30
Nov
2011

Circa la giusta distanza tra gli astri

Ti lascio il mio cuore,
cuocilo pure quanto vuoi,
nuove lodi annunciano il mio mattino.
Luna, farai il tuo tempo,
continuerai a girare, continuerai a splendere,
continuerai a vegliar su di loro,
che si amano e
si odiano e
infine restano insieme

nel silenzio.

Ho già sentito il tuo freddo,
i tuoi spazi,
dove la luce viaggia al buio.
quante vite ho vissuto lì.
E ad ogni nome un’identità
contribuendo, così, a scacciar la mia.
Quanti inverni imbrigliato in quei rapporti,
cercando l’equilibrio in quei reticoli.
era tutto un ruotare.
Tra Corpi che si attraggono e respingono
giocando l’un l’altro.
Ecco dove t’ho perso, mia Dama,
ai dadi,
sul tavolino c’erano così tanti Soli
che per un attimo ho smarrito il senso
del mio giocare.

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23
Nov
2011

Spermi, spermi, spermi, spermi indifferenti

Forse stai per dire che devo dedicarmi ad amare
E io ti risponderò che ci provo dalla prima parola che ho scritto
Era “sole” o “rana” o “morte” non ricordo
Aveva a che fare con l’evoluzione
Forse era “mare” o un complicato “io” o “forse”

Ma forse non dirai niente

Se pensi davvero di non entrare nei pensieri di nessuno
Chiedo e mi sei già sparita fra le dita
Che da sole rispondono sempre a ogni domanda errata
Con la stessa maledettissimamente giusta risposta

Io in fin dei conti non li ho mai letti i filosofi per non tradirne le intenzioni
E tu in fin dei conti sei sempre stata nella sfera del mio saperci vivi
E dunque morenti
Sei come il Big-One

Una previsione imprecisa ma inesorabile
Scaturirai da me con enorme e finto dolore del mondo moderno

Io sono la faglia di Sant’Adrea
Ucciderò altri Santi e tutti gli Angeli di questa terra ingrata a se stessa

Proprio come me
Che credo che la poesia si sia fermata ai falò antichi da sempre
Immobile a quel calore di fiamma e a quei visi caldi quasi uguale

Altruisticamente l’unica conoscenza che vorrei carpire
Prima del totale disfacimento della realtà e dello
Svanire fra dita di demiurgo

È sapere
Cosa si prova a sentirsi desiderati
Anche se sono consapevole che sarà l’autoinganno della mia ricerca di un preciso
Momento

Perfetto
A ucciderci tutti

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19
Nov
2011

Transenna

Serrato dalle dita intrecciate lo suardo, muto, fiero, ambiguo.
L’arancione e’ un sintomo o un’allegoria, o forse, solamente pa rte del paesaggio, se cosi’ si puo’ chiamare.
Ma poi la volta celeste.. tubolare, impietosamente splendida.
La cognizione el tempo va a farsi benedire ed io sono, come sempre, una domanda che non vuole troppe risposte, perche’ queste non siano lo specchio di mille specchi, ma che restino invece una semplice perecezione.

E’ bello quanto inquietante, e’un vestito che lascia nudi o una nudita’ che riveste d’infiniti colori l’anima, se cosi’ si puo’ chiamare.
Gli occhi hanno dei limiti e bisognerebbe esser ciechi per poter vedere davvero, in certi casi.
Il metronomo segna il tempo, aguzzino, sofferto, soffocato dalle note che anch’esse, sembrano sentirsi in trappola ad ogni cadenza.

Meravigliosamente sola, di quella solituine che mette il corpo sull’attenti affinche’ i sensi moltiplichino le loro doti e riempino l’universo di un canto che e’ come una preghiera, tutto sommato.
Si prega solamente ricevendo l’immenso a volte, ma per pura incapacita’ o per egoismo, rimane racchiusa dentro , mentre vorrebbe straripare per pura liberta’, o cinica generosita’.

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15
Nov
2011

Quattro movimenti

I movimento.
Allegro:  Ecco che barcollante s’avvia sulla strada muovendo a passi incerti verso casa.
Guardandosi attorno senza tuttavia distinguere nulla offre sorrisi affaticati a passanti pronti nell’incoraggiarlo a transitare oltre, ed egli va’, avanti, un passo indietro, poi ancora …
avanti.
La milza è un coltello conficcato ai lati dell’addome, il respiro refluisce, torna indietro, risale,  fuori e dentro, a volte ingerito, altre ancora si perde a gonfiargli il diaframma.
Tranquilli, non sta’ morendo, è soltanto la fine d’un’altra giornata pronta e persa nelle sue tasche.
Giovane e idiota, difetti non meno di altri, ecco chi è Gionatan, un tipo sulle sue, non prende in prestito niente da nessuno, neanche le frasi, talmente diffidente com’è, ed ora sono le due, mentre i fari delle auto lo riportano alla luce eccolo che annaspa. Muori allegro, muori ora! Sciogliti in questi sorrisi distratti, perditi, oppure trovati, ma fa in fretta, che il tempo è lago con le pietre, attento!!
Potresti non tornare più a galla.
Perplessi lo guardano i gatti poco prima raschianti il rusco, si dileguano svelti al suo inveirgli contro.
II Movimento.
Adagio: la Paraplegica di Via Ruggi è ancora in piedi nonostante l’ora, il grammofono acceso rende giustizia alle sue ansie notturne, la puntina appoggiata sul disco libera un Dimitri Shostakovich intento nel suo Waltz, suona per lei, le avvolge il cuore, lei che alla disperazione ha sempre risposto con grinta e generosi silenzi. Ed ora i suoi occhi si lanciano oltre la finestra, si perdono in ciò che riescono a vedere, pieni d’attesa, s’aspettano qualcosa di diverso dalla solita via ed infatti quel qualcosa è lì e barcolla, mentre cerca le chiavi. Con tenace pazienza lui le prova una ad una, sbuffa, cambia chiave, riprova. Si ferma un attimo morso nell’esofago  dall’alcool, respira e ritorna alla minuta serratura, pronto a riprovare.
Lei scuote il capo, sospira,  spinge la sedia, giunge al citofono, apre la porta.
Ed ora sente i suoi passi salir goffi e ad ogni passo suo figlio sempre più vicino, e già la tranquillità le ripropone il sonno  rapito dal timore.
Che madre! Questo pensava Gionatan mentre svuotava la vescica tutto solo nel suo bagno, avessi la metà del suo carattere!
Sarebbe anche troppo per un uomo solo.
III movimento.
Andante: percussioni, buio, suoni tribali, paura, rabbia, spavento.
Sono mani forti a battere il petto alla porta del cesso, certo non sua madre.
Il nostro prodigo è a terra, ha ancora il pisello fuori dai pantaloni. Sporco giace ad occhi chiusi mentre lei, dall’altra parte, lo chiama, <<Figlio, ti prego, apri!!!>>
Fosse facile! Ma la nausea lo trattiene mentre i paramedici sfondano la porta.
La donna è spaventata, il figlio non risponde.
Mani scuotono il suo corpo, lo appoggiano schiena al muro.
<<Vi prego, rivestitelo!>>, ed uno dei quattro con gesto di stizza, scorbuticamente,  gli tira su i pantaloni. <<Come sta’?>>.
Gionatan sente sua madre mentre osserva a contorni sfocati, <<allora!?>>,  e si!
È proprio sua madre! Sente la sua pena sottile nascondersi dietro il tono di voce.
<< Come sta!?>>,ed ora uno dei quattro seccato risponde  << come sta!? Come sta!? È  un alcolizzato signora, come deve stare? Ed ora per favore si tolga dalle palle che noi qui abbiamo da lavorare, non stiamo certo seduti, come lei!>>.
La donna non risponde, ammutolita, resta ancorata alla sua sedia.
Colpita nell’orgoglio.
Ed è un grande orgoglio quello di donna, tanto grande quanto indifeso e vulnerabile,  mentre l’operatore sanitario continua <<questo ragazzo l’avrà pur tirato su’ qualcuno. Signora, è colpa vostra!>>.
Ma il ragazzo sente tutto.
Gionatan grugna. L’infermiere ride, <<che faccia cattiva! È  proprio feccia!!>>, <<…>> la donna avvilita non risponde. Suo figlio è a terra.
Un detto recita: non stuzzicare la bestia ferita. L’odio arma le braccia più magre, e il nostro ragazzo ha muscoli forti,
utili nel lavoro (così scarica casse al mercato) e nell’offesa.
IV movimento.
Giga: La prima pagina del Resto del Carlino non tratta di politica questo 15 Novembre, è un fatto di cronaca a prenderne il  posto.
Trascurando i nomi, quello che emerge dal racconto è che uno sbandato soccorso in casa, nei pressi di Via Murri, a tarda notte ha malmenato i paramedici del 118.
In giro gli augurano il riformatorio, per molti è l’ennesimo caso di mala-educazione giovanile, reietti da guarire, eliminare o respingere, lontano da noi e dalla nostra confortevole società civile.
Per me è solo uno dei tanti che, a differenza di molti, sa come difendere i suoi affetti.
Fossero stati gendarmi gli avrebbe percossi con la stessa intensità, perché,  per Gionatan, la giustizia non è un concetto astratto,
né un qualcosa verso cui tendere,
tantomeno un’insieme di norme.
Signori,
la giustizia è reale, è l’arte di distribuire a ciascuno il suo e quando non la si ha essa la si prende con la forza,
mentre la legge,
quella,
serve solo ad evitare d’ammazzarci  per strada.

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14
Nov
2011

tenue speranza di sopravvivenza a questa mancanza d’ossigeno.

Autunno inoltrato, cammino seguendo scie delicate di profumo sino a perdermi tra i passanti, sino a confondere suolo e cielo in un unico, indistinto, orizzonte raffermo. Vedo vite possibili ferme ad una stazione della metropolitana, le raccolgo dal marciapiede con disinteresse. Ho bisogno di prendere fiato e uscire di casa, di diventare albero, pietra, luce, di passare attraverso la notte e sentire la densità dell’aria contro la mia pelle, di dimenticare le distanze infinite che mi separano dai tuoi occhi immensi. Ho piedi piccoli e stanchi, ma le strade non sono mai sufficienti alla mia curiosa attitudine verso il mondo. Il respiro si fa superficiale, mi rincorre, ho deciso di mettere da parte i suoni, di aspettare che si allontanino in dissolvenza e mi lascino a contemplare gli oggetti in un assordante oceano di silenzio.

Cos’è la guerra, amore mio?

Cosa sono le reticenze, le parole strozzate tra la gola e la lingua e le tristezze cosmiche per quello che sto perdendo?

Le foglie sono martiri d’autunno ed io, qui, aspetto che sia notte, che le illazioni del giorno mi abbandonino e fluiscano nel blu come il tuo sangue.

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08
Nov
2011

terapia del sonno -lato A-

Occhi sbarrati nel buio. All’improvviso.
Cristo santo, fa’ che sia mattina.
Sara cerca la sveglia. La avvicina al viso. La fissa finché non si abitua all’oscurità. Mette a fuoco le lancette. Novanta gradi netti.
Cristo santo!
Sono le tre di mattina. Sara ha due possibilità. La prima è tornare a dormire.
Alle tre e un quarto sale l’odore di caffè dalla cucina. Sara si riscalda le mani vicino ai fornelli. Gli occhi rossi e le labbra bordeaux. Ascolta la vecchia caffettiera tossire, sputacchiando spruzzi di caffè bruciacchiato tutt’intorno. Le macchia il pigiama di mille gocce color marcio. Colori dell’autunno.
Fuori fa freddo.
Magari poi torno a dormire.
La mattina il mondo è troppo stanco per accoglierti. Il sole non si alza alle tre solo perchè ti sei alzato tu. Il sole non ti ama, non ti ha sposato.
Il sole non ti preparerà mai il caffè.
Cos’è il caffè? Un misero gesto d’amore. Quando l’amore manca, il caffè è una droga mentale. Imbottirti di caffè non ti renderà amato.
Ma è sempre qualcosa.
Un surrogato d’amore. E cos’è l’orzo?
Tanto è quasi l’alba.
Sara lo chiama “metodo di scomposizione del tempo”. Consiste nel suddividere i periodi di attesa in intervalli più piccoli, considerando i mesi come periodi, i giorni intrasettimanali come “quasi weekend”, e suddividendo le giornate in fasce orarie e le ore in gruppi di minuti. Contrariamente ad Achille, la tartaruga ora corre che pare una scheggia.
Il segreto sta nello scordare il tempo che passa.
È ancora scuro, fuori. Ma se ieri è finito, finirà anche quest’oggi.
Sara sta in piedi davanti al balcone, nella mano una tazzina fumante e in bocca un sapore aspro. Guarda fuori ma fuori non c’è niente. Guarda se stessa e si accorge che il mondo che non c’è fuori, è tutto sulle sue spalle. Sara non si sente più le forze nelle gambe, e va a sedersi.
Nessuno porta il cane a pisciare, alle 3 e mezza.
Se ieri è finito, oggi non è ancora iniziato. Il paradosso delle tre e mezza è che è troppo tardi per andare a dormire, e troppo presto per svegliarsi; così Sara si fa tenere compagnia da piccoli omini in HD che fanno e dicono cose di minimo interesse. Sara si concentra sui gesti. E poi sulla musica. E poi sullo sfondo. E il mondo le sembra troppo grande per stare in quella scatola. Vede che non ce n’è che uno spicchio.
L’unica falce di Terra visibile da qui.
E anche intorno, non ce n’è che uno spicchio.
Eppure c’è posto per tanti, qui. Ci sono così tante sedie.
Ma non c’è posto per nessuno, in realtà, in quella stanza. Tanta gente che le mancava se l’è scordata. Perchè vuoi o non vuoi le cose vanno avanti e se vai avanti guardando indietro, prima o poi sbatti. E Sara c’ha già il naso storto.
La tv ha un palinsesto per tutta la giornata, per tutto il mese, e, probabilmente, per tutta la durata dell’Homo sapiens.
Sara anche ce l’ha. E forse questo vuoto è solo ribellione a quello che già c’è, prima ancora di arrivare. Forse questo silenzio è solo il compendio di tutto quello che le diranno senza che sia domandato. Forse questo buio è solo il contrappeso dei mille dettagli che non sono lì per lei, che non le interessano, che le sfuggiranno.
O forse è solo sonno.
Io penso per scompenso di realtà.
Sara ride dentro. Fuori le sfugge un ghigno nervoso. Lo stomaco stretto e le gambe che si scontrano ritmicamente scandendo i secondi. Le cinque non sono ancora l’alba, ma ci vanno vicino. Fa notte presto ora. Il giorno dura meno. Sara ne è sollevata. Anche se non dorme per più di due ore. Ma una volta che è l’alba, è quasi mattina: e la mattina, tra una cosa e l’altra, passa; poi il pomeriggio, dopo pranzo e i cartoni in tv, va via che non te ne accorgi nemmeno; arriva la sera, se ceni alle 7 praticamente la giornata è già chiusa, fuori è buio da un pezzo; due ore di polizieschi da macellaio e poi computer, o chi lo sa, magari un libro, qualcosa di costruttivo. Poi il sonno che non arriva, poi di nuovo divano, e tv; di nuovo sola nel salotto, come al risveglio, di nuovo buio, come al risveglio; e per cercare di non pensare Sara accende la tv, e sul divano si addormenta: lì si addormenta sì; pensa sia perchè non si sente obbligata a dormire. Ma una volta a letto, poi, si sente obbligata a svegliarsi. Perchè è normale svegliarsi nel letto.
E ad ogni risveglio sbarra gli occhi nel buio. Prega che sia mattina. Ma mattina non è mai. Ma prima o poi arriva. E allora tanto vale aspettarla alzati. Piuttosto che sbarrare gli occhi sulle tre, sulle tre e mezza, sulle quattro, sulle cinque meno un quarto, fino alla nausea.
Sono passati solo dieci minuti, è passata solo mezz’ora, ancora solo un quarto d’ora. Tanto vale svegliarsi e ignorare gli orologi.
Il metodo di scomposizione del tempo in fondo ha sempre funzionato, 25 anni sono passati tanto in fretta che Sara neanche se n’è accorta.


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05
Nov
2011

Scirocco

Rosa, rosae, rosarum, rosis, rosari di rose nelle mani.

Il silenzio dimenticato e la bellezza della facciata barocca nella piazzetta nascosta dalla piazza. Le pareti bianche, le pareti bianche. Pagine da scrivere. I miei passi da bambina nel cimitero monumentale senza le lapidi familiari. La terra brucia anche in inverno.

Inaspettato arriva alle soglie della notte, lo scirocco.

Ballo un valzer anche con lei e fra le rughe noto gli anni passati. Ma io non so come si fa. A ballare il valzer.

Rosa rosae rosarum rosis, avevo scordato lo scirocco.

Pizzica sul viso come le mani dolce e nodose sulle corde di una chitarra. Ti trascina con quel suo odore familiare verso le terre calde e primigenie. Mi trascina con calore e silenzio verso due occhi grandi e neri.

Si alza la polvere e copre tutto. Si insinua nei capelli. Nell’umore. Copre tutto. La pazienza, i ricordi e il sole. Odore di morte, odore di mare.

Rosa rosae rosarum rosis, litanie nel mio silenzio che ricordo come preghiere.

Sulla soglia le donne hanno uno sguardo severo.  Le loro trame sono lavori pazienti. Le loro mani come pietra negli uliveti.

Tra un istante arriva lo scirocco.  Rosae, rosarum, rosis,  rosari di rose nelle mani e sulle labbra.  L’avevo scordato.

Balliamo ancora una volta il valzer. Se ti va, possiamo anche tornare.

 

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