel vento che è passato via portandosi le nostre parole su fino allo spazio aperto.
Non voglio più che il vento mi porti via qualcosa di importante. Ma sento questo vento che mi porta via il sudore e mi lascia il suo gelo, e capisco che non potrò resistere a lungo triste, sotto un cielo così azzurro.

Vorrei soffiare il vento, vorrei piangere la pioggia. Ma ormai sono una donna.”

 

-Ecco come trasformarlo in un racconto-, disse Anita chiudendo la lettera.

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21
Mag
2011

Empati-a

Uno strano vento a spiegar le membra, ed io come plastica, volo.
La strada mi chiama, son passi lenti quelli che seguon, piccoli vero, ma pur sempre passi.
Non v’è cosa ch’io tocchi senza segnare, similmente ad’un aratro, rompo le zolle, scavo la terra, lasciando al sole le ustioni; non m’affeziono al dolore, lo tratto come fosse un mio oggetto, essenziale e scomodo allo stesso tempo. Mi muovo nel dinamismo sociale, gl’entro dentro e appena stufo, appena vuoto, salto fuori, come un coito interrotto, pronto a riempirmi di nuovo. Non so dominarlo,
non domino, nulla, nessuno, a stento costringo me stesso. Strangolo l’emozioni scomode, nutro le passioni utili, impongo le mie volontà al mio corpo, eppure in sordina s’annusa, s’accusa, l’ammutinamento.
Una vita stentata, passata a lasciar impronte; su ogni oggetto o mobilio, ogni ritratto, vecchie foto, soprammobili compresi. Finisci coll’essere circondato dalle stesse, finisci con l’essere preda d’un’agguato, e son loro a tendertelo. T’aspettan  rigide, rabbiose; t’odian  da una vita per il troppo  e mal amore dato, non sai resisterle, son troppe, tante piccole immagini, tanti piccoli dubbi.  Tu le comprendi, tu le giustifichi, ma parti del tuo cuore o meno, ora muovon verso te,  devi difenderti, oppure, lasciarti al fallimento.
Ed i tuoi simili, eccoli, vedi?  Si stringon a te, certo ti perdonerebbero la fuga, ed anzi, già ti dicon d’andare, li senti sussrrarti : una strada vale l’altra quando si fugge, comodi, t’accasan pronti a esimerti, solo,
tu non te lo perdoneresti mai. Sarebbe  totale disfatta.
Ed ora  sai spiegar noi cosa  provi a morire,
per questo eletto primo uomo riuscito al fine, dominar perfettamente la volgare quanto sciatta paura.
é lei ad andar, mentre tu, viv’ancora…
A volte ti penso,  così mi scopro a compatirti, così mi risolvo; vado avanti, ti lascio indietro anch’io,
povera quanto ingenua vittima di te stessa, che già m’intristisco.
Dici di volere, dici di sapere, dici di sentire, dici d’amare,
e quel che non dici è quello che sei,
anch’io stretto nei tuoi vestiti!

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19
Mag
2011

opinioni

baratri profondi e spenti

colori diffusi

colori accesi

che le evidenze sono offuscate dalla miopia dei nostri sentimenti

e le paludose condizioni delle nostre aspettative ci ingoiano

ci ingoiano piano.

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14
Mag
2011

la precisa inesatezza dell’essere

Smettere di scrivere e’ rincoglionirsi nel paese dei balocchi scordandosi che scrivere e’ il balocco dei balocchi senza un paese e quindi senza territorio.

Amore mio, non posso cucirmi addosso qualcosa che non sono perche’ il ripetersi delle conseguenze della non essenza diventa un parametro e come tale e’ pura dimestichezza.Non sono fatta per le dimestichezze ne’ i parametri…sono cosi’ scevri dalle curiosita’ che abbassano il livello di guardia, o meglio,le difese immunitarie e un bel giorno ci si ritrova malati di normalita’.Le n-orme sono passi scaduti, come certi alimenti che diventano altamente tossici dopo un periodo ben preciso.Preciso capisci? …ed io voglio vivere della precisa inesattezza dell’essere.

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11
Mag
2011

ipocrisi-a

Quella dell’inferno è
stanza insolita per far canoscenza…
eppur siam qui, e tu
hai voglia di me,
di giuocare  ad altro gioco così partecipando,
all’ennesimo, massacro,
forse l’ultimo…
ma adesso siam qui,
solo il nulla oltre le pareti ed ora,
tra queste fiamme,
in questo foco,
dove le certezze, preste,  inceneriscono,
questo core carbonizzato si
riafferra alla vita e ritorna a battere,
facendo rumore… già!
Un puro quanto ingenuo fracasso.
E puoi gridare e piangere, puoi confonderti;
scomponiti,
so ch’è quel che vuoi;
non tornare indietro, piuttosto,
cerca tra il tuo corpo il mio corpo,
e mordimi, e leccami,
sbranami l’anima, o, quel che ne resta,
so che in questo sei molto brava,
non durerà che una notte…
perché siamo all’inferno,
ed è davvero  insolito
cercare, amore, in un posto così…
fragile

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09
Mag
2011

Primo giorno

Lui è li che si masturba, sul banco tiene aperto il libro di geografia, la classe è muta, la maestra è in piedi a spiegare come intende procedere nell’insegnamento della disciplina, è il primo giorno di scuola, e l’eco delle sue parole è accompagnato da un leggero silenzio ed un sordo stropicciare. Sergio sente qualcosa, nell’aria, dietro di lui, sta succedendo qualcosa, sforza la coda dell’occhio, l’insegnante è in piedi,  i compagni attenti, quel rumorino gli ricorda qualcosa, si insinua in lui un sospetto.
Sergio non conosce nessuno, è il primo giorno anche per lui, e non si sente a suo agio, alle medie veniva preso in giro, sa dir di se soltanto questo, tutto il resto gli è ancora  oscuro, tutto, così poco comprensibile, selvaggio, non si conosce affatto, né sa prevedere il futuro.
Sergio è attento, guarda la docente, la fissa bene, è molto bella, giovane, castana, porta gli occhiali,
e quel sospetto inizia a sconquassargli le pareti craniche, domande come << se sia mai possibile !?>>, << sta ansimando!?>>  scorrono come titoli di coda sul palco.
Ora il suo pudore si fa violento, è come una forza sorda, non v’è ragione che tenga,  sta’ ansimando, lo sente, ne è quasi certo, fa’ per prendere qualcosa dalla cartella, un diario, tiene lo sguardo basso, vorrebbe, ma non ha il coraggio, s’accorge che forse è meglio non sapere, suppur  le cose stessero in quel modo egli che dovrebbe fare!? denunciar forse alla classe!? Un fatto così sporco, così istintivo …
La penultima fila è un postaccio, ci sono i somari e gli scansafatiche,  questo le aveva detto sua madre prima di lasciarlo a scuola, aggiungendo poi, tienitene alla larga, ma lui a star d’avanti mica gli andava, e poi avrebbe voluto passare inosservato almeno per un po’, far le cose con calma, e lontano dalle attenzioni della gente, ed ora è qui, a rimettersi composto sulla sedia, mentre la  sua curiosità lo rallenta.
La maestra sente un brusio, qualcuno bisbiglia qualcosa, la maestra nota anch’ella un rumore a lei noto, ecco che il brusio si fa più forte. La maestra smorza le frasi, disarticola i periodi, la sua sintassi grammaticale è scossa da un’idea che prende piede in testa, e la sconquassa tutta, è il primo giorno di scuola, anche per lei ed ora muove verso le ultime file, piano.
Sergio è rimasto al brusio, il suo imbarazzo lo congela nel tempo, il panico come unico signore domina questa giovane mente, la maestra muove verso di lui, il pene del suo amico è allo scoperto, e vorrebbe dirlo, e vorrebbe urlare, che lui con questa storia non centra niente, l’insegnante arriva sente i suoi passi, l’imbarazzo lo prende, la maestra esplode, il ragazzo viene; Sergio è in prima fila, un genere di spettacolo a cui non avrebbe mai voluto partecipare.
Il Preside è ancora a bocca aperta.
la prof. Racconta, inorridita, disgustata, vomita lo schifo costretta a trangugiare a forza nella sua ora di lezione, e lì che trema, innervosita, avvilita, senza guardare loro, che ora son seduti alla scrivania del primo professore della scuola.
Sergio non ci crede, non vuol crederci; si rifugia nella pindarica aspettativa d’un ritorno alla realtà,
spera che sia tutto un sogno, spera  che all’improvviso suoni la sveglia, a ricollocarlo nel giusto mondo.
Ma non tutto è conforme a giustizia, e il mondo è un apparecchio complesso, certo domestico, non per casalinghi della vita.
La nota a monito nel registro della classe puzza d’ingiustizia come lo stesso corpo docenti per Sergio, povera e stupida insegnante, idioti compagni di classe, stupido ed ebete mondo …
Di quel tizio Sergio non sa nulla, né nulla ricorda, dopo la sospensione  si trasferì …
egli non tornò a scuola, ma Sergio non era un vigliacco, c’è tornato, in quel postaccio, messo in prima fila, per punizione fianco alla cattedra, giorno dopo giorno, linciato dalle meccaniche più sozze della vita in società, vittima d’uno stupro di massa, una sproporzionata aggressione al suo io, costante nel tempo. Chi  non ha mai sfogato la propria frustrazione su quel rachitico mezz’uomo!
Gli accoltellavano la dignità ogni giorno.
In quella scuola si ride ancor di lui, nessuno l’ha mai conosciuto, né sa qualcosa, solo…
il suo nome, quello lo ricordano tutti molto bene in città: Sergio u’ Recchiaun’
ed alle cene tra amici, nelle quiete sere d’inverno qualcuno sorseggiando buon vino
racconta ancora di lui ridendoci su,
per intrattenere
la noia.

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07
Mag
2011

vedi noi, vedi loro.

Sto accedendo al cielo
vi vedo
nelle isometrie delle vostre abitazioni
attraverso finestre senza vetro
noto
solo specchi incorniciati
infissi mal tracciati
sbavature di squadre rimosse troppo presto
spazi vuoti per firme e date
grate di quote lasciate mute.
Confusione costruita senza esagerazione.

Errore mio. Capovolto come Pietro, perforo il suolo.

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06
Mag
2011

desueti.

adesso che sono desueti anche i nostri cuori ci stupiamo di tutto

prendiamo in ostaggio gli oggetti come fossero fossili di vite passate

l’introspezione non è sufficiente a liberarci dal senso di continua oppressione

dovremmo ibernarci e attendere un risveglio migliore.

 

 

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01
Mag
2011

constatazioni mattutine

qualcuno diceva che “la distruzione è il supremo atto creativo”

che costruire stanca e diventa estremamente banale

e poi, a pensarci bene, l’entropia dell’Universo non farà altro che aumentare  e non ci è data la possibilità di fermarla.

chissà che la decomposizione delle nostre identità in pezzetti piccolissimi ed inscindibili dalla natura non sia il modo migliore per ritrovarci.

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