24
Set
2010

LA GUARDIA (1/3)

Alle otto in punto del giorno più corto dell’anno il capitano Kikero, con la barba ghiacciata e uno sguardo gelido naturale, abbassò il braccio gridando: – Fuoco!
Una raffica di proiettili colpì il soldato semplice Karl alla testa, al petto e all’addome. Il suo corpo si afflosciò come un filo d’erba raggiunto dalle fiamme. La pena più severa per essersi addormentato durante il turno di guardia sulla Torre, l’unica postazione dalla quale si poteva scorgere l’arrivo del nemico.
Dopo pochissime ore lunghissime discussioni e approfonditi interrogatori il capitano Kikero scelse una nuova sentinella. Quella notte si prospettava ancora più fredda della precedente. Alla guardia si consegnavano una marmitta con della minestra, una fiaschetta di acquavitae e un corno di bue per dare l’allarme. Al prescelto non restava che arrampicarsi per i duecentoundici scalini della Torre pentagonale e aspettare vigile e guardingo che la notte passasse senza intoppi.
Alle otto in punto del giorno seguente a quello più corto dell’anno il capitano Kikero, con la barba appena meno ghiacciata e il solito gelido sguardo naturale, abbassò il braccio gridando: – Fuoco!
Il soldato semplice Kija si afflosciò sulla neve che ricopriva il cortile.

Al tramonto si scatenò una tale bufera e la temperatura scese così tanto che il soldato semplice Kurtz pensò che chiunque fosse salito fino alla guardiola della Torre non solo non avrebbe potuto resistere al sonno, ma che il freddo non gli avrebbe dato scampo.
Il capitano Kikero questa volta si prese molte ore per fare la sua scelta. Il soldato Karraka era il più grosso essere umano che si fosse visto da quelle parti. Pesava più di cento kili e dava al più alto degli altri tutta la testa. “Perché non ho pensato subito a lui?” pensò il capitano Kikero. Karraka sopravvisse al freddo, ma non resistette al sonno.
Con un’ombra di indecisione il capitano Kikero fece giustiziare anche lui. Il soldato semplice Kurtz elaborò una specie di sillogismo senza pretese di validità. Se la notte che doveva arrivare fosse stata più mite forse Karraka avrebbe anche potuto resistere al sonno, dunque il capitano Kikero era un idiota, oltre che un aguzzino.
Quando fu il turno del suo interrogatorio, il soldato semplice Kurtz prese una decisione che ai più sembrò folle in quanto repentina e immotivata.
– Vado io. – disse.
“Sono cose che càpitano” pensò il capitano.
Kurtz contemplava il fiume sotto di lui e il ponte che la sua divisione doveva proteggere. Sull’altra sponda una foresta a perdita d’occhio e dove il cielo si sposava di nero con la terra le montagne invisibili che li separavano dal nemico. Kurtz prese un sorso di acquavitae e si sedette ad attendere il suo destino.

continua
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24
Set
2010

e iniziava la giornata

anche nel farsi la barba sembrava guardarsi con odio, allo specchio.
E raschiava, raschiava, in modo, oltremodo, rabbioso. Dicevano che era un cane, o soltanto la sua ombra, che importa!? Infondo, non importava a nessuno, quelli come lui muoiono presto, meglio non rischiare,
meglio non investirci neanche uno zircone, tutti erano certi che, tanto, sarebbe andato perduto.
ma lui raschiava, fregandosene della pelle, fregandosene del bruciore, come a voler far uscire il dolore fuori dalla sua tana, come a sfidarlo, affrontarlo, come a sopprimerlo, e strappava ogni pelo, e affondava quella lametta logora nella carne, tenendo ben fermi gli occhi, in uno squallido buco dove la gente usa rinchiudersi e defecare, un cesso, e fissare lo specchio, e quella schiuma, mista a peli e sangue. Sapeva già che non sarebbe bastato, così come sapeva che la fuori, oltre la porta, il mondo l’avrebbe aspettato, e il mondo, a conoscerlo, finisci col volerlo evitare… così pensava lui.
sbatteva, sbatteva così forte il rasoio sul bordo del lavello che a momenti pareva si sarebbe spezzato, un martello, lo scagliava così forte che quei peli li incastrati, tra le lame, non avevano altro giogo se non cadere.
E cadevano, cadevano tutti, finivano trascinati dall’acqua verso il filtro, non ne restava su nessuno, poi li avrebbe buttati, ora li lasciava li, ad accumularsi, presto sarebbero finiti tra i rifiuti.
non importava a nessuno, e non importava neanche a lui.
avrebbe continuato a raschiare finché la faccia non ne fosse uscita pulita, avrebbe continuato proprio perché nessuno credeva che ne fosse in grado, anche al costo di scorticarsi il collo, avrebbe portato a termine il lavoro, poteva sopprimere il dolore, non la rabbia, quella se la sarebbe portata addosso, quella vecchia troia, l’avrebbe accompagnato ovunque, anche al bidone dell’immondizia

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22
Set
2010

stare per

– Temo di stare per impazzire, sai. – mi sussurò, stringendo la sua mano nella mia.

Non so come fosse cominciato tutto ciò, o che cosa fosse di preciso. Le sue dita ossute e gelide accarezzavano le mie, stringendole sempre di più, con la stessa disperazione con cui immagino suonassero i notturni di Chopin, tutte le notti. Questo almeno lei mi raccontava. Ed io, da casa, li sentivo. Non al computer, o dal vinile; no. Li sentivo nella mia testa, accompagnavano i miei ultimi gesti vuoti e desolati della giornata, davanti allo specchio, nel letto; cercavano di addormentarmi cullandomi tra le coperte. Ma la dolcezza pungente di quelle note era impastata nell’angoscia che le teneva insieme.
Così mi suonava il suo volto, così la sua tiepida effimera compagnia. Era intrappolata in un mondo terribile, Michelle. E la melodia di lei, che tanto amavo, era il mio tormento. I miei sensi cercavano in lei la pace, e trovavano l’ossessione. E la mia anima beveva avida quell’orda di sentimenti che mi scuotevano fin nelle vene. Lei era il sogno che non arriva mai, il sogno che ti dà ancora una ragione per svegliarti.

Quel giardino era in fondo il sonno che lei strappava alle mie notti; ma molto più denso, un ristoro molto più avvolgente.
Quel giardino così pulito, con l’erbetta verde corta nelle quadre delimitate da alti pioppi ordinati, che scandivano il reticolo di ciottolato azzurrino, punteggiato di panchine in legno scuro. C’era davvero da uscire pazzi, povera Michelle.  Istituto, così lo chiamavano ora. Tre volte al giorno, due infermiere che odoravano di disinfettante, sorridenti e distratte, le porgevano un vassoietto con una scodella di cibo preparato alla meno peggio, un bicchierone d’acqua naturale e due pillole. Michelle ormai prendeva solo le pillole. Non la sgridavano neanche più.
Io, dal canto mio, non le avevo mai rimproverato niente. Puoi costringere un gatto ad abbaiare, puoi istigare un albero a mordere? Era intrappolata in un mondo terribile, Michelle. Michelle era la mia innocenza, protetta in uno scrigno di carne pallida dalle spalle strette e dalla vita sottile. Un’innocenza dall’anima sfuggente, un’anima che a volte avevo visto balenare dietro i suoi occhi vitrei, in qualche discorso o in qualche piccolo gesto, tra le ciocche castane scomposte che le serpeggiavano sul viso; per poi risprofondare nel torbido dei suoi pensieri, i suoi pensieri soffocanti come catrame fresco, che inghiottivano ogni speranza, cementavano ogni parola.  Allora le sue labbra si serravano con una specie di muto singhiozzo incerto, e il suo sguardo tornava a fissarsi nel vuoto, o su un minuscolo particolare, o su uno scatto ripetuto della sua mano.

Quel giorno le avevo portato due grandi biscotti al cioccolato rotondi, incartati in un tovagliolo di stoffa blu. Glieli avevo preparati io. Con quell’amore calorico comprai un suo sorriso; io, avido sfruttatore di solitudini; io, egoista impersonatore di anime assenti. In un’ora di conversazione ne mangiò quasi uno intero, la vedevo affondare morsetti affamati e un pò impacciati, guardandomi di sottecchi; e anche i suoi occhi parevano sorridere, e questo mi riempì un pò il buco che avevo nel cuore.

Quello stesso inverno, le regalai un’enorme sciarpa di lana viola. La indossava ogni volta che sperava sarei andato a trovarla, mi diceva. Indovinava sempre. Io non credo che la mettesse ogni giorno. Mi spiegò che nella sua camera aveva liberato uno scaffale apposta, dove ripiegava la sciarpa ogni pomeriggio, dopo avermi incontrato. Le mattine che non la indossava, le rivolgeva sempre uno sguardo triste, e pensava a me – testuali parole – per 6,3 secondi.

Io non avevo il permesso di entrare negli alloggi, così credevo a tutto ciò che mi raccontava. In realtà, avevo cercato le immagini della struttura su internet: le camere erano scatole sgualcite che non superavano i 10 mq, bagno incluso. Ma lasciavo che lei, almeno in me, trovasse il terreno fertile per impiantare il suo assurdo, fragile universo. Le sue strane compagnie e i suoi antri segreti, il suo balconcino botanico e le sue tende altissime come quelle delle principesse.

Un giorno arrivai al cancello del giardino col freddo dentro e una bambola di pezza dal nome di Tina nello zaino.
Contravvenendo al giuramento di Ippocrate per soccombere alla compassione umana, un’infermiera di mezz’età si concesse in cinque minuti di una spiegazione in cui figuravano una sciarpa al collo, un letto, 42 pillole accumulate di nascosto nella scatola del temperamatite e una rianimazione fallita.
Uscendo buttai via la bambola nel primo cestino.

Era intrappolata in un mondo terribile, Michelle.
Ma finalmente era riuscita a fuggire…

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21
Set
2010

Un altro scacco matto, Sir.

Quello era lì, con le sue mani eleganti e il suo fare educato. Ho sempre odiato il suo aplomb, d’una raffinatezza melliflua quanto arguta, forse l’unico aspetto di lui che invidio.
Mi mostrava una pietra di cui conoscevo il prezzo, se qualcosa di inestimabile ne possiede uno.
La solita proposta innocente o indecente a seconda della risposta.
 E la solita risposta.
Dovresti esserci abituato, mi dico.
Ma no, rubare l’amore degli altri per farne oggetto di ricatto è un tuo asso nella manica e ci caschi sempre, come quei vecchi attori che provano e riprovano la stessa parte da decenni come se avessero timore di perdere la memoria e ritrovarsi improvvisamente senza mestiere, senza applausi, senza pubblico.
Io sono uno dei tuoi spettatori esattamente quanto tu lo sei di me, la differenza sta nel fatto che l’attore sei solo tu perché a me non spetta persuaderti di nulla.. ma ti piace lo stesso osservarmi e stuzzicarmi. Ti annoieresti senza di me, di noi.
La risposta è no, come sempre e come sempre la tua vittoria e’ tragicomica, perché tragicomico e’ ogni serpente che possiede savoifer.. insomma è come possedere la dottrina di un grande sapiente ma non avere abbastanza spazio nel cervello per ospitarla, è comico  capisci?
Oh beh..in fondo la mia sconfitta mi diverte più della tua vittoria,e non e’ poco.
Solo che.. lo spazio azzurro tra le fenditure delle nuvole sembrava avesse formato un cuore ma poi era una V.
Ed era la mia.
In ogni caso.
Come sempre.

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21
Set
2010

animanìa

Nemmeno il mio passato conosco abbastanza. Il mio passato traduce la sua banale storia in codici a me incomprensibili ..eppure e’ solo una banale storia. Il mio passato taglieggia il presente camuffando i ricordi  crudelmente, intingendoli nella porpora, e tutto e’ legge di sangue e il sangue non gronda ma stagna in piccole pozzanghere. Riflettono la luna e il sole, la scuola, l’odore dell’asfalto bagnato, la neve, i colori spaventosamente accesi di un asilo nido, il castello con le torri abitate dai piccioni,le vecchie zitelle dai nomi siculi.

Io.

Tra la nebbia consumavo sogni e suole, la nebbia che mi rendeva trasparente come un fantasma e anche lei come un fantasma è svanita tra il fumo di un vulcano dalla voragine che sembra l’inferno eppure è li’ di fronte a me e vive di vita imprevedibile,per questo lo stimo. Se conoscessi il presente potrei apprezzarlo o bruciarlo in un rogo di desideri incompiuti, ma esso, come il passato e il futuro, mi è ignoto. E’ difficile vivere come se fosse tutto qui. Invece no,non è niente..un niente  stracolmo di visioni astratte dentro  cui far penzolare le parole, le parole..le parole che in fondo non significano quello che c’è, ma solo quel che si vede,e anche quando parlano d’irreale  non sono mai oneste mai come gli occhi. Ma la memoria è un vaso di Pandora che punisce gli occhi sbeffeggiandoli ad ogni colore che diviene sempre più tenue. Siamo soli, noi esseri strani che allunghiamo  e accorciamo l’anima come un’ombra a seconda della luce,siamo soli e abbiamo l’arte dell’arrangiamento esistenziale nel sangue, fiumi senza dighe, che’ tracimando inondiamo e anneghiamo solamente noi stessi, fertilizzando quel piccolo fazzoletto d’anima che ancora ci appartiene, maltrattandolo fino a che non diventi opalescente..e trasparente….per poi volare ancora più in alto e impennare e cadere in picchiata tra ibridi orgasmi col cielo navigando tra note  meravigliosamente dissonanti, sgravati dal peso dell’umanità, e assoggettati ad un peso più grande che chiamiamo libertà.

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21
Set
2010

Eudemonistica metafisica

Il signor Fausto era a letto da più di tre mesi. Il suo stomaco era in pappa. Gli rimanevano da vivere poche ore. L’unica cosa che gli restava da fare prima di morire era confessarsi. Quando il prete ebbe salutato i nipoti, i generi, l’unica nuora e la cara moglie, compagna di più di quarant’anni di gioie e dolori, non gli restava che salutare il malato nel modo che sapeva lui. Il signor Fausto era lì, perfetto esempio di uomo fedele e cristiano devoto. Nella confessione del buon Fausto si addensarono frasi, concetti, esperienze e desideri che il buon prete conosceva per santa ispezione delle cose umane, ma che non avrebbe mai creduto potessero uscire dalla bocca di un uomo timorato come il caro signor Fausto. Con l’indispensabile calma che il momento prescriveva, il buon prete chiese al malato terminale cosa volesse davvero confessargli: di aver mai fatto quelle cose che gli aveva detto oppure…
– No, no, non ho mai fatto nulla del genere, sono sempre stati dei desideri, delle voluttà mai cercate – gli rispose Fausto – Volevo confessare a lei i miei pensieri impuri, perché ho sempre desiderato fare… quelle…cose, ma la fede mi ha aiutato a superare quei momenti difficili. Questa è la mia ultima confessione… Il prete stava per dirgli una cosa che si era sentito dire già altre volte, in ben altre occasioni e per ben altre azioni: il buon Fausto sarebbe sicuramente andato in paradiso, ma spirò prima di poterle ascoltare.
Subito dopo il buon Fausto si ritrovò in un lungo tunnel illuminato che portava nell’oltretomba, che il buon vecchio prete non lo avrebbe mai saputo, ma lui le sue parole le aveva sentite e aveva già scacciato i suoi brutti desideri repressi. All’uscita del tunnel vide tantissime persone che volavano verso l’alto e verso il basso, evidentemente verso il paradiso e verso l’inferno. Egli stava per essere convogliato verso l’alto, ma all’ultimo venne trattenuto verso il basso e per un po’ di tempo gli sembrò di aggirarsi nell’aria senza meta. Intorno c’erano solo nuvole, sostanze nebbiose che rendevano il viaggio molto confortevole. L’aria era fresca, respirava bene, non c’era musica ma sentiva l’atmosfera trillare lasciandolo immaginare, pensare, liberamente nuovi mondi e meravigliosi universi di piacere che aspettavano solo di essere visitati … ad un tratto si ritrovò in una stanza giallognola con una sedia e una porta, una specie di anticamera di qualche misterioso ufficio.
– SI SIEDA! – tuonò una voce all’improvviso. Fausto obbedì senza por tempo in mezzo.
– ENTRI! – tuonò la stessa voce dopo qualche tempo. Fausto obbedì con un po’ di stizza. Era un’altra stanza senza mobili. C’era solo una poltrona girata dall’altra parte con qualcuno seduto sopra che evidentemente l’aspettava. – Lei è Fausto? – domandò una voce per niente minacciosa, ma autorevole. – Sì. – Rispose con una certa sicurezza Fausto, che straziava la sua maglietta per il nervoso. – Noi siamo a conoscenza dei suoi desideri più repressi e inconsci e di questo lei non si deve preoccupare. Le è stato assegnato il paradiso come sperava e per il quale ha pregato tutta la vita terrena di volere in questa. Ma mi dica – la poltrona si girò mostrando un tipo vestito in doppiopetto che assomigliava a Richard Gere – è vero che a lei piacerebbe tanto essere picchiato fino a goderne? – Fausto abbassò lo sguardo mentre quel bel tomo continuava. – È vero che le piacerebbe se qualcuno glielo mettesse nel didietro e che lei vorrebbe metterlo a qualcuno? Su, mi risponda, ormai lei ha il paradiso, glielo garantisco come glielo ha garantito il suo prete, non abbia paura, dica la verità!Fausto sembrò riprendersi dal momento di mancamento che l’aveva preso e con un coraggio che non l’aveva mai contraddistinto disse: – Sì!
– Può andare – disse Richard Gere – sicuramente si troverà bene – Battè le mani due volte e
Fausto si ritrovò in un altro tunnel dominato da una luce rosso fuoco tendente all’arancione fiamma che si faceva sempre più bollente man mano che il tunnel avanzava. Fausto non ebbe il tempo di realizzare dove si trovasse che venne preso da un diavolo dalla pelle rosa che lo spogliò e lo sodomizzò, facendolo gridare di piacere. Poi arrivarono tre diavoli muscolosi che lo picchiarono fino a farlo godere di nuovo con tutte le urla che aveva trattenuto tutta la vita.
“Benvenuto in paradiso!” Gli dissero in coro altri tre diavoli in guêpiere.

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21
Set
2010

sono albero, sii albero

-Oggi è il mio compleanno!-
-Sai quanto ce ne frega!

-Ma và, che scherzavo, minimbecille! Viè qua!-

Michele era un bambino non troppo sveglio che viveva in una comunità di hippies autoconfinatasi alla periferia di una città di periferia pressochè sconosciuta.

Michele piangeva. Piangeva per qualsiasi cosa. Piangeva così tanto e così facilmente che quando qualcuno prendeva troppo a cuore una questione che in effetti era davvero di minima rilevanza, tanto da non importare nemmeno al diretto interessato, si usava dire “preoccuparsi per Michele”.
Ogni tanto qualcuno di buon cuore (come il tizio con i basettoni grigi e la pipa sempre in bocca ma mai fumante che si faceva chiamare Zio Tauro) intratteneva un pò Michele, così che non rompesse le palle al resto della comunità; dal momento che Michele di genitori non ne aveva. Non si sapeva nemmeno come fosse arrivato lì, nessuno se l’era mai neanche domandato in realtà, per cui anche se qualcuno aveva visto qualcosa sarebbe stato sepolto con questo inutile segreto. Semplicemente, un giorno Michele era lì, dietro il camper di Maria. Che piangeva.
Maria era una donna sulla quarantina, dai capelli di molti grigi, secchi e lunghi; per questo i ragazzini le davano della megera, al che lei rimbeccava con un signorile VAFFANCULO, tirandogli dietro una secchiata di spazzatura.
Come avrete immaginato, Maria non era il tipo che, come si suol dire, “si preoccupava per Michele”; quindi quando lo trovò dietro casa sua si limitò a prenderlo in casa e dargli da mangiare e lasciarlo deambulare in giro come gli pareva quando ne fosse stato capace.

Quel giorno, che Michele sosteneva fosse quello del suo compleanno (sicuramente gliene avevano parlato i ragazzini per farlo imbestialire), Zio Tauro lo chiamò vicino alla sedia disastrata su cui passava i suoi giovedì pomeriggio, e lo fece mettere a sedere con un autoritario ineluttabile cenno della mano. Michele stava sempre col broncio, come se qualunque cosa del mondo fosse fatta per fare un dispetto a lui: con soggetti del genere solo la dittatura non è deleteria.

– Immagina di mandare gli occhi all’indietro. Non in su o in giù, ma dentro, mi capisci? Dietro. Adesso chiudi le palpebre e tira gli occhi più in dietro possibile, trattienili finchè non smettono di farti male, rilassati. Ti senti tranquillo? Va bene. Adesso smetti di essere. Nel senso, non pensare. Non pensare a te o quello che devi fare oggi o cosa c’è per pranzo. Immagina di essere il nero nel nero che vedi.
Ascolta la mia voce come fosse il tuo battito, il battito dell’universo.
Immagina i contorni bianchi di due ovali messi in verticale. Avvicinali fino ad avere due imbuti specchiati che continuano l’uno nell’altro. Quello è un canale in cui può scorrere la tua vita. Creane tanti, uno spazio tridimensionale di piccoli vasi comunicanti. Non c’è bisogno che ne immagini la geometria. L’importante è il concetto. Tubi comunicanti , dall’alto in basso, nel vuoto. Sentiti percorrere all’infinito da questi tubi, dal centro della testa alle punte dei piedi, mille piccoli capillari di luce, li vedi? Li senti? Proteggili, costruisci intorno una parete dura per quei fili così eleganti, così delicati. Immagina che il tuo corpo sia una dura corteccia insensibile che protegge i tuoi fili. Una dura corteccia che attutisce il caldo e il freddo, che isola il tuo interno. Adesso immagina un liquido freddo, come fosse cristallo liquefatto, che parte dal centro della tua testa e attraversa i mille capillari che ti percorrono ogni lembo del corpo, in tutte le ramificazioni, con un accordo di arpa per ogni capillare, dove le note sono i nodi di incontro tra due capillari che si dividono…. una scala di ghiaccio che ti  percorre dall’alto il basso… e… e…. hhhh…h..

Non riuscì a finire il suo delirio, il povero Zio Tauro, che fu stroncato da un attacco di cuore, pace all’anima sua.

Ovviamente quel cazzone di Michele dormiva da dieci minuti.

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21
Set
2010

povera Sally

VAFFANCULO FOTTUTO BASTARDO APRI QUEL CAZZO DI SACCHETTO E DAMMI DA MANGIARE.

Come scusa?

Guardò il barboncino che scodinzolava come un cerebroleso davanti alla ciotola vuota, con quello stupido fiocchetto rosa che gli aveva piazzato in testa Sally; e si disse che sì, doveva proprio essere impazzito.
Quell’aborto di cane lo guardava con i suoi occhi da schizzato semicoperti da riccioli bianchi. Con la sua stupida codina frenetica. Con le sue stupide zampette vaporose. Il suo stupido culo ancheggiante.
Mentre versava mezzo sacchetto di tacchino spappolato, vide le sue mani screpolate, che sembravano fatte di creta essiccata; grezze, ruvide, spaccate. Erano così belle, un paio di anni fa, così lisce e delicate. Quando suonava il piano. Quando la lavorava, la creta.
Crystal ingurgitava la merenda masticando con dei piccoli guaiti ansimati, che pareva un porco nano castrato più che quel gran cane di razza quale cercava di presentarsi o di essere presentato.
Crystal. Un nome di merda per un cane di merda.
Rimase in piedi osservando il barboncino che mangiava, incantandosi sulla medaglietta a forma d’osso che scampanellava impazzita. Crystal. E Sally. E la villetta fuori città. L’arredamento in mogano. Le statue di gesso per il giardino. Il giardino!
Si girò verso il salone, vuoto, silenzioso, dall’atmosfera rosso inglese. Guardò il Jack Daniel’s capovolto nel distributore di liquori accanto al camino. Il rumore dei tacchetti delle sue scarpe riempì la stanza con un leggero rimbombo. Tirò fuori la bottiglia e si voltò furtivo verso la porta, per un riflesso abituale del tipo “c’è sempre qualcuno che vede quello che stai facendo, e per quando non c’è nessuno è stato inventato dio”. Ma la casa era vuota e poteva stare “tranquillo”, per quel poco che oramai gli riusciva.

Quando risistemò la bottiglia era già buio pesto e lui non riusciva a distnguere le lancette dall’orologio, e sì che era bello grosso, che l’avevano pagato bei quattrini ma che importava, pagava daddy Leonard, e poi stava così così bene nella cucina con le piastrelle turchesi!
Che importava, si disse; Sally e la strega tornavano all’inizio della prossima settimana, ed eravamo appena a sabato, o domenica, o allo spazio vuoto tra il sabato e la domenica che ti risucchia nell’oblio. Aveva ancora tutto il tempo di recuperare gli unici due suoi jeans – da “lavoro”- nell’ultimo cassetto dell’armadio, tre maglioni e una decina di magliette, buttare tutto nello zaino da campeggio che aveva nascosto in cima all’appendiabiti nella cabina armadio (non si sa per quale strano principio della dinamica sia riuscito a recuperarlo in piedi su uno sgabello da bar, conciato com’era), fare incetta di qualche provvista… cazzo. Davvero poco verosimile una vita on the road mangiando crostini di kamut, marroni glassati e pane sardo. Si orientò verso lo scatolame. Dopo quante lattine di piselli al vapore si muore?
“Tutto quello che mi serve.”. “TUTTO – QUELLO – CHE – MI – SERVE!!!!”. Rideva quasi piangendo, emozionato come un bambino e felice come una sposa all’altare.
Aveva ancora il tempo di lasciare a Crystal la sua camera, invitandolo ad accomodarsi con un calcio debole ma ben assestato, e chiudendolo dentro. Il cibo, disseminato a dovere sul copriletto matrimoniale e nella cabina armadio, avrebbe catalizzato il processo di distruzione dei tessuti e dell’ordine che era connaturato a quel soffice mostriciattolo.
Uscì chiudendosi la porta alle spalle, senza prendere le chiavi; nel portafogli i suoi documenti, il suo libretto di risparmi e il suo ultimo stipendio. Era già troppo.

Povera Sally, le sarebbe venuta una crisi isterica. Se mai fosse tornata.

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20
Set
2010

Nèmesis

Saper vivere è la storia di un’ossessione.
L’ossessione d’amore in cui si crogiola chi ancora crede nei grandi ideali
Quei ideali impotenti che nutrono e distruggono l’anima di un sognatore.
Sognatore è colui che non si arrende di fronte l’evidenza dei fatti.
Che guarda sempre avanti. Che spera sempre oltre.

Saper vivere è la storia di una follia.
Follia indispensabile in questi tempi di pragmatismo sfrenato e cinico.
Follia è credere ancora che essere uomini, essere vivi significa saper soffrire e gioire fino in fondo.
Che l’uomo non è superiore alla bestia per il cervello, per ragione. Ma per irrazionalità, per passioni.

Saper vivere è la storia di una richiesta.
La richiesta a non smettere di godere, non smettere mai.
Non mentire a noi stessi, nascondendo la forza dei nostri bisogni.
Non cedere al mondo, che guarda da fuori le nostre passioni e le giudica sterili, vane, sbagliate.

Saper vivere è, in parte, anche la mia storia.
E’ l’urlo disperato di chi lotta contro il nuovo perbenismo che ci vorrebbe tutti coltamente disillusi.
E’ l’urlo di chi combatte il qualunquismo, l’ipocrisia, la svendita delle emozioni; di chi rivendicherà sempre il proprio diritto ad essere umano.

E quindi ad amare, senza un perché.

Difendiamo le nostre passioni.
Sono l’ultima cosa che oggi ci resta.

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19
Set
2010

Mamma non sa…

La camera si intorpidisce, il soffitto s’allontana, sprofondo.
<<Non ha mai dato l’aria di essere un tipo sveglio, e lo dice anche sua madre>>,
<<se solo potesse vederlo ora>>, sicuramente signora, sicuramente.
Un laccio emostatico mi separa da loro, sembra un teatrino, tutti si muovono,
qua e la, e io che mi credevo lontano. È un’invasione. << ma cazzo! Io lo sapevo!
l’ho sempre saputo! Cristo!>> e me lo dici solo adesso!? Idiota!
<< e ora come ne usciamo!? Cazzo! Cazzo!!>>
Gianpiero è freddo, Gianpiero non ha mai avuto un bel nome, e l’ha sempre saputo, e …
diciamo che l’ha sempre visto come uno scherzo idiota da parte di padre. In casa sono
tutti molto fieri di lui, si insomma,  fieri, fieri che il figlio, nonostante tutto non si sia
mai cacciato nei guai. E non capisce, anzi, non ha mai capito, come cazzo sia  possibile,
che nonostante gli occhi chiari e i capelli biondi, non avesse mai navigato nella figa, si qualcuna
all’orizzonte, ma di quelle che passano, e fino a quando ne rivedi un’altra passano pure gli anni.
Quell’idiota aveva una storia, una storia come tutti, e come tutti, poi, se l’è persa per strada.
Non ne ha mai parlato molto … e aveva un parere, aveva un parere per tutto, su tutto,
così come un idea, e quando ne parlava ti sembrava
di vederlo scavalcare, per un attimo, oltre il muro di cinta e tentare l’evasione.
Giampiero è fermo, immobile. Le sue pupille guardano, vedono tutto, chissà cosa poi …
<<schifoso merdoso!!  S’è cagato nei pantaloni!>>
Giampiero ha gli occhi aperti, e continua a sentirci, a vedere, e a pensare, e sente di averne
da ridire, ancora, e ancora, e  sente di non aver ancora  finito, e vuole urlare, e vuole dare il suo
personale “ vaffanculo”. Gianpiero ha dei conti in sospeso, di quelli che prima o poi avresti risolto, di quelli che se non ci pensi tu lo farà  il tempo, ma il tempo è così lento ora.
Per Gianpiero  il tempo non scorre mai.
<< Gianpiero!? Ma che cazzo di nome è!?>>
Gianpiero perde sangue dal retto, sembra proprio che tirerà le cuoia.
Stanotte  guarderà tutto da li, dal pavimento, e nessuno lo sposterà,
magari domani qualcuno finisce che lo trova, e allora saranno
problemi suoi. Per Gianpiero la vita era un problema, non irrisolvibile, ma, comunque, una fonte di stress.
Gianpiero non ha mai desiderato la morte, semmai la solitudine, eppure stranamente, a suo modo, c’è riuscito, a fargli compagnia c’è solo un laccio emostatico.
Adesso dorme, sogna, alle bollette ci penserà domani.

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